America del Sud. Peru. Lago Titicaca. Isole galleggianti degli Uros (fatte di totora intrecciata)
Mese: Aprile 2007 (Pagina 1 di 2)
America del Nord. Canada. Vancouver (British Columbia). Pali totemici.
Africa. Sudafrica. Stellenbosch. Caratteristica architettura boera del Capo.
Africa. Namibia. Lago di Goreangab
Africa. Egitto. Valle dei Re
Africa. Egitto. Gizah
Europa. Germania. Helmstedt (Niedersachsen, ossia Land Bassa Sassonia). Juleum (sede dell’antica università dove andò a spargere il suo veleno, fra gli altri, l’eretico Giordano Bruno, dedito alla magia nera e cocco di tutti i laicisti)
America del Sud. Argentina. Patagonia. Canale di Beagle. Parco Nazionale della Terra del Fuoco
Questa intervista con una delle personalità che più sono state vicine al Cardinale, costituisce un insostituibile documento spirituale e storico. E’ corredata da un’introduzione di Maria Antonietta Novara e, in appendice, da una scelta di omelie del grande Arcivescovo.
INTRODUZIONE
Quest’anno, esattamente il 20 maggio, ricorre il centenario della nascita di Sua Eminenza il Cardinale Giuseppe Siri, indimenticato e indimenticabile Arcivescovo di Genova per quarantun’anni, nato appunto a Genova nel 1906.
Egli fu un autentico genovese. Amò la sua città, il suo popolo e il suo clero, dimostrando quest’amore negli anni terribili della guerra. Trattando personalmente la resa dei tedeschi, evitò che questi distruggessero il porto, arrecando danni ancor più gravi alle infrastrutture e all’economia della città. Intervenne spesso a dirimere le controversie fra i diversi gruppi della società, cercando di mediare sempre per il benessere e la pace sociale del gregge a Lui affidato.
Quando nel 1987 dovette dare le dimissioni da Arcivescovo, per “raggiunti limiti di età” (secondo quanto prescrive il nuovo Codex Juris Canonicis postconciliare), nessuno in città era più conosciuto di Lui. Aveva impartito la Cresima a migliaia di ragazzi e ragazze, tra cui la sottoscritta, aveva visitato tutte le Parrocchie, recandosi, durante le visite pastorali, presso le famiglie bisognose, mai dimenticando gli anziani ed i malati. Durante la visita pastorale alla nostra Parrocchia venne tra l’altro presso la nostra famiglia ad impartire la sua Benedizione a mia nonna, allora novantanovenne. Quasi tutti i sacerdoti della città erano stati da Lui ordinati. Ricordo che, nel 1987, nel periodo di agosto e settembre, partecipai ai funerali di Mons. Michele Gaggero, presidente del Tribunale Ecclesiastico e di Don Vincenzo Barbera, già curato di Castelletto, divenuto poi parroco di Geo di Ceranesi. Il Cardinale celebrò personalmente la Messa delle esequie, pur non essendo in perfette condizioni di salute, ed esclamò piangendo: “Mi si spezza il cuore a dover celebrare, io già così anziano, i funerali di tanti miei sacerdoti”.
In un’altra città, l’aver avuto un simile Cardinale, grande per umanità, grande per rigore dottrinale, grande per cultura, grande per virtù personali, sarebbe stato motivo di orgoglio. Purtroppo Genova non ama i suoi figli migliori, e quando non li costringe ad andare altrove a raccogliere i frutti dei loro meriti e delle loro capacità, li guarda con sufficienza. Ed ecco che, soprattutto da parte della classe cosiddetta intellettuale e politica, cominciò una campagna, dapprima sottile, poi sempre più grossolana e volgare, di calunnie d’ogni genere, che richiama i metodi così ben descritti da Orwell nel suo magistrale romanzo “1984”.
Questa subdola e vile campagna nei confronti del Cardinale ebbe inizio negli anni Sessanta. Quelle che erano le sue virtù vennero additate come difetti. La sua riservatezza e il suo carattere schivo, tipico poi dei vecchi genovesi, venne considerato orgoglio, il suo amore per Dio, che lo portava a rendergli gloria con la bellezza e lo sfarzo dei riti e dei paramenti venne considerato vanagloria e prodigalità che offendeva i poveri — poveri che fra l’altro furono i suoi più affezionati sostenitori, perché ben sapevano quanto egli nel silenzio facesse per loro.
Lo stesso trattamento calunnioso fu del resto riservato anche a Sua Santità Pio XII, che era un grande estimatore di S.Em. Giuseppe Siri, da Lui personalmente nominato vescovo, senza passare per la Congregazione dei Vescovi, e poi creato Cardinale. Il Santo Padre, durante la seconda guerra mondiale, diede asilo e salvò decine di migliaia di ebrei, ricevendo, subito dopo la guerra, quando ben viva era la memoria dei fatti, numerosi attestati di stima anche dallo Stato d’Israele. Dopo la pubblicazione dell’infame pièce “Il Vicario” di Rolf Hochhuth, Pio XII fu accusato di antisemitismo, ed ancor oggi, perfino da parte di religiosi, si sente dire che non si sarebbe prodigato a sufficienza per la salvezza degli ebrei.
Tornando al nostro grande e santo Cardinale, non va dimenticato che egli fu persino accusato di essere “nemico delle innovazioni” introdotte dal Concilio Vaticano II, e proprio da coloro che, stravolgendone lo spirito, piegavano la dottrina alle loro malsane deviazioni, causa della grave crisi della Chiesa e delle vocazioni, come di recente riconosciuto da Sua Santità Benedetto XVI, che ha ripreso le osservazioni di S.Em. il Cardinale Siri in merito allo stretto legame fra degrado della liturgia e crisi della Fede.
Con queste povere pagine, insieme a Padre Candido Capponi, che fu Suo confessore negli ultimi anni della Sua vita, e lo assistette nella lunga malattia prima della rinascita al Cielo, vogliamo ricordarLo a quanti gli vollero bene e speriamo che coloro che Lo avversarono, sopiti gli interessi e le invidie con cui Lo afflissero, si pentano del dolore che gli provocarono e invochino il Suo perdono e la Sua benedizione.
MARIA ANTONIETTA NOVARA
Genova, 2 maggio 2006
RECENSIONE DI RAFFAELE FRANCESCA
Per scrivere come Biagini è necessario essere un acutissimo osservatore della vita, un appassionato testimone delle altrui solitudini, latore di una sua orgogliosa umiltà che gli deriva da una mai celata ma, anzi, proclamata, Fede.
Al protagonista egli affida le parole che seguono:
“Sì, — rispose lui — sono cattolico. — Si accorse che affermarlo gli dava un senso di sicurezza, perfino una punta di orgoglio, la forza di possedere la verità. Non era merito suo, l’aveva solo ricevuta, ma era certo che fosse la verità, e la verità era importante (…….). — Partiamo da qui. Cristo è esistito. Duemila anni fa c’è stato un Uomo in Palestina. Ha predicato in modo mai sentito prima. Ha detto: ‘Io vi do un comandamento nuovo: amatevi gli uni gli altri, amatevi come Io vi ho amati’. Ha detto: ‘Io sono la resurrezione e la vita; chi crede in Me non morrà in eterno’. Ha sanato i malati. Ha ridato la vista ai ciechi. Ha scacciato i démoni. Ha risuscitato i morti. L’umanità Lo ha ringraziato condannandoLo alla crocifissione: la pena atroce e infamante dei ladri da strada. Ma Egli è risorto. Nessuna scienza potrà mai spiegare questo. Alcuni non ne parlano e credono, tacendo, di cancellare la verità.”
E poi, sempre rimanendo in tema:
“C’è Qualcuno da chiamare Padre nel segreto dell’anima, Qualcuno che ci ama tanto da sacrificare per noi il Suo Figlio Unigenito. Questo era sconvolgente: Dio che soffre. Perché soffre? Per amore”.
E ancora (e queste sono le parole di “uno di quei solidi sacerdoti tutti preghiera e niente sociologia”, come precisa l’autore):
“Nessuno è veramente ateo. Ogni anima custodisce in sé l’immagine di Dio, perché è fatta a immagine di Lui. Anima naturaliter christiana. Noi tutti abbiamo il desiderio struggente di rivedere Dio. Sì, di rivedere, perché tutti L’abbiamo visto, nell’attimo in cui la nostra anima è stata creata, all’atto del concepimento, e abbiamo una nostalgia infinita di quella Luce dell’eternità, e non avremo pace finché non ritorneremo a Lui”.
E, certamente non a caso, il richiamo a quella “luce” che appare nel titolo del romanzo viene qui evocato.
Tutto ciò pur senza dimenticare che, talvolta, anche il ricorso alla preghiera può apparire vano, poiché — come scrive l’autore — Dio sa anche essere muto. Ma sta all’uomo interpretare questo silenzio.
Il mondo che Biagini disegna è duramente realistico: i caratteri di alcuni personaggi sono perfino sgradevoli, le loro manifestazioni talvolta incomprensibili, la loro cecità spesso irritante. Emerge un mondo di sconfitti, se ci limitiamo alla vita terrena. Un mondo che raramente e parcamente concede riscatto, conosce innocenza, regala felicità.
La “storia” si svolge nei primi anni cinquanta, con, per sfondo lontano, la morte di Stalin, l’insurrezione di Berlino, la guerra in Corea. Ci imbattiamo in personaggi emblematici, come “il signor (compagno) Viviani”, che “ha lavorato per la Todt durante la guerra, costruiva bunker per i tedeschi sulla linea gotica. È stato fascistissimo”; ma, ora è agilmente e opportunisticamente approdato al “partito” (e, come scrive Biagini, “non è necessario spiegare quale”).
La sua casa? Quella tipica del parvenu “radical chic”: “In tutto l’appartamento non un’immagine sacra. Ma, nello studio, appesa alla parete, troneggiava la fotografia di un personaggio allora in auge: un volto coi baffi spioventi, un sorriso enigmatico a metà tra il paterno e il sornione, Stalin”. Ma come si presenta la casa del “signor (compagno) Viviani”? Vediamone insieme alcune caratteristiche. “Preziosa coppa di cristallo di Boemia che troneggia in mezzo a un tavolo in puro Settecento veneziano ……. un lungo corridoio dalle pareti adorne di bellissime stampe antiche …….”. Il tutto, ovviamente, con cameriera incorporata.
La vicenda ruota intorno ad una famiglia formata da padre, madre, figlio.
Il padre, Anselmo Donati: malato, debole, vinto dalla vita, vile di quella viltà che — oltre che dallo sfinimento fisico e dalla caratteriale debolezza — dal ritenere per certo inutile qualsiasi ribellione. Ribellione di cui fornirà un solo esempio lungo tutto il dipanarsi della vicenda, allorché dirà alla moglie, in un irripetuto bagliore di ammutinamento:
“Tu sei pazza, ti dico, e la tua avarizia è tale che venderesti la pelle di tua madre per farne un tamburo, se quella povera donna non fosse morta tisica a forza di mangiare poco e di non volere né medico né medicine per risparmiare …….”.
La madre, Teresa Donati: megera, arpia, medusa, erinni, grifagna presenza, Arpagone in gonnella; uno dei personaggi più negativi della vicenda: gretta, avara, incapace di affetti e gentilezza, tranne, forse, nei confronti delle amiche, anche se Biagini almeno parzialmente la assolve, laddove scrive che “la sua oculatezza nello spendere non era autentica avarizia, ma terrore della povertà”; aggiungendo: “non pensiamo troppo male della povera donna: era la prima vittima di se stessa”.
Il figlio, Paolo Donati (che all’inizio della narrazione ha diciassette anni): sensibile, fondamentalmente buono, ma introverso, timido, taciturno, spiritualmente e affettivamente solo. Pianta sensitiva in una flora costituita perlopiù da voraci carnivore. Un ragazzo infelice. La causa? Il disagio di dover aggirarsi nell’incomprensibile labirinto del mondo, abitato in gran parte da esseri distratti, superficiali, indifferenti, egoisti, prepotenti, spietati. Poiché, per scelta, lontani dalla Luce.
Infatti, a un certo punto, di lui si dice: “Aveva poca voglia di tenere gli occhi aperti sul mondo ……. Era avvilito quanto è possibile esserlo. L’indifferenza, la crudeltà della gente, lo spaventoso oceano dell’umana idiozia lo abbattevano”. Significativa sintesi, involontario presagio. E, al tempo stesso, “si accorgeva di aver sete d’infinito, e che niente sulla terra poteva saziarla”.
Passa attraverso un amore non corrisposto; un’amicizia femminile che sarebbe potuta risultare sotto certi profili salvifica (e il nome della ragazza, Lucia, ritengo non venga attribuito a casa); qualche altro tentativo velocemente abortito; ingiuste e ingiustificabili (ma non appartenenti al mondo della fantasia, purtroppo, bensì a quello reale) angherie durante il suo percorso universitario, a opera di professori unilateralmente ideologizzati, ferocemente politicizzati …….
Ma, parlando dei personaggi emblematici tratteggiati nel libro, mi sembra opportuno ricordare ancora Alberto Viviani, figlio del “signor (compagno) Viviani”, e fratello di Lucia. Di lui non aggiungo altro, se non che appare simbolico latore di necessaria, luminosa speranza.
La scrittura cui Emilio Biagini si affida per regalarci la sua Weltanschauung è solo apparentemente semplice e corsiva, ma in realtà essenziale, efficace, icastica, modulata con sapiente naturalezza sullo svolgersi della vicenda, sul momento della narrazione, sul pathos che le è sotteso.
Una scrittura, quindi, sintetica e decisa, ma anche ironica e commossa, con una forte capacità di coinvolgimento, talché le incertezze, le ansie, le paure dei suoi personaggi diventano le nostre. Ma, del pari, la speranza, la fiducia, il coraggio che talvolta traspaiono dalla narrazione divengono, magicamente e taumaturgicamente, anche nostre caratteristiche. Il che rivela umana partecipazione, affidata alle capacità dello scrittore vero, che sa cogliere episodi, mezzi toni, segnàcoli degli umani percorsi, per renderli poi sulla pagina.
Il percorso del romanzo potrebbe venir assimilato all’iter dantesco (Inferno, Purgatorio, Paradiso): partendo dagli egoismi, dal dolore, dall’indifferenza, si può pervenire alla salvezza, alla Luce, da cui il titolo del libro.
RAFFAELE FRANCESCA