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FRATERNA ACCOGLIENZA ARGENTINA

AI NOSTRI MIGRANTI

Lettera autentica.

Solo i nomi sono stati cambiati.

Lo sdolcinato racconto “Dagli Appennini alle Ande”, che è parte del miserabile libercolo di propaganda sabaudo-massonica “Cuore”, il quale cerca di manipolare la realtà, accreditando una visione gradita al regime nato dall’invasione barbarica savoiarda.

Quell’invasione, finanziata dalle massonerie anglosassoni (le quali non mancarono di presentare il conto subito dopo), aveva scatenato la fuga di milioni di italiani disperati.

Questa invece è la realtà.

 ***

Genova, 11 febbraio 1917

Caro Arturo,

Non potrei dire che da un pezzo in qua le tue lettere mi facciano piacere: tutt’altro. Tu ti lagni e vuoi essere aiutato ed io non so che fare. — È inutile che continui a dire: “in mio comodo, più un mese che l’altro, ecc.” di mandarti: sai pure che capitali non ne ho; che tutti i mesi si rassomigliano, che le spese vanno sempre aumentando e i tempi peggiorano; perché se prima bastavano cento lire, ora bisogna far miracoli con duecento, e tutto questo è la pura verità e non ti è difficile assicurartene chiedendolo a qualche padre di famiglia.

L’impossibile l’ho fatto per il passato, non solo per degli esseri indegni, ma anche per te, adesso ho una famiglia da pensare, una bambina da far venir grande, istruirla, ecc. perciò accontentati di quel poco che potrò mandarti, e niente di più.

La mia coscienza è perfettamente tranquilla, anzi no, mi rimprovera (e ben amaramente!) di aver fatto troppo troppo per tutti: così non lo avessi fatto, che ora mi troverei in miglior posizione e non soffrirei tanto!

Comprendo che la vita che fai adesso, sarà dura per te che sei sempre stato abituato troppo bene, ma si capisce che la vita del soldato non è una vita di piacere, tanto più in tempo di guerra. — Dopo tutto non sei al fronte, non soffri la fame e il freddo, come tanti poveretti in trincea, e tanto meno corri pericolo di vita.

Ho sofferto ben altro io durante la mia triste e disgraziata esistenza, e da giovine e da vecchio, ma specialmente dai quattordici ai diciotto anni e mezzo!

Qualche cosa ne sai, ma il più doloroso, il più vergognoso (vergognoso per gli altri non per me!) non ho mai osato raccontarlo che a Giovanna. —

Ero ancora quasi bambino, nell’età in cui si ha ancora tanto bisogno delle cure di una madre, quando questa — che sarebbe stato meglio non avessi mai conosciuta — mi allontanò da se, dalla casa del mio povero padre morto (casa che dopotutto era esclusivamente mia, lasciatami in eredità, come pure i miei capitali, dal mio caro genitore), che mi voleva tanto bene, e che io non ho mai cessato di venerare.

Mi allontanò per poter meglio dilapidare durante la mia assenza il patrimonio lasciatomi da mio padre, e forse anche colla segreta speranza che così giovane e solo, sperduto nel mondo, mi cogliesse qualche disgrazia, che mi togliesse di mezzo, e se ciò non accadde davvero è proprio un miracolo, e fu certo il mio povero babbo che dall’altro mondo mi assistette e mi benedisse, tali e tanti furono i pericoli che attraversai, ch’io stupisco e rabbrividisco ancora a pensarvi!

Basta: con venti lire in tasca e un piccolo fagottino contenente le mie povere robe, venni imbarcato per l’America, diretto a Buenos-Ayres dove, appena giunto, venni allogato come garzone in una pasticceria. Come ridire le sofferenze, le privazioni, le umiliazioni, le pene d’ogni genere che passai in quei terribili anni?

Io stesso col volger del tempo dimenticai la maggior parte, e a raccontare quello che ricordo ancora, ci vorrebbe un volume.

Ero costretto tutto il giorno a un lavoro inumano, dieci volte superiore alle mie forze: non so come abbia resistito.

Cominciavo la mia giornata coll’accendere il forno prima che arrivassero i lavoranti pasticcieri e confettieri, perché lo trovassero già pronto, poi lavoravo tutto il giorno come una bestia da soma, mentre fioccavano i calci e gli scapaccioni che a ogni più piccolo sbaglio mi largivano senza pietà.

Ricordo ancora con orrore quel grosso mortaio dove dovevo pestare col pestello enorme le mandorle, zucchero, ecc.: ne avevo le braccia e lo stomaco continuamente indolenzite. Venuta la sera, i lavoranti se ne andavano, e io invece dopo il mio magro pasto, dovevo io solo mettermi al lavoro fino all’una, tante volte fino alle due dopo mezzanotte.

Dovevo pulire, lucidare e asciugar bene tutti i recipienti di rame, tutte le forme delle pasticcerie, che si erano adoperati durante il giorno; e questo lavoro ero costretto a farlo all’aperto, in un cortile; se faceva freddo o pioveva dovevo starvi lo stesso, con un sacco sulle spalle.

E mentre solo, sotto l’acqua, sferzato dal vento gelido lavoravo, pensavo alla mia casa di Genova così bella, così calda e così lontana, al mio povero padre che mi aveva cresciuto con tante cure, che mi aveva usato ogni riguardo, e piangevo, piangevo finché i miei occhi restavano asciutti, arsi dal pianto.

Dopo aver ripuliti tutti gli arnesi, dovevo mettere in ordine la fabbrica della pasticceria, pulire il forno, spaccare la legna e metterla dentro perché fosse pronta per la mattina seguente; allora solo mi era permesso andare a letto.

Lo chiamavo col nome di letto, ma non era che una misera branda di legno, con un materasso di crine tanto piccolo che ero costretto a dormir rannicchiato, senza lenzuoli, con una misera coperta tutta rotta: vi sono molti e molti cani la cui cuccia è più calda e più comoda di quella.

La mia camera ……. da letto era sotto una tettoia coperta di zingo, senza porta, in un cortile aperto; ai piedi della mia branda passava quando pioveva una condotta d’acqua sporca, e la mia compagnia erano i topi di fogna che per dimostrarmi la loro tenerezza venivano di tanto in tanto a morsicarmi i piedi e a passeggiarmi per il corpo.

Pensando al caso mio, in verità non posso a meno di ridere quando mi dici che sei costretto a tenere la camera perché in caserma hai freddo e non puoi dormire.

Accoccolato nel mio angolo freddo e sporco, finivo per addormentarmi vinto dalla stanchezza e dal sonno, ma se il sonno si prolungava un po’ troppo, pensava il padrone a svegliarmi, e la sveglia era uno straccio sporco e bagnato gettato con violenza sulla faccia e poi prendevo il resto ……. Ho sofferto il freddo perché mal coperto, ho patita la fame; mi sentivo male e non ero creduto, non potevo trattenere il pianto ed erano risa, dileggi, scapaccioni. Non ti ho mai raccontato di quel giorno che nell’accendere il forno una vampata mi bruciò tutto il viso e i capelli, ma nessuno ebbe pietà di me; non fecero altro che motteggiarmi per un pezzo?

Mi dimenticavo dirti che il padrone tutti i giorni mi conduceva al mercato, e mi rimandava a casa carico di una gran cesta sulle spalle, nella quale eravi tanta di quella merce che appena, appena, e con gran fatica, riuscivo a portare.

Come se tutto ciò non bastasse, scoppiò per sventura la terribile epidemia della febbre gialla (anno 1871) il mio principale chiuse la pasticceria e si rifugiò in campagna. Io non sapevo bene né dove dormire né cosa mangiare: ricordo che vagavo per i campi abbandonati dove i meloni non raccolti marcivano sotto il sole ardente, e io, affranto, tagliavo da quelli marci qualche pezzo buono e lo mangiavo pur di riempire lo stomaco vuoto; nella rabbia, nella disperazione della solitudine e della miseria.

Pensai di rivolgermi ai parenti di mia madre anch’essi in campagna, ma essi pure per timore che portassi loro la malattia mi cacciarono; provai ad andare dal mio principale, ed egli mi diede un po’ di danaro e mi rimandò in città.

Qui erravo da un punto all’altro e non sapendo cosa fare, andavo a vedere sotterrare i morti che cadevano come le mosche.

Di nuovo non sapevo dove andare, né a chi rivolgermi, quasi tutti erano fuggiti, la città era una tomba; quando trovai un mio compagno, garzone macellaio, che mi offerse di andare a dormire con lui nel solaio della macelleria. Quanto al mangiare ebbi la fortuna di trovare un operaio italiano, un povero diavolo molto buono (di cui deploro di non ricordarmi il nome) forse mosso a pietà di vedermi solo, abbandonato da tutti, mi conduceva a casa sua e per circa tre mesi mi diede da mangiare quello che mangiavano i suoi figlioli.

Eccomi dunque costretto ad accettare anche l’elemosina di estranei, (e a Genova sciupavano il mio patrimonio) e non credere, sai, che io non sentissi la vergogna di mangiare il pane che mi si offriva per carità, il viso mi si copriva di rossore e un nodo mi stringeva la gola, ma la fame era forte, e non v’era altra scelta.

Confronta, confronta questa ……. vita, con quella che hai sempre fatto tu, e dimmi se ti senti ancora il coraggio di lagnarti.

Tu sei stato sempre curato, mantenuto, vestito, istruito malgrado i miei scarsi mezzi e la tua poca buona volontà; ben trattato (oh molto, molto più di quello che le mie forze non avrebbero mai permesso) tutto hai sempre avuto.

Dopo quattro anni e mezzo, per tornare in Italia dovetti imbarcarmi come mozzo a bordo di un veliero, e in quei centocinque giorni che tanto durò il viaggio, dovetti soffrire il resto.

Facevo, ed eravamo nel cuore dell’inverno, in pieno oceano, la pulizia di bordo con le gambe e i piedi nudi nell’acqua, e lavavo i piatti ai marinai, che anch’essi non mi risparmiavano né le botte né i motteggi.

Una spaventosa tempesta si levò, e durò ben quattro giorni, che per poco il veliero non affondò, e non si sfasciò poi contro gli scogli nella terribile traversata del Mediterraneo (quindici giorni di tempo orribile) e tutti attribuirono a un vero miracolo se il 25 febbraio 1875 potemmo entrare nel porto di Genova col bastimento mezzo fracassato.

Sorvoliamo, sorvoliamo per carità su quanto mi preparava il destino: ho provato amarezze, disillusioni, dolori, privazioni e non dico altro: in ultimo per colmar la misura, perché dovessi provare tutto quanto v’ha di più triste, di più amaro, dovetti conoscere anche la più nera, la più perfida ingratitudine, nemmeno la calunnia mi fu risparmiata, nemmeno il tradimento; — Dio mi perdoni il paragone, ma Gesù Cristo quando si vide rinnegato da Pietro e tradito da Giuda non deve aver sofferto di più.

Ora ho sessant’anni suonati, e la mia salute se ne va a furia di lavoro di privazioni e di dispiaceri; la vecchiaia non mi trova ricco e nemmeno abbastanza agiato da potermi procurare quelle cure, quei riguardi, che servono tante volte a prolungar l’esistenza; tuttavia non mi lagno, non chiedo né spero nulla da nessuno: Chiedo soltanto — e non solo ne ho estremo bisogno, ma credo di averne anche il sacrosanto diritto — un po’ di pace, un po’ di tranquillità.

Nella mia disgrazia forse fu un Dio pietoso che mi mandò una creatura a me cara, che mi curerà ammalato, come mi curò sempre scrupolosamente ogni volta che ne ho avuto bisogno, quella che mi chiuderà gli occhi, spero, e mi comporrà nella bara: ho anche il bene inestimabile di possedere un tesoro di bambina, che ho sempre ardentemente desiderata per tanti anni. Questo caro angioletto che è una vera benedizione del Cielo, è il raggio di sole che rischiara, che consola la mia amareggiata esistenza.

Non so quanto mi resterà più da vivere, certo non molto: è possibile dunque che questo po’ di vita che mi resta, mi si lasci finire in pace!

È inutile che tu mi tormenti: so bene che non avrai da scialare, ma infine che posso farci?

Se tu avessi dato retta a me, non soltanto quando ti consigliavo di non immischiarti in affari d’automobili, ma anche quando ti dicevo di far buon uso del danaro, di non spendere con quella prodigalità che ti era abituale, non ti troveresti ora al punto che sei.

Mi rincresce che il tuo disturbo sia sempre allo stesso punto; ma non è vero che non hai mai avuto nulla. Da un pezzo non stavi bene anche a casa; anzi ti sei curato parecchio tempo di non so quali disturbi; e quando si comincia coi malanni, non si sa mai dove si va a finire.

Ho ricevuto il pacco dal pedone, Giovanna ti aggiusterà la tua roba come potrà, perché ha le mani gonfie e piagate dai geloni, quando sarà cucito tutto, te li manderò.

Mi sembra di non aver altro da dirti e ti saluto.

Conserva la presente e rileggila di tanto in tanto.

Agata sta bene e ti bacia. Procura di averti riguardo, e ricevi i saluti dal tuo affezionato padre

Domenico


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