Lo studio psicologico del condottiero avversario è raccomandato da tutti gli strateghi, da Sun Tzu a von Clausewitz. Ora, questo geniale saggio colma una lacuna nella pur vastissima letteratura su Waterloo, rivelando alcuni fatti fondamentali, appunto di natura psicologica.
Il primo è l’immenso cinismo, tipicamente britannico, con il quale Wellington affrontò la battaglia, pronto a sacrificare il suo esercito con una strategia suicida. Tanto, per quel che valeva ……. Era composto in maggioranza da non britannici, quindi carne da cannone senza alcuna importanza, ed anche la minoritaria componente britannica era formata da gente che Wellington disprezzava cordialmente come feccia. Gli esseri inferiori potevano dunque ben essere sacrificati per la grandezza dei superuomini dei ceti dominanti inglesi, ai quali le traballanti ipotesi darwiniane avrebbero di lì a poco offerto ulteriori farneticanti puntelli ideologici. È opportuno ricordare che Wellington non era propriamente inglese, ma anglo-irlandese: nato a Dublino, faceva parte di quella élite coloniale inglese protestante impiantata a fare da sentinella nell’irrequieta e ingrata Irlanda cattolica, restìa a riconoscere gli immensi benefici della colonizzazione britannica. Data questa sua origine “coloniale”, Wellington era doppiamente portato ad atteggiamenti di “superiorità” nei confronti delle “razze inferiori”.
Il cinismo di Wellington fu mascherato da una morbosa segretezza. Nessuno seppe mai che cosa il condottiero britannico avesse in mente, neppure dopo la battaglia. In tal modo egli ingannò Napoleone, che credeva di aver a che fare con uno dei tanti generali che aveva sconfitto in passato, i quali ordinavano la ritirata quando la superiorità francese si faceva troppo pesante. Invece il corso si trovò di fronte una specie di “kamikaze” che a ritirarsi non ci pensava neppure. Un “kamikaze”, va aggiunto, di quelli che sacrificano gli altri, perché si può star certi che Wellington una via di fuga per sé l’avrebbe trovata. Ma il “Duca di Ferro” ingannò pure gli alleati prussiani, facendo credere che avrebbe “attaccato” Napoleone, cosa che si guardò bene dal fare.
Il terzo punto significativo è che Wellington ebbe l’intelligenza di saper riconoscere i propri limiti. Di fronte ad un genio strategico qual era Napoleone, riconobbe, fin dalla “guerra peninsulare” in Spagna, di non poter vincere contro di lui in campo aperto, e adottò una strategia di logoramento che diede otttimi frutti. Astutamente, fin dall’anno prima della battaglia di Waterloo, aveva visitato la zona e ne aveva riconosciuto le potenzialità per il tipo di battaglia che effettivamente condusse, e il cui progetto doveva avere già in mente.
Infine, è di particolare significato il ruolo magistrale esercitato dalla genialità romana. Dal grande stratega Quinto Fabio Massimo “il Temporeggiatore”, Wellington assorbì certamente il concetto fondamentale della guerra di logoramento, mentre da Scipione l’Africano dovette apprendere il concetto di consolidamento, al quale si ispirò per la fortificazione sulle linee di Torre Vedras, analoga ai Castra Cornelia creati da Scipione l’Africano subito dopo lo sbarco in Africa. Parimenti dovette ispirarsi a Roma anche l’altro supremo genio militare occidentale, il principe Eugenio di Savoia il quale, all’assedio di Belgrado del 1717, minacciato dall’esercito di soccorso di Kara Mustafa, imitò Cesare ad Alesia, diventando assediato e assediante al tempo stesso, e sconfiggendo il nemico su entrambi i fronti.
Il saggio del professor Giuliani Balestrino, Ordinario di Diritto Penale Commerciale, presso la Facoltà di Economia e Commercio dell’università di Torino, nonché Avvocato di Cassazione, dimostra come contributi essenziali per originalità e valore in campo storico possano venire da storici non professionisti, che apportano agli studi storici prospettive nuove e non convenzionali tratte da concrete esperienze professionali che pongono lo studioso maggiormente a contatto con la vita reale, evitando la classica “torre d’avorio” di chi fa solo il professore di storia. “Il segreto di Waterloo” appare estremamente convincente, per il grande numero di indizi, tutti fra loro concordanti, che l’autore espone con stile elegante ed efficace. Non era facile dire qualcosa di nuovo su un argomento sul quale sono state scritte intere biblioteche. L’Autore vi è riuscito in modo illuminante, ciò che giustifica pienamente la qualifica di geniale che, senza esitazione, si può attribuire a quest’opera.
EMILIO BIAGINI
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