I Trigotti

Necessaria precisazione: e sia ben chiaro noi non siamo bigotti.

I Trigotti

ORO O LATTA (TINACCI MOSSELLO, POLITICA DELL’AMBIENTE)

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ORO O LATTA: QUESTO È IL PROBLEMA

Abbiamo deciso di premiare con opportuni segni del nostro apprezzamento le opere letterarie e cinematografiche che hanno attratto il nostro interesse. Questa rubrica viene aggiornata quando ci pare e il nostro giudizio è inappellabile.

I TRIGOTTI

And the winner is …….

Ecco il vincitore della prossima Vipera di latta, anzi di una triplice Vipera di latta:

MARIA TINACCI MOSSELLO (2008) Politica dell’ambiente: analisi, azioni, progetti, Bologna, Il Mulino

Segue una recensione di Emilio Biagini.

Grazie alla Tinacci Mossello, abbiamo agio di osservare come una pessima geografia deborda in malapolitica. La Politica dell’ambiente (Tinacci Mossello 2008), è un ululante capitolo della vecchia insopportabile politica buonista. Per cominciare, sentiti complimenti all’autrice che, come tutti quelli che sanno l’inglese in modo approssimativo, lo infila dappertutto, fino ad inventarsi una nuova lingua, l’italglese, con trapianti massicci (senza giustificazione e senza traduzione) di termini albionici, per lo più orribili, in una prosa italiana singolarmente pesante ed involuta. Qualche esempio di tali vocaboli inflitti ai lettori: amenity, apellate body, auditors, Bads, bottom-up, bubble, caravanning, carbon tax, carrying capacity, competent body, cross section, deep ecology, deregulation, dispute settlement, divide, drivers, driving forces, ecological footprint, emission trading, empowerment, end-of-pipe, energy consuming, environment consuming, environmentally friendly, filtering down, fuel cell, governance, Goods, green procurement, hotspot, multicriteria, multilevel, partnership, path dependent, performance, plan-do-check-act, rebound, removal units, reporting, rustbelt, screening, spread, stakeholder, steady state, throughput, time series, top-down, water-saving, wind farm. Sarebbe pure interessante sapere che cosa abbiano a che fare con l’italiano frasi come: “la ‘conoscenza della conoscenza’ dello spazio costituisce una condizione necessaria per una corretta scelta delle modalità d’intervento al fine di ottenere sufficiente consenso e partecipazione” (p. 23), oppure: “Con la fondazione dell’OPEC, nel 1960, la valenza geopolitica del petrolio si è fatta esplicita” (p. 234) (forse per dire: “La fondazione dell’OPEC ha reso evidente l’importanza politica del petrolio”?).

Gli ideologi ambientalisti, al pari di quelli terzomondisti, parlano malvolentieri di sviluppo, perché questo implicherebbe riconoscere il ruolo chiave delle innovazioni, che mette in ombra la pura e semplice “crescita”: il loro chiodo fisso, sul quale battono sempre per “dimostrare” che, prima o poi, la “crescita” stessa, puramente quantitativa e senza i balzi innovativi dello sviluppo, urterà contro le costrizioni di un pianeta “limitato”. Per la Tinacci Mossello, il concetto di crescita “potenziata dal mercato e dal sistema delle innovazioni, con riferimenti spaziali sempre sottintesi e mai esplicitati” (p. 30), ha poco a che fare con lo sviluppo. Ha poco a che fare anche con una conoscenza aggiornata della letteratura geografica sullo sviluppo. Infatti, in un successivo articolo, l’autrice osserva compiaciuta “un risveglio di interesse per la geografia economica” e, con disarmante candore, rileva che questa dovrà sviluppare “ricerche che pongano attenzione all’innovazione, allo sviluppo”, continuando a ignorare che esistono già, in materia di innovazioni e sviluppo, ampie basi di inquadramento teorico e di ricerche empiriche, citate sopra e aventi come punto di partenza la fondamentale opera di John Friedmann. Frattanto, la sottodivisione “Geografia economica” è stata abolita dall’ordinamento universitario nazionale, mentre nella scuola italiana si assiste alla crescente sparizione della geografia: complimenti a chi per decenni ha avuto il potere accademico in Italia e ha così persuasivamente rappresentato la disciplina geografica presso gli studenti, l’opinione pubblica e i politici.

La ridicola chiassata ambientalista della Tinacci evidentemente riposa su una base culturale irta di attardamenti, malintesi ed errori. Solo pochi esempi fra i tanti. L’autrice parla di “specie umane”, al plurale (p. 34). Errore di stampa o bizzarra credenza che ce ne sia più di una, come si favoleggiava due secoli fa? E un po’di aggiornamento di glaciologia non guasterebbe: la Tinacci afferma che nell’era glaciale vi sono state “quattro glaciazioni” (p. 243), ma, grazie alle ricerche sugli isotopi dell’ossigeno in carotaggi di sedimenti nel mare del Nord, si sa da un pezzo che sono state una quindicina. E c’è poi la “alterazione della copertura glaciale fin nel cuore dell’Antartide” (p. 34), in totale contrasto coi dati scientifici (Sugden 1996). Nel modello della transizione demografica manca la fase di declino (p. 36), che l’autrice, evidentemente, ignora, o sceglie di ignorare, sebbene sia sotto gli occhi di tutti, con l’intera Europa, e specialmente l’Italia, che balla forsennata sull’orlo della tomba, in preda alla sindrome di Crono. Ma nonostante ciò, insiste la Tinacci, la “biomassa umana nell’ecosistema terrestre [è] (…) insufficientemente frenata dalla ‘transizione demografica’” (sic, p. 120). E che salto di qualità, che elevazione, da creature a immagine e somiglianza di Dio a “biomassa umana”. L’ateismo finge di “liberare” l’uomo ed elevarlo a più alta espressione dell’universo e lo riduce a massa bruta, “biomassa”.

Prendere sul serio la metafora della “terra-navicella spaziale” di Boulding (p. 43) e citare come fosse l’oracolo lo screditatissimo Club di Roma (p. 44) è coerente con la malascienza del terrorismo ambientalista in cui la Tinacci affoga. Anche se, non potendo farne a meno, si rende conto che i modelli elaborati dal Club sono falliti, la Tinacci insiste che essi valgono ugualmente non tanto per i risultati, quanto per “la logica del funzionamento del sistema, l’obiettivo del procedimento” (p. 122). Tradotta in italiano questa contorta affermazione vorrebbe far credere che i risultati del Club di Roma sono sballati sì, ma l’idea dev’essere per forza buona lo stesso. Quando si dice il partito preso.

“Il famoso modello di Lowelock [sic, in realtà Lovelock] della Terra-sistema vivente, al di là della sua criticabilità sul piano scientifico, ha un importante valore metaforico” (p. 290). Sempre avanti così, navigando nella nebbia del relativismo, a forza di “opinioni prevalenti” e di “metafore” del tipo: “nessuno si sentirebbe di caricare la stiva della nave fino a farla scendere al di sotto della linea di galleggiamento” (p. 379), cercando di supplire all’inconsistenza scientifica con espressioni immaginifiche di natura esclusivamente propagandistica. Superfluo ricordare che nella nave la linea di galleggiamento è ben visibile, mentre i “limiti allo sviluppo” sono solo negli annebbiati cervelli degli ambientalisti e nei piani dei loro mentori, gli usurai mondiali.

Fa uno strano effetto leggere che “la crisi petrolifera si è incaricata di dar credito alle ipotesi pessimistiche dei Limits[appunto il pamphlet del Club di Roma Limits to growth] riguardo alle risorse non rinnovabili” (p. 70), mentre è noto che la crisi petrolifera aveva soprattutto ragioni politiche, legate al problema israelo-palestinese e alla svalutazione del dollaro, del tutto avulse dal problema ambientale, mentre ci sono enormi vantaggi, in termini di soldi e di fama, a fare chiasso con buffonate politicamente corrette come quella di Rachel Carson, che la Tinacci prende invece straordinariamente sul serio, tanto da proclamare che “in Primavera silenziosa aveva appassionatamente denunciato gli effetti perversi degli insetticidi sull’avifauna” (sic, p. 70). Purtroppo l’ecoterrorismo scatenato dalla Carson continua a colpire, grazie a sedicenti “studiosi” che continuano a ripetere le medesime frottole, non si capisce se per ignoranza o malafede (probabilmente per tutte e due). Ed ecco infatti la Tinacci esprimere timori per la biodiversità, l’avvelenamento della catena alimentare, la strage di specie non ancora scoperte (p. 287). Da costei, come da una schiera di altri ambientalisti, apprendiamo che “gli specchi d’acqua dolce hanno una grande importanza per la biodiversità” (p. 292): sentiti ringraziamenti a nome delle zanzare e dei plasmodi della malaria.

Poiché, a dispetto dei proclami apocalittici, solide ragioni scientifiche a sostegno del terrorismo ambientalista scarseggiano, l’autrice fa appello al “dubbio assai diffuso e mai più confutato” che possano verificarsi “autentiche catastrofi ecologiche, se non si porrà mano a importanti azioni di politica ambientale” (p. 45). Dunque la guida all’azione dev’essere, al posto dei dati scientifici, una più o meno diffusa diceria, e cioè un allarme che gli ambientalisti stessi hanno propalato. L’allarmismo ambientalista ha inventato il concetto di “biosicurezza”, strumento propagandistico mirato contro gli OGM, cui è stato dedicato il protocollo di Cartagena il quale (p. 304): “diretta conseguenza della Convenzione di Rio sulla biodiversità, aperto alla firma a Nairobi nel 2000 e sottoscritto da più di cento paesi, stabilisce l’obbligo di etichettare come geneticamente modificati tutti i prodotti che contengono OGM (…). Nel 2003 un gruppo di paesi europei, fra cui l’Italia, spinti da un’opinione pubblica allarmata dai rischi di danni alla salute e all’ecosistema eventualmente derivanti dalla diffusione degli OGM, aveva stabilito una moratoria sul libero commercio delle sementi e dei prodotti GM, il cui obiettivo politico era quello di arrivare a istituire una normativa adeguata sulla tracciabilità e l’etichettatura dei prodotti.”

Così si spargono allarmi, chi ha investito nel grosso affare dell’agricoltura cosiddetta “biologica” prospera, mentre le innovazioni vengono bloccate. Ma guai a chi dubita, infatti “da fonti non sospette [sic !?!] come il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (…), la FAO, la British Medical Association giungono inviti ad adottare nei confronti dei prodotti biotecnologici il principio di precauzione e molti paesi europei, fra cui l’Italia, hanno proibito o fortemente limitato la possibilità di coltivare OGM sul proprio territorio” (p. 305). E perché “fonti non sospette”? Come se gli “scienziati” dell’Onu, della FAO, della BMA fossero puri eroi, impermeabili alle lusinghe e al desiderio di compiacere i poteri forti e di mettersi in mostra lanciando allarmi e spaventando la gente, al servizio dei privilegi dell’agricoltura “biologica”. E quali prove ci sono di un qualsiasi danno recato dagli OGM? Il principio di precauzione agisce come la “legge dei sospetti” di sanguinosa memoria robespierriana. La ghigliottina non ha bisogno di giustificazioni, basta che sia ben affilata. Potere e repressione invece di scienza.

Potere a difesa dei privilegi troviamo anche nel mito dello “stato stazionario”, ripreso dall’economista americano Herman Daly (1974), sulla base dell’utopia di John Stuart Mill, che consiste nella proposta di bloccare il consumo di risorse e il numero di abitanti (v. pure Daly 1981, 2001). La Tinacci riporta con approvazione la “lontana e solida radice” [sic !?!] dello stato stazionario, cioè della paralisi assoluta, nella cultura classica (pagana), ossia nel dialogo “La repubblica” di Platone (p. 46). Il quale, eugenista e totalitario, in quel famoso dialogo dipinge, una società da incubo tiranneggiata dai “sapienti” (dai quali Dio ci scampi e liberi). Il tutto non è che una manifestazione patologica nota come l’orrenda “sindrome di Crono”. È l’altra faccia della cultura della morte: l’irrazionale rifiuto della morte stessa, tipico di chi non ha Fede in Dio, e quindi crede alle favole, illudendosi che l’umanità possa, di forza propria, salvarsi. Un rifiuto a cui la Tinacci tenta di dare espressione simil-scientifica: “L’obiettivo dello steady state è quello di realizzare una condizione di quasi-immortalità per la specie umana, al di là della condizione mortale del singolo individuo” (sic, p. 47).

In modo assurdamente frivolo, la Tinacci si impanca quindi a trattare dei problemi ultimi dell’esistenza con farneticazioni di questo genere (p. 296): “(…) le tradizioni induista e buddista, attraverso la dottrina della reincarnazione, sottolineano la continuità fra gli uomini e tutti gli altri esseri viventi e dovrebbero essere più consone all’obiettivo di fermare la distruzione del mondo naturale, di quanto non lo sia la tradizione antropocentrica di matrice giudaico-cristiana, che costituisce la matrice religiosa dell’etica del mondo occidentale.”

La religione viene quindi banalizzata e relativizzata in soli termini di congruenza o meno con le fisime ambientaliste, da parte di chi evidentemente non crede né a Cristo né a Khrishna né a Budda, e non ritiene che porsi i problemi fondamentali dell’esistenza (chi siamo? da dove veniamo? dove andiamo? è possibile che il mondo si sia fatto da solo? l’esistenza ha un significato e uno scopo?) abbia alcuna importanza. Del resto, l’etica del mondo occidentale non è ormai più nella tradizione giudaico-cristiana; l’impronta dominante è quella laicista, atea, materialista, esoterica, iniziatica, magica, massonica. Siamo arrivati al punto che un cristiano non può permettersi di mostrarsi tale all’università perché diventa bersaglio di calunnie, attacchi mediatici, persecuzioni d’ogni genere, mentre qualunque altra idea, per demenziale che sia, purché non cristiana, riceve ampi incoraggiamenti. E guai ad accennare alle radici cristiane, alla sacralità della famiglia o alla cristofobia dilagante.

La stessa frivolezza e superficialità con cui tocca la religione viene riservata dalla Tinacci anche al grande problema etico della manipolazione genetica, che secondo lei non fa che provocare “un inevitabile relativismo valoriale” (sic, p. 300): siamo alla rinuncia a qualsiasi idea costruttiva sull’argomento, a qualunque serio tentativo di ragionare, lasciando campo libero al relativismo dei valori, cioè all’anarchia morale. Uno dei venditori di utopie, al quale la Tinacci attribuisce grande importanza, è il Georgescu-Roegen (1976), autore di un “programma bioeconomico”, che detta le norme di una “nuova etica biologica”, la quale dovrebbe “tener conto del valore delle generazioni future”, in modo che la distribuzione delle risorse terrestri sia “il più possibile intergenerazionale” (p. 52), ciò che, tradotto in italiano, dovrebbe significare: “consuma meno per lasciare ai tuoi figli, nipoti e pronipoti, tanto che possano a loro volta consumare”. Ma che dice questo “libro dei sogni”? Senza timore di far concorrenza a Fantasyland, questo involontario umorista afferma la necessità di: “1. eliminare non solo la guerra ma la stessa produzione di armi [utopia rampante]; 2. ridurre progressivamente le differenze fra i livelli di vita del Nord e del Sud del mondo [non indica come: ecco un altro che sollecita il livellamento della ricchezza senza preoccuparsi affatto di come venga prodotta]; 3. ridurre progressivamente il popolamento terrestre fino a un livello che ne permetta la nutrizione attraverso l’agricoltura organica [squallido malthusianesimo: significa distruggere alcune popolazioni mentre altre, refrattarie a qualunque forma di ideologia occidentale, come quelle islamiche, dilagheranno; frattanto gli speculatori dell’agricoltura “organica” faranno affari d’oro]; 4. eliminare tutti gli sprechi energetici almeno finché non si sarà resa utilizzabile l’energia solare o termonucleare [proposta apparentemente sensata, ma come stabilire cos’è uno spreco: se sono freddoloso perché non dovrei alzare il riscaldamento? e se i caloriferi troppo bassi o spenti mi causano una bronco-polmonite e, oltre a perdere ore di lavoro, divento un peso per il servizio sanitario? allora dove va finire il risparmio? e se un’industria consuma energia per produrre oggetti di lusso che facciamo? chiudiamo la fabbrica e gettiamo sul lastrico gli operai? e che vuol dire “rendere utilizzabile l’energia termonucleare”? è già utilizzabile, non fosse che per le interessate fisime degli ambientalisti, dietro i quali stanno le potenti schiere di superpetrolieri e sceicchi]; 5. evitare i consumi di gadget e di beni di lusso a elevato consumo energetico (ad es. le auto di grossa cilindrata) [gettando così sul lastrico milioni di persone che vivono producendo gadget e beni di lusso; ah, già, ma intanto bisogna ridurre la popolazione, quindi che muoiano pure di fame con le loro famiglie]; 6. eliminare le sostituzioni dettate dalla moda [monotonia e noia assicurate]; 7. organizzare la produzione in modo da incrementare la durata e la riparabilità dei prodotti; 8. godere del tempo libero evitando la velocizzazione fine a se stessa” (p. 52). Soltanto gli ultimi due suggerimenti possono considerarsi abbastanza sensati, ma sono punti di minore importanza, che quasi scompaiono di fronte all’arroganza totalitaria di chi vuol imporre la propria squallida visione del mondo agli altri, obbligandoli a vivere nella gabbia da lui stesso inventata. Ossessiva è l’insistenza su “una drastica riduzione della (crescita della) popolazione” (p. 54), ispirata dalla grande finanza iniziatica (ossia massonica). Va tenuto presente che Daly è stato senior economist presso la Banca Mondiale, è quindo ovvio che dalla sua bocca parla il regime mondialista usuraio.

Ma perché l’energia solare non ha ancora avuto successo? Lamenta la Tinacci che il programma “10.000 tetti fotovoltaici (…) lanciato dal ministero dell’Ambiente nel 2001, prevedeva un contributo a fondo perduto pari al 75% del costo d’installazione, con lo scopo di costituire le condizioni di avvio di un circolo virtuoso che avrebbe spinto a produzioni e installazioni su larga scala. Niente di tutto questo si è realizzato, perché la parte pur ridotta di costo in conto capitale aveva comunque un ritorno troppo lungo attraverso il risparmio di energia sostituita, dato che non era garantita la possibilità di vendita dell’energia prodotta” (p. 233). Nemmeno con gigantesche facilitazioni (a spese dei contribuenti) si riesce ad evitare il fallimento delle energie alternative. Per la Tinacci, “il settore non è ancora decollato per l’assenza di adeguati meccanismi di incentivazione” (p. 209). Ma le fonti energetiche efficaci non sono forse state sviluppate senza altra incentivazione che il fatto che funzionavano e ce n’era bisogno? E se per quelle “alternative” occorre un megabiberon statale e nemmeno quello basta, forse è lecito qualche dubbio sulla loro efficacia, tutte così bisognose come sono, poverine, di “incentivi”, incoraggiamenti, sostegni, stampelle, spintarelle, pacche sulla schiena. Comunque, gli ambientalisti possono rallegrarsi per i successi ottenuti in campo energetico nel 2011, in piena crisi economica, anno nel quale l’Italia ha installato nuovi impianti eolici per 950 MW (il 10% di tutto il nuovo eolico in Europa), che hanno portato la potenza totale a 6.747 MW con una spesa vicina ai 3 miliardi di euro. Forse potevano essere spesi meglio.

Ma non basta. Apprendiamo da Antidoti contro i veleni della cultura contemporanea (Rino Cammilleri, 9 marzo 2013, rino.cammilleri@gmail.com) che “L’esperto Fabio Spina, in un articolo su la Nuova Bussola Quotidiana del 21 febbraio 2013, ricorda che ‘in un editoriale del 3 febbraio del Corriere della Sera, da sempre schierato per la green economy anche con inserti ad hoc, è stato scritto: “Qualche anno fa, per favorire gli investimenti in energie rinnovabili si decise di sussidiare l’installazione di pannelli solari. Per far presto furono concessi incentivi che oggi, a pannelli installati, si traducono in una rendita di circa 11 miliardi di euro l’anno: li pagano tutte le famiglie nella bolletta elettrica e vanno a poche migliaia di fortunati. Non solo si è creata un’enorme rendita che durerà per almeno un ventennio: si è favorita una tecnologia che a distanza di pochi anni è già vecchia. Oggi l’energia solare si può catturare semplicemente usando una pittura sul tetto, con costi e impatto ambientale molto minori. Ma i nostri pannelli rimarranno lì per vent’anni e nessuno si è chiesto quanto costerà e che effetti ambientali produrrà la loro eliminazione.”

Ma la paranoia ambientalista non lascia spazio ad analisi razionali; piuttosto naviga in un mare di fantasie e terrori travestiti da scienza, pronta a dichiarare che i risultati non contano di fronte al “valore metaforico” delle chiacchiere degli ambientalisti stessi, o alla “consapevolezza critica” che essi devono suscitare. In linea con la definizione di “sviluppo sostenibile” elaborata dalla fantasiosa commissione Brundtland, Daly & Cobb (1994) propongono un “indice di sviluppo economico sostenibile” (p. 55) basato sui consumi pro capite anziché sul reddito, e propongono variabili come “disagi ambientali”, “deterioramento ed esaurimento delle risorse”, ed altre piacevolezze ambientalistiche di difficilissima se non impossibile misurazione.

Altrettanto evanescente il metodo dell’“impronta ecologica”, proposto da Wackernagel & Rees (2001), “un modello atto a misurare la superficie necessaria equivalente di territorio impegnato nella produzione energetica, alimentare e forestale e dagli usi improduttivi (edifici e infrastrutture) e a testimoniare (…) l’esistenza di un sistema ecologico “pieno” di attività umane e dunque del tutto artificializzato, a rischio della sua stessa carrying capacity” (p. 56); “le informazioni sintetiche che si ricavano dal calcolo dell’impronta ecologica sono essenzialmente due, da un lato, quello di impatto pro capite pericolosamente elevato e crescente; dall’altro, quello dell’esistenza di una specifica condizione di squilibrio fra il consumo e la disponibilità di risorse nei paesi avanzati, dove si misurano ovunque impronte superiori ai tre ettari per persona, mentre la disponibilità media mondiale è inferiore ai due ettari pro capite; questo è possibile perché i paesi più poveri hanno impronte medie per persona inferiori all’unità e forniscono ‘spazi ecologici’ al resto del mondo” (p. 168). I talebani dell’ambiente non sono mai sfiorati dall’idea che se il Nord del mondo ha di più è perché lo ha costruito con l’ingegno, ossia con le innovazioni, con le idee prima ancora che con la materia. Inoltre il calcolo dell’impronta ecologica è soggetto a tanti e tali assunti arbitrari che si può dire abbia valore retorico e ideologico piuttosto che scientifico. L’impronta ecologica “si propone di rivelare la ‘dismisura’ fra la crescita economica e i limiti fisici del sistema Terra” (p. 166), ma è significativo il fatto che la stessa Tinacci Mossello non si senta di riconoscere il metodo come vero e proprio “strumento di analisi” ma, al solito, come “un modello teso a sviluppare consapevolezza critica [sic!?!] nei confronti di un’espansione economica senza fine su un pianeta limitato” (p. 56), con “forti elementi di approssimazione statistica” (p. 167): quindi nient’altro che grossolana propaganda al servizio dei poteri forti che mirano a mummificare società, economia, vita, per preservare gli equilibri di potere esistenti. Il modello moltiplica le tre cosiddette “componenti di impatto”: popolazione x reddito x tecnologia. Ma non è forse come moltiplicare mele x castagne x asini? La componente del territorio dedicata all’energia è valutata “pari alla superficie necessaria ad assorbire l’anidride carbonica rilasciata dal consumo dei combustibili fossili, ponendo come obiettivo la stabilità della concentrazione di CO2 nell’atmosfera” (p. 57).

L’uso di combustibili fossili, a dire della Tinacci Mossello, avrebbe “pesanti effetti di impatto ambientale in termini di inquinamento atmosferico: si calcola che ne derivino non soltanto i 3/4 delle emissioni di anidride carbonica e 1/5 di quelle di metano, entrambi gas che hanno effetto serra, ma anche grandi quantità di ossidi di azoto e di zolfo, di monossido di carbonio e di altri gas serra che alterano la distribuzione nell’atmosfera dell’ozono” (p. 216). I medesimi gas vengono emessi dai vulcani in quantità enormemente maggiori, senza contare che il principale gas serra è il vapore acqueo, non l’anidride carbonica. Naturalmente la Tinacci Mossello, come tutti i folgorati dal “vangelo” ambientalista, si guarda bene dal rilevare questi insignificanti dettagli.

L’autrice dà invece la stura al più sinistro terrorismo ecologico, parlando acriticamente di “effetti nefasti del global warming [inutile anglicismo per “riscaldamento globale”] sulla salute umana” [sic, p. 367]. Ma quali? E come si può affermare con tanta sicurezza che “ogni cambiamento climatico è ampiamente influenzato dalle azioni umane” (p. 290)? Ma la scappatoia è dietro l’angolo, perché la sullodata autrice si affretta ad aggiungere: “o almeno questo è ciò che crede la maggior parte degli scienziati” [sic!?!]. “I piccoli stati insulari stanno già sperimentando gli effetti avversi del cambiamento climatico, sia per effetto dell’innalzamento del livello del mare – che su coste basse è già sensibile — sia a causa dell’alterazione dei regimi delle piogge, della variazione di temperatura della superficie marina, del deterioramento delle barriere coralline, dell’infittirsi delle mareggiate” [sic, p. 366]. E se l’innalzamento del livello marino non c’è lo si inventa, come nel caso delle Maldive. L’autrice insiste su “un cambiamento climatico in atto che non avrebbe precedenti nella storia del clima e che viene descritto comunemente come un effetto-serra prodotto dall’elevata concentrazione di CO2 nell’atmosfera terrestre, della quale sarebbe a sua volta responsabile la grande accelerazione della produzione industriale e della circolazione di merci e persone. Tale processo, messo sotto osservazione da singoli studiosi e da centri di ricerca in diversi paesi del mondo, ha dato luogo nel 1988 all’istituzione dell’IPCC (International Panel on Climate Change), creato dall’Onu attraverso la WMO (World Meteorological Organization) e l’UNEP (United Nations Environmental Program)” (p. 245).

Tanta sollecitudine per il bene dell’umanità è stata debitamente premiata: il “premio Nobel per la pace 2007 è stato assegnato all’IPCC e ad Al Gore, ex vicepresidente degli Stati Uniti [proprietario della nota costosissima villa dove si consuma tanta energia quanto una piccola città], per i loro sforzi nella diffusione delle conoscenze a proposito dei cambiamenti climatici e delle azioni necessarie per contrastarli o mitigarli” (p. 81). “Il ‘rischio ambiente’ a scala planetaria è divenuto un argomento ricorrente della comunicazione di massa in seguito ai rapporti dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (p. 113). Non basta: “successivi rapporti dell’IPCC sono stati più pessimisti sul cambiamento del clima e più decisi nel denunciarne le responsabilità umane” (p. 244). Forse diventavano sempre più pessimisti man mano che taroccavano i dati?

Il piagnisteo ambientalista ben si coniuga con quello terzomondista. Anzitutto, perché il piagnisteo venga bene, occorre ripetere quanto lo screditato e mutante Lacoste (1965, 1976, 1983), aveva cercato di accreditare, e cioè che “l’arretratezza economica dei paesi del Sud del mondo è un fenomeno moderno” ( p. 353), in modo da poterne dare la colpa a chi “arretrato” non è, cioè l’Occidente. Se emergesse il fatto fondamentale che tutto il mondo, Nord e Sud, era arretrato prima dell’esplosivo sviluppo occidentale, la bolla di sapone terzomondista scoppierebbe. È invece la prosperità del Nord del mondo che è un fenomeno moderno, e ciò per contrasto fa risaltare l’arretratezza relativa del Sud. Il Nord del mondo, o meglio l’Occidente europeo, ha avuto la capacità di sollevarsi da solo, senza aiuti, grazie a una società dinamica, cioè aperta alle innovazioni, grazie all’ottimismo cristiano. È senz’altro vero che ha poi sfruttato il più debole Sud, ma ha potuto farlo precisamente perché era più sviluppato e quindi più forte, grazie a un processo di sviluppo che si alimentava dall’interno. L’Inghilterra del Seicento era già il paese più ricco del mondo prima di diventare una grande potenza coloniale, e lo stesso può dirsi dell’Olanda (Biagini 2007). La mistificazione terzomondista, che dà importanza solo ai fattori esterni dello sviluppo, ignorando quelli interni dei singoli paesi, è una disonesta mistificazione utile agli orfanelli di Marx per demonizzare l’Occidente.

Il fatto poi l’Occidente si stia sconfiggendo da solo è tutta un’altra storia. Si sta autodistruggendo con veleni (denatalità e altre forme di disfacimento interno) inoculati dagli usurai mondiali, con il volonteroso aiuto degli orfanelli di Marx.

Nell’argomentare della Tinacci Mossello, l’ideologia ambientalista si intreccia con quella terzomondista, che insiste sulle impronte ecologiche “largamente inferiori alla media” dei paesi del “terzo mondo”, i quali dunque “fornirebbero” ai paesi avanzati “la base ecologica del loro benessere” (sic, p. 58), da cui l’“iniqua distribuzione delle risorse ambientali fra il Nord e il Sud del mondo” e l’“insostenibilità ambientale dei sistemi economici avanzati” (p. 167). Ma se nel “terzo mondo” hanno meno bisogno di spazio, siamo forse noi a portarglielo via? e in che modo? E ancora: perché la “crescente mobilitazione energetica produce effetti non secondari di esclusione sociale, di disoccupazione e di lavoro precario” (sic, p. 60)? Ma come avverrebbe? Con più energia a disposizione non si ha forse la possibilità di generare un maggior numero di posti di lavoro? Ma che importano ai settari, comodi nelle loro poltrone, i posti di lavoro degli altri? Anzi, dato che c’è “troppa” popolazione, “gli altri” vanno eliminati. Altro che preoccuparsi della disoccupazione.

Con linguaggio terroristico viene pure agitato il fantasma della “rapina dei consumi attuali nei confronti delle generazioni future”, che lederebbe un altro dei feticci ambientalisti: l’“equità intergenerazionale” (p. 208). Ma la stessa Tinacci Mossello afferma che è “terribilmente difficile” trarre dal decadimento entropico di energia “le dovute conseguenze sul piano dei limiti alle scelte umane” (p. 59). Non è chiaro se ciò significhi che è difficile persuadere la gente a credere nei fantomatici “limiti allo sviluppo”, oppure se si debba intendere con ciò la difficoltà di misurare tali limiti. Visto il carattere pseudoscientifico e declamatorio di questo testo, l’ipotesi più probabile è la prima. Ma, a proposito di decadimento entropico, si prospetta un caso ancor più strano: l’ostinato rifiuto materialistico a trarre le conclusioni filosofiche dall’incontestabile aumento irreversibile dell’entropia nell’universo, che presuppone la non-autosufficienza dell’universo stesso, come pure dalle enormi difficoltà incontrate dal darwinismo. Infatti, asserisce la Tinacci, “come sappiamo, Darwin è stato il primo a sostenere e dimostrare che la riproduzione in natura avviene con la selezione degli individui più adatti, che a loro volta per selezione ereditaria trasmettono i loro caratteri più ‘forti’ alla generazione successiva. (…) Darwin ebbe grande attenzione per la teoria di Malthus e per le sue osservazioni sulla riproduzione umana incontrollata” (p. 289). Abbiamo già visto come Malthus non sia che un prodotto dell’Inghilterra imperialista, le cui classi dominanti erano terrorizzate dall’aumento dei poveri e dalle prospettive di rivoluzione sociale.

A proposito dei “rifiuti radioattivi che rimangono tali per decine di migliaia di anni” ( p. 61), esistono soluzioni che l’autrice non conosce o forse preferisce ignorare, come il seppellimento in fondo al mare in prossimità di fosse oceaniche, del quale è stato fatto cenno sopra. E poi togliamoci dalla testa che solo le centrali e le loro scorie siano radioattive; ci sono potenti fonti radioattive naturali. Il granito, costituente primario della crosta continentale, è cospicuamente radioattivo. Ad esempio, al sud-ovest dell’Inghilterra (Cornovaglia e Devonshire), soggiace un imponente batolite granitico, e la radioattività naturale vi è elevata in modo preoccupante: intorno al 12% delle case nelle contee della Cornovaglia, del Devon e di parte del Somerset hanno concentrazioni di radon superiori a 200 Becquerel per metro cubo, e non vi è alcuna centrale nucleare nella regione, come pure nelle Midlands, eppure circa il 10% delle abitazioni in due contee delle stesse Midlands, Northamptonshire e Derbyshire, hanno un analogo problema. Gli ambientalisti del Regno Unito hanno sostenuto che la vicinanza delle centrali nucleari produce malattie genetiche nelle popolazioni circostanti. Ma queste centrali si trovano in zone remote e scarsamente popolate, dove sono frequenti i matrimoni fra consanguinei, e questo spiega ampiamente l’insorgere di malattie genetiche.

Naturalmente, al pari di molti altri “geografi”, o sedicenti tali, incantati o dal verbo marxista o da quello ambientalista o da tutti e due, la Tinacci Mossello aderisce senza riserve alla prospettiva relativistica del Kuhn (1\962), e parla anzi del concetto di “sviluppo sostenibile”: già vago di per sé, come del “nuovo paradigma” kuhniano (sic, p. 62). Né mancano insulsi svolazzi sentimentali, come “ritrovare le radici della felicità del vivere fuori dalle condizioni della crescita, dell’aumento della produttività, del potere di acquisto e dei consumi, grazie a una vita sociale ‘conviviale’, ricca di relazioni interpersonali, di legami con i luoghi, di atteggiamenti cooperativi” (p. 65). Utopia conviviale di stampo quainesco (Quaini 2006): sicura ricetta per una comunità hippy, supremo rifugio arcadico per gli orfanelli del marxismo fallito, rifugiatisi nel circo Barnum ambientalista che, spinto dai poteri mondialisti usurai, marcia come un rullo compressore verso l’inevitabile catastrofe economica e sociale che esso stesso provoca.

La Tinacci Mossello ne riassume con approvazione le tappe: “è dagli anni settanta che si registra una netta accelerazione nella produzione internazionale di norme multilaterali per l’ambiente. Come abbiamo visto, dalla Conferenza di Stoccolma è derivata l’istituzione dell’UNEP (United Nations Environmental Program), che costituisce di fatto l’autorità ambientale di livello globale e ha promosso sia l’istituzione della WCED (World Commission on Environment and Development), meglio nota come “commissione Brundtland”, sia l’organizzazione delle due conferenze di Rio e di Johannesburg” (p. 360). Prove di dittatura mondiale dei poteri iniziatici, neopagani e magici dell’usurocrazia globale. Nel 1987, “un altro anno simbolo per la politica dell’ambiente” (p. 71), secondo il commento trionfalistico della Tinacci Mossello, viene firmato il Protocollo di Montreal e pubblicato il rapporto Brundtland, intitolato Our Common Future (Il nostro futuro comune), “che fissa i principi e gli obiettivi dello sviluppo sostenibile, un processo che di lì prenderà il via per diventare un autentico paradigma nel senso kuhniano del termine, non solo per la comunicazione politica, ma anche per il pensiero scientifico e la ricerca” (ibid.). Significativo il fatto di anteporre la politica alla scienza, del resto la cattedra della Tinacci non si chiama “Geografia”, ma “Politica dell’ambiente”. Il tutto all’insegna del mito della “sostenibilità, ossia (il progetto per) l’esistenza di un futuro di ‘ben essere’” (sic, p. 73). “Il progetto [si parla sempre di sostenibilità, in relazione alla dichiarazione di Rio del 1992] di per sé è parte costitutiva della natura umana” (sic, p. 74) Addirittura. Eh, già, fin dalla preistoria gli uomini invocavano la sostenibilità. “Rio ha avuto anche un rilevante portato istituzionale, con la creazione della commissione per lo sviluppo sostenibile” (p. 75). E chi paga per questo e gli altri simili carrozzoni burocratici? chi paga per queste prove generali di dittatura mondiale pilotata dai magnati della grande finanza usuraia e iniziatica? “Con una significativa coincidenza storica, proprio nello stesso anno in cui si teneva la Conferenza di Rio [1992] era stato firmato a Maastricht il Trattato dell’Unione, che inseriva la politica di protezione dell’ambiente come elemento di contesto necessario al progresso economico e sociale dei popoli dell’Europa” (p. 249). Ed ecco l’Europa senza radici, esposta a devastanti crisi economiche provocate dalla speculazione della finanzia usuraia, avviata all’estinzione fisica per denatalità, ma drogata dall’idolatria ambientalista.

La sostenibilità deve pure essere “forte”: “La sostenibilità forte assume l’esistenza di un livello critico del capitale naturale, al di sotto del quale non può scendere, pena la messa a rischio della sopravvivenza del sistema-Terra” (p. 75). “La sostenibilità forte costituisce dunque un obiettivo che implica di fatto un giudizio di non sostenibilità delle economie sviluppate, così come sembrerebbe dimostrato anche dai calcoli dell’impronta ecologica, e la proposta di un loro contenimento, certo difficile da perseguire in un contesto di economia capitalistica di mercato per sua natura finalizzata alla crescita.” (p. 76). È con idee del genere, dilaganti nei campus americani nella sinistra epoca della contestazione sessantottarda, che dall’alto delle cattedre sono stati aizzati i “Black Bloc” (Mazza 2002, Rapetto & Di Nunzio 2001). Uno dei centri di tale propaganda sovversiva era proprio la (apparentemente tranquilla) Oregon State University, dove mi trovavo come borsista Fulbright nel 1971, e dove ho potuto ascoltare certe lezioni che sembravano furibondi comizi contro la “crescita” e in favore del “bisogno di sterilizzare la gente in modo obbligatorio, perché se la sterilizzazione fosse solo volontaria eliminerebbe dalla popolazione mondiale solo gli elementi responsabili [sic!], lasciando la terra popolata di irresponsabili che si moltiplicano come conigli”. Quei comizi travestiti da lezioni universitarie sembravano estremamente persuasivi, molto più di quelli dei loro tardi epigoni italiani. Confesso di avervi creduto inizialmente anch’io, che avevo già trent’anni e tre lauree; figuriamoci l’effetto su un diciottenne.

Le esternazioni conformistiche e politicamente corrette della Tinacci Mossello mirano da una parte a tranquillizzare i lettori: tutto andrà bene nonostante i lacci e lacciuoli ambientalisti, che conducono a uno sbocco autoritario ben preciso. “Secondo Pearce e Turner (1991), si potrebbe pensare ad una crescita basata più sull’uso sostenibile di risorse naturali rinnovabili e meno sull’utilizzo intensivo di risorse non rinnovabili, oppure ad un sistema economico ‘altamente tecnologico’ nel quale la crescita si basa su un uso molto limitato di risorse naturali come input alla produzione e su un elevato progresso tecnico, con la conseguenza che non sarebbe necessariamente vero, come presumono in molti, che un sistema economico vincolato da un punto di vista ecologico abbia un basso tasso di crescita e sia caratterizzato da un regime di austerità” (p. 76, corsivo nel testo). Nessuna preoccupazione: a tutto penserà il Grande Fratello, infatti “Rotillon (2005) ipotizza il possibile intervento di un ‘dittatore benevolo’” (p. 76). Finalmente è gettata la maschera: uscendo dalla nebbia utopistica, ecco a cosa mirano: la dittatura, e nella sua forma più ipocrita. Non siamo troppo lontani dalla realizzazione di un simile obiettivo, se consideriamo che (…) “lo sviluppo sostenibile è entrato a far parte della nuova Costituzione europea, non con un valore aggiuntivo e strumentale rispetto alla crescita economica, alla piena occupazione e al progresso sociale, ma con un carattere fondativo e sovraordinato a tutti gli altri obiettivi (art. 3, punto 3)” (p. 85).

Naturalmente non poteva mancare la soave “parità di genere”, indicata fra gli obiettivi della Dichiarazione del Millennio delle Nazioni Unite del 2000 (p. 79), che la Tinacci, in tono ispirato, chiama “un momento alto della globalizzazione della politica ambientale e sociale” (p. 331). La forza di tali operazioni di propaganda sta nella loro ripetizione, ed ecco quindi: la “fondata quanto condivisa ipotesi antropogenica dei fenomeni di cambiamento climatico in atto”, e il “sempre più conclamato processo di cambiamento climatico” (p. 81), nonché l’esortazione, frequentemente reiterata, a “comportamenti virtuosi”, che si manifestano nella “crescita controllata e consapevole” (p. 125), nella “rincorsa virtuosa” tra la UE e gli “operatori economici” legata ai “regolamenti per l’incentivazione e la certificazione dei comportamenti volontari di salvaguardia ambientale” (p. 152), nella “gara virtuosa fra l’International Standard Organization e la Comunità per mettere a punto il modello di sistema di gestione ambientale”. (p. 153). Ma dov’è andata a cacciarsi la virtù? Nell’idolatria dell’ambiente. E quando si sente il bisogno di inventarsi codici etici (pp. 161-162), ecco la più sicura prova che viviamo in un’epoca di abietta amoralità.

Non c’è dubbio che la malascienza ambientale rappresenti un grave pericolo, per l’influenza che esercita sulla politica, sull’economia e in definitiva sulla creazione di posti di lavoro. L’Atto Unico della Comunità europea del 1987 “fissa due principi che si riveleranno cruciali: a) il ‘principio di salvaguardia’, che garantisce il superamento della medietà e il primato delle posizioni più avanzate in campo ambientale (i paesi ‘virtuosi’ trascinano gli altri, attraverso le direttive comunitarie che ne assumono le ‘buone pratiche’); b) il ‘principio di precauzione’, con il quale si stabilisce una preferenza assoluta per la prevenzione” (p. 150). Questi principi sono stati ribaditi nel 1992 nel Trattato di Maastricht. Esiziale è soprattutto il “principio di precauzione”, che sancisce “il dovere di evitare o ridurre le emissioni inquinanti, indipendentemente dalla prova dei danni che ne derivano” (sic, p. 82). Sancito nell’articolo 174 del Trattato, questo principio dovrebbe piuttosto chiamarsi “principio di paralisi”, perché legittima il blocco di qualunque iniziativa. Oltretutto, se non è provata l’insorgenza dei danni, come si fa a dire che l’emissione sia “inquinante”? Una sostanza, sia pure potenzialmente dannosa, se diluita in modo che non si riesca ad accertarne i danni, può ancora dirsi inquinante? Poiché le costrizioni arbitrarie imposte dall’applicazione del cosiddetto “principio di precauzione” sono prevedibilmente impopolari (“non potranno verosimilmente trovare posto nel sistema individuale delle preferenze”, secondo l’ampolloso stile della Tinacci cit., p. 175), occorrerà la “decisione pubblica”. Il principio di paralisi andrà dunque applicato da una dittatura burocratico-ambientalista puntellata da un’ossessiva propaganda, che dà per scontato ciò che non lo è affatto e fa leva sulla paura, sul “pericoloso approssimarsi dell’impatto della società umana in espansione ai limiti dell’ecosistema” (sic, p. 86), sulla minaccia dell’anidride carbonica che “ha una forte e comprovata correlazione con il riscaldamento atmosferico e nell’aumento della quale viene ormai riconosciuto quasi da tutti un ‘effetto serra’ avente origine antropica ed effetti di alterazione climatica sull’ecosistema globale” [sic!?!, p. 93], su affermazioni gratuite quali: “lo status quo di beni liberi delle risorse naturali rinnovabili, come l’aria, l’acqua e la terra, perde vieppiù credibilità di fronte alla loro crescente scarsità relativa” [sic, p. 95]. E poi abbiamo il “caso assai noto della foresta amazzonica, riconosciuta universalmente come un fondamentale ‘polmone’ della Terra” [sic, p. 96]. Come abbiamo visto (v. cap. 10, “Il terrorismo ambientalista”, sez. “La distruzione delle foreste tropicali”), quasi tutto l’ossigeno atmosferico è prodotto dalle alghe marine, per lo più quelle microscopiche, ma forse la nostra autrice non lo sa, o non lo vuole sapere.

Lo scopo della propaganda è ovviamente quello di suscitare stati d’animo, e nel caso dell’ambientalismo soprattutto di paura. La coerenza non è un problema, così che, d’improvviso, si scopre che le “risorse immateriali (…) sono generalmente ‘potenziate’ dal trascorrere del tempo, nel senso che nel tempo se ne registra un trend di progresso — più o meno accelerato, ma sempre positivo — in quanto si produce un processo di accumulazione quali-quantitativa del patrimonio di conoscenze a disposizione” (p. 91), in palese contraddizione con il relativismo di Kuhn che dice tutto il contrario, e che la Tinacci ha citato con approvazione. Le affermazioni assolutamente gratuite si sprecano: l’inquinamento sarebbe prodotto “in gran parte in conseguenza delle attività umane (…) tanto da poter affermare che (…) l’inquinamento è una variabile dipendente della produzione” (p. 102); “esiste un conflitto sistemico profondo fra l’obiettivo economico della crescita e le condizioni dell’equilibrio ambientale” (p. 103). “Esiste ormai una consapevolezza diffusa che nel mondo contemporaneo le dinamiche economico-sociali legate alla crescita economica e all’espansione demografica stanno mettendo seriamente in crisi gli equilibri ambientali” (p. 106).

Affermazioni vaghe, campate in aria, e di nulla serietà scientifica, ma la paranoia ambientalista non chiede di più. E qual è il miglior metodo di propaganda di un’idea non dimostrata ed estremamente controversa? È cercare di far credere che si sia ormai affermata. In realtà l’unica consapevolezza diffusa è quella di un ossessivo lavaggio del cervello attraverso i mass media e i pessimi cattivi maestri che infestano scuole ed università.

Altro che “scelte democratiche” (p. 176): la “logica ecosistemica” (p. 199) è stata cacciata in gola alla gente con l’imbuto da una campagna ossessiva di mass media controllati da poteri forti e occulti che “vendono” la versione ambientalista e catastrofista al pubblico ignaro e frastornato, al punto che, in mancanza di prove solide, da una parte si afferma che “la produzione di energia nucleare presenta problemi ambientali rilevanti” e che le tecnologie del nucleare sono “ancora imperfette” (p. 218), scegliendo di ignorare le centrali intrinsecamente sicure che da lungo tempo esistono, ma in fondo la realtà non ha molta importanza, perché ciò che conta è che questi problemi siano “almeno percepiti come tali dal corpo sociale”, in modo da poter dire che “da parti autorevoli si esprimono grandi perplessità sulla capacità della tecnologia nucleare oggi nota di rappresentare una via di uscita dalla crisi petrolifera, a causa dei limiti nella disponibilità di materia prima sufficientemente concentrata, degli elevati costi di costruzione delle centrali, dei vincoli posti dalle elevate economie di scala, e quindi dalle difficoltà di distribuzione, infine e non ultimo anche dagli incerti rapporti del nucleare con l’effetto serra” (p. 207), mentre “viene dichiarata un po’in tutte le sedi politiche e sociali una preferenza assoluta ed esente da dubbi per le fonti di energia rinnovabili.” [sic!?!, p. 223].

Informazione superata e lacunosa, ma un’ampia messe di dubbi e paure, per giustificare la spaventosa proliferazione di lacci e lacciuoli burocratici. La farragine di regolamenti e procedure emanate dalle autorità internazionali, come l’Onu, o la comunità europea è a dir poco paralizzante. L’ambientalismo è infatti strutturalmente un’ideologia dirigista e autoritaria, che moltiplica i controlli e complica gli adempimenti degli imprenditori e di tutti i cittadini, ingrassando la burocrazia che, per giustificare la propria esistenza, trova sempre nuove scuse per paralizzare le iniziative. Chissà quali mirabolanti benefici scaturiranno da tanto lavorio di politica ambientale? La Tinacci cita a questo proposito “l’eliminazione dei CFC dai processi produttivi in ottemperanza del Protocollo di Montreal, i cui benefici sono calcolati — efficacemente, seppur per difetto — attraverso i costi delle patologie evitate” (p. 175). Gli abitanti del “terzo mondo” colpiti da infezioni intestinali per la mancata costruzione di frigoriferi a causa del costo esorbitante degli HFC e coloro che sono rimasti sfregiati dall’esplosione delle bombolette caricate coi nuovi propellenti sono probabilmente di opinione ben diversa (v. cap. 10, “Il terrorismo ambientalista”, sez. “Il ‘buco dell’ozono’”).

Naturalmente la scienza basata sui fatti potrebbe rivelare qualcosa che non giova al circo Barnum ambientalista, per cui la Tinacci Mossello critica “l’approccio razionalista tipico della modernità, che generalizza l’applicazione dei principi di causalità e di prevedibilità degli eventi”, che sarebbe causa di “confusione teminologica” [sic, p. 107] nel campo dei rischi ambientali. Ma questa relativizzazione della logica preclude qualsiasi scienza seria: serve solo alla propaganda. In linea con queste discutibili premesse, la Tinacci Mossello (pp. 108-109) dà molto spazio alla screditata “teoria delle catastrofi” di René Thom (1980), che consiste nella modellizzazione dei più svariati processi mediante superfici geometriche di vario tipo, per giungere, ad esempio, alla conclusione veramente geniale che un processo della complessità della caduta dell’Impero romano e la fuga di un cane spaventato sarebbero modellizzabili esattamente dalla medesima superficie [sic !?!].

Su una linea analoga, Odd Ambrosetti, Turco e Zanetto (1986, p. 107), pur criticando Thom, si entusiasmano affermando che “ben altra è la sfida che lancia Thom: disciplinare e rendere ‘dicibile’ quella grande impresa creativa che dev’essere la comprensione scientifica, contro ogni riduttivismo sterilizzante” (sic; ma che vorrà dire?). La teoria delle catastrofi non dice comunque nulla che non possa essere rappresentato con maggior efficacia e minor ridicolaggine da un modello sistemico a soglia, del tipo largamente usato da geografi ed altri studiosi, e anche dal sottoscritto, nei cit. studi sul Sudafrica (1984), sulla Riviera di Romagna (1990a), le Isole Britanniche (1992, 1996a, 1996b, 2006, 2007). Una modellizzazione matematica ben più efficace ed elegante, che ha permesso di porre in evidenza fondamentali regolarità nei fenomeni naturali, è quella basata sui frattali, nota anche come “teoria del caos”, anche questa impiegata dal sottoscritto (Biagini & Cau 2006, 2008); si tratta di una teoria consolidata, sulla quale esiste una vasta mole di studi, sia teorici sia applicativi alle più diverse discipline (es. Briggs 1992; Farmer, Ott & Yorke 1983; Feigenbaum 1978, 1979, 1981; Froheling, Crutchfield, Farmer, Packard & Shaw 1981; Gleick 1987; Mandelbrot 1987; Packard, Crutchfield, Farmer & Shaw 1980; Schaffer & Kot 1985; Schaffer 1986; Stewart & Thomson 1986; Wisdom 1985). Ma la Tinacci non accenna neppure all’esistenza della teoria del caos, largamente applicabile ai problemi territoriali (es. Batty & Longley 1987, Korvin 1992), forse perché non la ritiene utile alla propaganda ambientalista che è l’unica sua preoccupazione.

L’agricoltura moderna è da tempo entrata nel mirino ambientalista: “La messa sotto accusa delle politiche di qualità legate alla politica agricola dei paesi avanzati è emblematica: i paesi avanzati spendono in sovvenzioni alla loro agricoltura più del sestuplo di quanto spendono in cooperazione internazionale”, riporta la Tinacci Mossello (p. 336), citando il solone di turno: Soros (2002), membro eminente della “Trilaterale”, il destabilizzatore per antonomasia che si proclama “dio”. Ma senti un po’ chi parla.

La Tinacci non manca di sparare a sua volta: “una parte molto importante di (…) input chimici addizionali ha alimentato esclusivamente l’inquinamento da nitrati nel terreno, dei fiumi e dei laghi, mentre gli insetti nocivi aggrediti da dosi crescenti di pesticidi hanno sviluppato ceppi resistenti a una o più delle sostanze impiegate e spingono all’utilizzazione di quantità sempre maggiori di sostanze sempre più potenti (…) Non così il sistema agricolo tradizionale, che utilizzava per la produzione energia solare ed energia ‘viva’ umana e animale, sostentata dai prodotti del medesimo sistema, e non produceva rifiuti. Si trattava di un sistema a bassa produzione di entropia e a limitato impatto ambientale, molto vicino al modello dell’ecosistema” (p. 133). Uno scenario indubbiamente comodo, specie se contemplato dalla poltrona di uno studio baronale all’università, meglio se con l’aria condizionata. Nonostante ciò, la Tinacci sembra colta da una forte nostalgia del petrolio, quando dichiara che “non v’è dubbio che lo sviluppo di civiltà che abbiamo conosciuto, ossia la tecnologia, l’arte [sic!?!], i servizi sociali e tutto quanto arricchisce la nostra vita, è stato possibile perché c’era una ricca ed economica riserva di petrolio a nostra disposizione” (p. 218). Arte?!? Eh, già, cosa sarebbe stato Duccio da Boninsegna senza il petrolio? e come avrebbe fatto Leonardo a dipingere “La Vergine delle rocce”? Ma forse la Tinacci intende per arte la “merda d’artista” di Piero Manzoni o le eleganti strutture delle raffinerie.

La “politica dell’ambiente” non può ovviamente trascurare il problema dei rifiuti, secondo la Tinacci “presenti soltanto nelle società industriali” (sic, p. 306). Solo in queste, infatti, esisterebbero gli imballaggi. Non è proprio esatto: basta pensare al Testaccio, la collina romana fatta di anfore vuote “usa e getta”. Ogni civiltà ha prodotto montagne di rifiuti, tant’è vero che i mucchi di spazzatura sono appunto i siti favoriti dagli archeologi per investigare la cultura materiale di un insediamento. Per millenni, prima della rivoluzione industriale, vi erano cavalli ed altri animali dappertutto, e le relative, inevitabili feci per le strade. Le feci venivano scrupolosamente raccolte per rivenderle come fertilizzanti, e delle rimanenti immondezze si faceva ampio commercio e riciclo, e questo già da molti secoli. I “baroni della spazzatura” delle città europee preindustriali diventavano ricchissimi, e la pacchia, dopo gli inizi dell’età industriale, non fece che continuare: a metà Ottocento un “barone della spazzatura” londinese diede come dote alla figlia una montagna del maleodorante materiale che rese diecimila sterline; nella medesima epoca il marchese Raffaele De Ferrari fece fortuna a Parigi nello stesso genere di commercio, al punto che rientrato a Genova, poté, col proprio peculio, fondarvi il grande ospedale “Galliera” e finanziare la ristrutturazione del porto. Ma nel pattume insetti e agenti patogeni intanto prosperavano e la vita umana media era la metà o meno di quella odierna, mentre gli ambientalisti, con supremo sprezzo del buon senso e del ridicolo, e una massiccia dose di malafede, hanno inventato un’immagine zuccherosa del passato e una avvelenata del presente. La soluzione al problema dei rifiuti esiste da tempo, ed è il termovalorizzatore, ma nemmeno questo va bene agli ambientalisti: “Molti termovalorizzatori anche di grandi dimensioni sono inseriti in ambiente urbano (Vienna, Parigi, Londra, Copenaghen, Tokyo), sebbene recenti studi sulle emissioni di particolato e di nanopolveri gettino importanti ombre di dubbio su tale scelta”, sentenzia la Tinacci Mossello (p. 315), come se il pulviscolo atmosferico non fosse dappertutto e da sempre, tanto che il più elementare modo per far capire agli studenti cos’è il moto browniano è l’esempio della striscia di luce in una camera buia, che permette di vedere dei puntini danzare. Il pulviscolo c’è sempre stato in abbondanza, quando i termovalorizzatori non erano ancora stati inventati.

Il problema è: a che serve questa radicale negatività, alla quale sembra non vada mai bene nulla? a che serve questa nebbia di disinformazione che si rifugia nel “sentito dire”, disprezzando i fatti? E la risposta è: serve allo stabilimento della dittatura mondialista della grande finanza usuraia e iniziatica. Gli “scienziati” che vi avranno contribuito riceveranno (forse) qualche briciola, a parte le cattedre loro largite dal disonesto sistema dei concorsi (v. cap. 17, “Concorrete, concorrete, qualche cosa resterà”) e i vantaggi economici e d’immagine che già fin da ora lucrano rendendosi importanti con lo spaventare la gente. Unica difesa è l’estrema noiosità del loro argomentare, che in parte salva il cervello della gente dal farsi intortare.

Avviandosi alla conclusione, la Tinacci Mossello getta al vento il relativismo e le cautele del tipo “o almeno questo è quello che dice la maggior parte degli scienziati” e ribadisce il più truce ecoterrorismo. Ripete ancora una volta, con noiosa ripetitività, il mantra della paranoia ambientalista: la sua fede nella screditata Rachel Carson e nella sua “primavera” per nulla “silenziosa”, afferma che le tendenze espansive della popolazione e dell’economia sarebbero “in contraddizione logica evidente con i limiti naturali del Pianeta” [sic!, p. 375], ribadisce la cosiddetta “analisi epistemologica” dello screditato Kuhn per accreditare l’idea di un “nuovo paradigma scientifico” di stampo ambientalista, al quale l’economia tradizionale opporrebbe resistenza di retroguardia tipica della “messa in crisi del paradigma dominante”. Il “nuovo paradigma” sarebbe migliore perché basato sul concetto che “l’economia è un sottosistema dell’ecosistema” [sic!, p. 378], ciò che darebbe agli ambientalisti il dominio sull’economia, bloccando qualsiasi iniziativa. I disoccupati si arrangino; gli imprenditori al fallimento perché devono pagare gli operai delle opere che non procedono a causa delle fisime ambientaliste si arrangino: politicanti e baroni universitari hanno lo stipendio garantito (tuttavia, a forza di decrescita, il crollo dell’economia finirà per compromettere anche le posizioni più protette).

E i baroni possono pure permettersi evanescenti divagazioni, come la “geografia verde” (Capineri 2009) sulla scia della banda farneticante dei funamboli ambientalisti. Nella recensione sulla Rivista Geografica Italiana (dicembre 2010, p. 921), la Tinacci Mossello commenta estatica che “la finalità del volume (…) è quella di proporre la “geografia verde” come progetto scientifico-culturale possibile e “giusto” — segnalato da un nuovo linguaggio, da una nuova cultura, da una nuova politica; infine, da una nuova e cruciale ricchezza di senso — se la nostra disciplina vuole partecipare da stakeholder alla scommessa sulla sostenibilità dello sviluppo.” Queste talebane e talebani dell’ambiente ignorano volutamente tutto ciò che non fa loro comodo, a cominciare dal miliardo e più di bambini massacrati in tutto il mondo prima della nascita (oltre sei milioni nella sola Italia), dalla perdita del senso della vita, dal suicidio morale e materiale della società materialistica, dei giovani ai quali propinano il loro veleno ideologico che vanno schiantarsi dopo lo sballo, inebetiti dalla “musica” (si fa per dire) tekno, perché nessuno, e tanto meno i baroni e baronetti assisi sulle cattedre universitarie, ha mai insegnato loro il valore e l’integrità dell’essere umano, nessuno ha mai insegnato loro che il mondo ha un senso, che la speranza non è invano, e che dopo questa breve esistenza bisogna rendere conto di ogni atto, parola, pensiero e omissione. Infatti dai loro frutti si riconoscono i falsi profeti che spacciano il Dragone della falsa scienza con il sostegno e la protezione della Bestia del potere.

Questa disamina di una certa geografia che ha perduto il contatto con la realtà e l’umanità ci permette di concludere sull’argomento “ambiente”: l’idolatria dell’ambiente e la deriva malthusiana stanno portando l’Occidente malato a un catastrofico declino, già da tempo in atto, e al crollo finale, che non tarderà, salvo svolte epocali al momento imprevedibili. Il posto del povero Occidente sarà preso da altri, esenti dalle grottesche fisime che i poteri forti iniziatici della grande finanza usuraia tentano disperatamente di iniettare anche nelle società non occidentali, ma che intanto devastano l’Occidente stesso.

BIBLIOGRAFIA

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1 Commento

  1. Questo scritto faceva originariamente parte del mio saggio MALASCIENZA (Ed. Solfanelli), ma prima della pubblicazione l’ho tagliato. La pochezza del personaggio qui criticato suggeriva di non dare troppa importanza alle deliranti amenità tecnocratico-transumaniste di questa autrice, la cui ascesa ai fastigi della cattedra è solo uno dei tanti segni del degrado dell’università italiana.

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