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luce

Una vita onesta apparentemente segnata dalla sfortuna si rivela, a conti fatti, un trionfo al di là di ogni aspettativa. Chi invece sembrava fortunato e inattaccabile, scopre di avere i piedi d’argilla. Il vero protagonista di questo romanzo è la luce, che a poco a poco rivela l’autentica natura delle cose. Chi ama le situazioni ambigue e il pensiero debole (rifugio delle menti deboli) non amerà questo libro. Chi invece crede che la verità esista e sia dato alla mente e al cuore umano di conoscerla potrà forse trovarvi qualche risposta.

RECENSIONE DI RAFFAELE FRANCESCA
Per scrivere come Biagini è necessario essere un acutissimo osservatore della vita, un appassionato testimone delle altrui solitudini, latore di una sua orgogliosa umiltà che gli deriva da una mai celata ma, anzi, proclamata, Fede.
Al protagonista egli affida le parole che seguono:
“Sì, — rispose lui — sono cattolico. — Si accorse che affermarlo gli dava un senso di sicurezza, perfino una punta di orgoglio, la forza di possedere la verità. Non era merito suo, l’aveva solo ricevuta, ma era certo che fosse la verità, e la verità era importante (…….). — Partiamo da qui. Cristo è esistito. Duemila anni fa c’è stato un Uomo in Palestina. Ha predicato in modo mai sentito prima. Ha detto: ‘Io vi do un comandamento nuovo: amatevi gli uni gli altri, amatevi come Io vi ho amati’. Ha detto: ‘Io sono la resurrezione e la vita; chi crede in Me non morrà in eterno’. Ha sanato i malati. Ha ridato la vista ai ciechi. Ha scacciato i démoni. Ha risuscitato i morti. L’umanità Lo ha ringraziato condannandoLo alla crocifissione: la pena atroce e infamante dei ladri da strada. Ma Egli è risorto. Nessuna scienza potrà mai spiegare questo. Alcuni non ne parlano e credono, tacendo, di cancellare la verità.”
E poi, sempre rimanendo in tema:
“C’è Qualcuno da chiamare Padre nel segreto dell’anima, Qualcuno che ci ama tanto da sacrificare per noi il Suo Figlio Unigenito. Questo era sconvolgente: Dio che soffre. Perché soffre? Per amore”.
E ancora (e queste sono le parole di “uno di quei solidi sacerdoti tutti preghiera e niente sociologia”, come precisa l’autore):
“Nessuno è veramente ateo. Ogni anima custodisce in sé l’immagine di Dio, perché è fatta a immagine di Lui. Anima naturaliter christiana. Noi tutti abbiamo il desiderio struggente di rivedere Dio. Sì, di rivedere, perché tutti L’abbiamo visto, nell’attimo in cui la nostra anima è stata creata, all’atto del concepimento, e abbiamo una nostalgia infinita di quella Luce dell’eternità, e non avremo pace finché non ritorneremo a Lui”.
E, certamente non a caso, il richiamo a quella “luce” che appare nel titolo del romanzo viene qui evocato.
Tutto ciò pur senza dimenticare che, talvolta, anche il ricorso alla preghiera può apparire vano, poiché — come scrive l’autore — Dio sa anche essere muto. Ma sta all’uomo interpretare questo silenzio.
Il mondo che Biagini disegna è duramente realistico: i caratteri di alcuni personaggi sono perfino sgradevoli, le loro manifestazioni talvolta incomprensibili, la loro cecità spesso irritante. Emerge un mondo di sconfitti, se ci limitiamo alla vita terrena. Un mondo che raramente e parcamente concede riscatto, conosce innocenza, regala felicità.
La “storia” si svolge nei primi anni cinquanta, con, per sfondo lontano, la morte di Stalin, l’insurrezione di Berlino, la guerra in Corea. Ci imbattiamo in personaggi emblematici, come “il signor (compagno) Viviani”, che “ha lavorato per la Todt durante la guerra, costruiva bunker per i tedeschi sulla linea gotica. È stato fascistissimo”; ma, ora è agilmente e opportunisticamente approdato al “partito” (e, come scrive Biagini, “non è necessario spiegare quale”).
La sua casa? Quella tipica del parvenu “radical chic”: “In tutto l’appartamento non un’immagine sacra. Ma, nello studio, appesa alla parete, troneggiava la fotografia di un personaggio allora in auge: un volto coi baffi spioventi, un sorriso enigmatico a metà tra il paterno e il sornione, Stalin”. Ma come si presenta la casa del “signor (compagno) Viviani”? Vediamone insieme alcune caratteristiche. “Preziosa coppa di cristallo di Boemia che troneggia in mezzo a un tavolo in puro Settecento veneziano ……. un lungo corridoio dalle pareti adorne di bellissime stampe antiche …….”. Il tutto, ovviamente, con cameriera incorporata.
La vicenda ruota intorno ad una famiglia formata da padre, madre, figlio.
Il padre, Anselmo Donati: malato, debole, vinto dalla vita, vile di quella viltà che — oltre che dallo sfinimento fisico e dalla caratteriale debolezza — dal ritenere per certo inutile qualsiasi ribellione. Ribellione di cui fornirà un solo esempio lungo tutto il dipanarsi della vicenda, allorché dirà alla moglie, in un irripetuto bagliore di ammutinamento:
“Tu sei pazza, ti dico, e la tua avarizia è tale che venderesti la pelle di tua madre per farne un tamburo, se quella povera donna non fosse morta tisica a forza di mangiare poco e di non volere né medico né medicine per risparmiare …….”.
La madre, Teresa Donati: megera, arpia, medusa, erinni, grifagna presenza, Arpagone in gonnella; uno dei personaggi più negativi della vicenda: gretta, avara, incapace di affetti e gentilezza, tranne, forse, nei confronti delle amiche, anche se Biagini almeno parzialmente la assolve, laddove scrive che “la sua oculatezza nello spendere non era autentica avarizia, ma terrore della povertà”; aggiungendo: “non pensiamo troppo male della povera donna: era la prima vittima di se stessa”.
Il figlio, Paolo Donati (che all’inizio della narrazione ha diciassette anni): sensibile, fondamentalmente buono, ma introverso, timido, taciturno, spiritualmente e affettivamente solo. Pianta sensitiva in una flora costituita perlopiù da voraci carnivore. Un ragazzo infelice. La causa? Il disagio di dover aggirarsi nell’incomprensibile labirinto del mondo, abitato in gran parte da esseri distratti, superficiali, indifferenti, egoisti, prepotenti, spietati. Poiché, per scelta, lontani dalla Luce.
Infatti, a un certo punto, di lui si dice: “Aveva poca voglia di tenere gli occhi aperti sul mondo ……. Era avvilito quanto è possibile esserlo. L’indifferenza, la crudeltà della gente, lo spaventoso oceano dell’umana idiozia lo abbattevano”. Significativa sintesi, involontario presagio. E, al tempo stesso, “si accorgeva di aver sete d’infinito, e che niente sulla terra poteva saziarla”.
Passa attraverso un amore non corrisposto; un’amicizia femminile che sarebbe potuta risultare sotto certi profili salvifica (e il nome della ragazza, Lucia, ritengo non venga attribuito a casa); qualche altro tentativo velocemente abortito; ingiuste e ingiustificabili (ma non appartenenti al mondo della fantasia, purtroppo, bensì a quello reale) angherie durante il suo percorso universitario, a opera di professori unilateralmente ideologizzati, ferocemente politicizzati …….
Ma, parlando dei personaggi emblematici tratteggiati nel libro, mi sembra opportuno ricordare ancora Alberto Viviani, figlio del “signor (compagno) Viviani”, e fratello di Lucia. Di lui non aggiungo altro, se non che appare simbolico latore di necessaria, luminosa speranza.
La scrittura cui Emilio Biagini si affida per regalarci la sua Weltanschauung è solo apparentemente semplice e corsiva, ma in realtà essenziale, efficace, icastica, modulata con sapiente naturalezza sullo svolgersi della vicenda, sul momento della narrazione, sul pathos che le è sotteso.
Una scrittura, quindi, sintetica e decisa, ma anche ironica e commossa, con una forte capacità di coinvolgimento, talché le incertezze, le ansie, le paure dei suoi personaggi diventano le nostre. Ma, del pari, la speranza, la fiducia, il coraggio che talvolta traspaiono dalla narrazione divengono, magicamente e taumaturgicamente, anche nostre caratteristiche. Il che rivela umana partecipazione, affidata alle capacità dello scrittore vero, che sa cogliere episodi, mezzi toni, segnàcoli degli umani percorsi, per renderli poi sulla pagina.
Il percorso del romanzo potrebbe venir assimilato all’iter dantesco (Inferno, Purgatorio, Paradiso): partendo dagli egoismi, dal dolore, dall’indifferenza, si può pervenire alla salvezza, alla Luce, da cui il titolo del libro.
RAFFAELE FRANCESCA

RECENSIONE DI DON FABRIZIO PORCELLA
Il romanzo propone la storia di un ragazzo normale, Paolo, inserito in un altrettanto normale contesto scolastico, in una famiglia medio borghese; il padre viene presentato come un uomo remissivo, chiuso, incapace di dire: “io soffro”, mentre il figlio imparerà a gridarlo (“Dio mio, Dio mio”, cfr. Salmo 21). La madre è una donna ossessionata fino all’isteria dall’economia domestica; ricorrenti le sue paure di finire “a pan dimandato”.
A scuola Paolo è sottoposto ad una subdola propaganda anticristiana: il libro di storia, opera di un massone, è pieno di “cattiva Inquisizione cattolica” e di “immortali principi”. All’esame di maturità vige la prevaricazione atea, non c’è bisogno di precisarne l’origine politica. È da ricordare che la vicenda si svolge nell’arco temporale dal 1950 al 1954, in una piccola città dell’Emilia, nel periodo, cioè, che comprende la morte di Stalin e l’insurrezione di Berlino Est, e quindi il manifestarsi delle prime crepe nel monolito comunista.
Importante, e lo sarà per tutto il corso del romanzo, è la curiosità che caratterizza Paolo: la sua ottima riuscita negli studi non scaturisce da mera erudizione, bensì da attenzione al reale, dallo stupore davanti alle cose. Solo lo stupore, infatti, conosce e apprende. L’interesse del protagonista per le scienze (non la teologia), la passione per le scienze dell’uomo, richiama l’esclamazione colma di gratitudine del Salmo 8: “Che cosa è mai l’uomo perché Tu te ne dia pensiero?” Questa certezza, la convinzione, prima presagita, intuita, poi lucidamente approfondita, che l’uomo sia fatto per l’infinito; il singolo uomo, ogni “io” che abbia camminato sulla faccia della Terra, anche il più insignificante ai nostri occhi, è rapporto con un Tu infinito.
La curiositas del protagonista è così forte da non poter essere spenta neppure dalle manie della madre, dal suo odio verso se stessa e verso la vita. Quello che ci viene descritto è un piccolo miracolo di grazia, che non fa rumore, come in genere è nello stile di Dio, ma un ragazzo che si mantiene normale in questo clima è un capolavoro della Provvidenza. Così il romanzo ha il merito di dar voce a tante storie “anonime” ma esistenti, e che imperlano la vita in questo mondo, spesso stranamente autoconvinto che solo il dolore è vero.
Ma andiamo con ordine.
Paolo deve imparare a sue spese che la vita si perde spesso inseguendo apparenze, illusioni, che gli altri non sono come noi ce li siamo immaginati, senza però perdere una sorta di ingenuità, di fanciullezza del cuore. Però lo tormenta questo amore non corrisposto: si rende conto che “ama di amare”, e non riesce a trovare l’acqua capace di estinguere la sua sete. Trovo interessante anche la delicatezza di coscienza del protagonista, il suo cuore che si scalda per delle apparenti piccolezze, come un sorriso corrisposto: tutto l’humanum tocca chi è cattolico, la fede non oblitera la realtà umana di cui siamo impastati ma anzi la porta al suo compimento, la esalta.
In un contesto familiare non certo allegro, a causa di una madre insensibile, avida e maniaca, e nonostante le prime delusioni d’un adolescente, troviamo un’annotazione che pare stridere con il prosieguo della storia: “La vita è meravigliosa”. È forse un’esagerazione? Lo è nello slancio puerile d’un giovane ignaro di che cosa sia vivere, ma non lo è nella sua realtà più intima, più reale mi verrebbe da dire, solo che la verità di questa frase andrà verificata …… dall’altra parte.
Ad un certo punto in Paolo nasce esplicita la domanda che fa un uomo semplicemente uomo: “Che ci faccio io a questo mondo?” Già, che ci faccio? Perché esisto? Perché c’è qualcosa e non il nulla? È la domanda più “laica” che si possa porre, essendo un quesito sulla realtà, capace, la realtà, di suscitare le domande più sconvolgenti, la curiosità più viva, lo stupore più genuino. Questo è un cristiano: un uomo.
Ma Paolo ha bisogno d’una madre, e questo ci fa pensare a ……. Pinocchio. Nella nota fiaba di Collodi, infatti, assume una grande importanza la fatina dai capelli turchini, assumendo il ruolo di mediatrice tra il burattino e il padre-creatore, Geppetto. Il principio attivo nella storia della salvezza è spesso una donna, anche nella Rivelazione ebraico-cristiana (pensiamo alle grandi donne dell’Antico Testamento, alla Vergine, alla Santa Madre Chiesa). La coscienza del popolo si richiama a questa presenza femminile, a questa Sapienza (Sap. 7, 26-27) quando parla di Provvidenza.
Qualunque donna richiama all’attenzione del credente un segno della divina Presenza nella storia, presenza che noi tutti avvertiamo (o desideriamo) come delicata e forte, materna, avvolgente e liberante ad un tempo. Anche la donna più umile, più sciupata nella sua autentica femminilità ci ricorda la vocazione altissima cui è chiamato ogni essere umano, la vocazione, cioè, a donarsi sponsalmente a Dio, a divenire, per partecipazione, “una sola carne” con Lui. Per questo la corruzione femminile, o anche una cattiva madre, come quella di Paolo, ci pare subito così avvilente: corruptio optimi, pessima, potremmo dire.
Per Paolo, quel giorno, nato carico di attese e di speranze, si conclude fosco e deludente. Siamo davanti all’assurdo o al mistero? Perché è dalla risposta che diamo a questa domanda che deriva poi la qualità della nostra vita. Se gli accadimenti della vita non hanno, ora e qui, una spiegazione plausibile, allora tutta la vita è assurda, perché termina con la morte, sommo controsenso. Se c’è la ragionevole probabilità d’una risposta soddisfacente, allora è bene tentare di esplorarla, allora c’è una speranza che si chiama Mistero, inteso ovviamente nel senso cristiano e non popolar-giornalistico.
Paolo si sente un pozzo infinito, desideroso di felicità, assetato d’infinito. È normale ciò? È un’illusione o, piuttosto, il segno, la traccia di una Presenza superiore che non ci stanca di chiamarci a sé? Si tratta di un passaggio fondamentale. Qui c’è il mistero dell’uomo. Un uomo può assecondare questo infinito Desiderio o “tappare” questo pozzo, rinunciando magari per paura di quella piaga aperta nel cuore, allo specifico umano.
Ma la nostalgia di infinito non basta a qualificare un atto di fede. Occorre un salto qualitativo. Fino a questo punto saremmo ancora in una religiosità cosmica, mentre la fede cristiana nasce da un Dio personale. Questa certezza si fa strada nella mente del protagonista quando si accorge dell’inconsistenza dei suoi sogni.
Allora torniamo all’ansia di infinito, cioè: o questa è una menzogna oppure attende una risposta. Ma una risposta può essere data solo da un “Tu”, cioè da una persona; non può essere un’idea o una dottrina a soddisfare quel quid che ci divora e ci lascia esausti finché non siamo appagati.
Un episodio significativo va riportato, ed è quando Paolo scampa ad un investimento; ripensandoci non può fare a meno di rendersi conto della sinistra attrazione esercitata su di lui dalla possibilità di morire. Siamo creati dal nulla e dunque il nulla è la nostra patria di origine; l’“orlo di infuocati abissi” ci ipnotizza perché trova un addentellato nelle fibre del cuore umano, voluto da Dio ma ex nihilo. Al nulla, alla morte, si oppone l’amore, ma se l’uomo ha una paura tipica è quella di amare, perché chi ama si rende vulnerabile, espone un fianco ad eventuali attacchi, consegna le “chiavi” della propria vita ad un altro. Platone diceva che la religione serve a guarire l’amore, e Benedetto XVI ci ha dato un’Enciclica sulla carità divina proprio per mettere al centro dell’annuncio cristiano l’amore come Dio lo vuole, cioè l’amore guarito, capace di dare gioia e non di rubarla.
Un personaggio del romanzo che mi pare attualissimo e indicativo di un’intera corrente di pensiero, o meglio di un intero modo di agire, riflesso o meno, è il padre di Lucia, la vicina di casa di Paolo, una giovane handicappata. È un opportunista, che durante il Ventennio ha fatto i soldi lavorando con i fascisti e ora, nel surriscaldato dopoguerra, fa altrettanto con i comunisti. È un uomo colto, raffinato e doppio. La sua cortesia non deve trarre in inganno, tant’è che va d’accordo con la l’arida e avida madre di Paolo, avendo almeno un interesse in comune: sistemare la rispettiva prole. Viene in mente “Il padrone del mondo”, libro profetico d’inizio secolo, ove l’umanitarismo è la maschera dell’anticristo.
Ma in questo fango la Luce tenta di farsi strada: la Verità possiede una sua placida forza, capace anche di suscitare una fierezza insospettata nell’animo di Paolo: l’annuncio missionario pare portare nuove energie al nostro: condividendo la propria fede la moltiplica. A Lucia, cui era stata rigorosamente interdetto dal padre ateo e opportunista ogni contatto con la Fede, è Paolo ad annunciare la Verità, sottolineando al tempo stesso che quella Verità egli l’ha a sua volta ricevuta. È il grande tema della Tradizione, come dire delle radici cristiane.
Dove si interrompe o si rende difficoltoso un processo di trasmissione della fede, diviene difficile anche una presenza credente. Le nostre comunità stentano oggi ad assolvere a questo compito, forse perché la mentalità dominante fa vergognare chi si dice generato da una Tradizione. L’uomo contemporaneo preferisce essere figlio di se stesso uccidendo il padre (e la madre), ma finisce così per essere un figlio di nessuno, succhiando la linfa avvelanata del nichilismo. La certezza della Verità cristiana va a scontrarsi con il nuovo Io forgiato dalla mentalità dominante, certo solo che esista una sola verità: che la verità non esiste. Quindi la persecuzione è inevitabile. “Lo fanno gli altri, dunque bisogna farlo”.
Anche la difesa della purezza non deve sembrarci un residuato da crociata moralista anni Cinquanta, bensì il naturale coronamento e, nello stesso tempo, humus, per la Verità. La fede di Paolo, come forse quella di tutti noi, non è un monolito inossidabile, né tanto meno un sole perennemente fissato sul mezzodì. Anch’egli conosce le tiepidezze, i dubbi, la notte oscura. La verità, che in altri momenti gli pareva certa, ora vacilla, fino al colpo terribile del suicidio di Lucia.
Ma Dio ha le sue strade, e così Alberto, il fratello della povera Lucia, incomincia a dare la stura a quelle domande che abbiamo prima detto essere essenziali e che la sua educazione marxista gli aveva imposto di non porsi più. Ora la Luce sembra colpire con violenza gli occhi del giovane smarrito; tutto un passato di incertezze falsamente camuffate dalla patina ideologica elargita dal partito ritorna adesso con l’esigenza della Verità. E Alberto trova la verità in un vecchio catechismo, forse ingenuo nelle sue immagini, ma c’è poco da fare: se una risposta è vera, rimane tale sia che la si trovi in un dotto trattato, sia quando è riportata in un’immaginetta.
Bellissime le parole del Sacerdote che si rivolge ad Alberto: la ferita insanabile che reclama continuamente felicità, non ci lascia in pace, ci tormenta, è la nostra speranza. Guardiamo bene anche un altro fatto: mentre Paolo pare raffreddarsi circa le questioni di fede, Alberto, invece, spinto in parte dai medesimi avvenimenti, vi si avvicina. La fantasia di Dio è davvero inesauribile e, per noi, bizzarra e imprevedibile.
Arriviamo a trovare Paolo intento ad affrontare l’Università, dove si ambienta facilmente, trovandosi a proprio agio. Ma un equivoco occorsogli nel frattempo, durante le vacanze estive, lo riveste ingiustamente dei panni del maniaco (pedofilo), così che la sinistra fama che adesso lo circonda raggiunge anche l’ambiente accademico. Ciò gli comporta una sorta di accanimento da parte dei docenti, fino al boicottaggio nel corso di un esame.
E, a questo punto, Paolo fa una riflessione “apocalittica”, nel senso letterale del termine. Pensa, cioè, che non esista un metro di valutazione infallibile tra chi è colpevole ed innocente, almeno su questa terra. Esiste, sì, una giustizia, ma altrove. Ma a lui (e a noi) tocca, ora, vivere dalla parte sbagliata della realtà. È la triste consapevolezza che coglie ogni uomo che pensa, che sia veramente laico, nel senso di colui che prende seriamente la realtà, che non la “ideologizza”. È la consapevolezza anche dell’uomo non credente (cfr. Leopardi), solo che quest’ultimo, se coerente, conclude con un grido disperato. L’“apocalittico”, invece, sa che l’altra realtà è quella vera, pacificata, definitiva, già è in attesa e sopravanzerà.
Sì, ma nel frattempo? Paolo, vagando attonito per la città, pensando persino al suicidio, si ritrova davanti alla cattedrale, ma ne è come respinto. “Qualcosa di misterioso aveva attratto Alberto Viviani, qualcos’altro allontanò Paolo”. Dio, insomma, era diventato per il protagonista, come dice la Scrittura, un “terreno insidioso”. Non esiste un’aritmetica infallibile nelle cose di fede. Secondo uno schema un po’ ingenuo ci saremmo aspettati ora, o un precipitarsi di Paolo dentro il duomo, alla ricerca di un conforto spirituale, oppure un finale per così dire “capovolto”: Alberto Viviani convertito, Paolo dannato. Ma la vita ha i suoi percorsi. Dio, misteriosamente, scrive una Sua grammatica nelle righe sgangherate che noi siamo capaci di offrirGli.
L’Immenso, il Mistero, prima o poi, deve apparire un fuoco bruciante per il cristiano; deve, sì, diciamolo, fare paura ogni tanto. Uno dei drammi attuali, dice anche Benedetto XVI, è la mancanza di timor di Dio, è l’esserci assuefatti al Mistero, è il considerare Dio ovvio e scontato, non lasciarci più turbare da Lui. Scappare da una cattedrale, temporaneamente, può essere una fuga verso Dio, un tuffarsi nel Suo Mistero più profondo, un capire che Egli è l’assolutamente altro che si è fatto talmente vicino da non mollarmi più.
Dopo un lungo vagare, il protagonista riesce a raccogliersi in una chiesetta, e un’intuizione lo colpisce: mentre osserva la piccola luce del Santissimo capisce che tuto il significato dell’universo sta lì, in quella piccola luce (o, meglio, in Chi è indicato da quella lampada): senza di quella al posto di Dio metteremmo il nostro Io, con il gelo che ne deriverebbe, con le devastazioni che Paolo aveva trovato nella famiglia di Viviani, e anche da noi osservate quotidianamente.
La nostra storia sta per concludersi. Il protagonista riemerge trasformato dall’Adorazione (perché è questa che ha appena compiuto, adorare Dio: non pare il centro dell’azione pastorale di Benedetto XVI?), esce di Chiesa deciso ad andare a casa, raccontare tutto, riprendere con rinnovato entusiasmo gli studi ……. ma la distrazione e la stanchezza gli fanno velo agli occhi e non s’accorge, mentre attraversa i binari per far prima, del treno in arrivo.
Pare una tragedia senza fine, questa. Ma è così? No. Quella luce che rischiarava debolmente la chiesa è la stessa luce del senso della vita: pare ben poca cosa, magra consolazione davanti alle brutture, agli orrori, o anche solo alla banalità travolgente del quotidiano. Ma è lì, in quel Dio fatto carne e che si accontenta di una piccola lampada per quasi tutta una giornata, che si raccoglie la spiegazione di tutto.
Paolo è un personaggio negativo o positivo? La realtà non si fa riassumere in una scheda per sussidiari e antologie ma, dovendo essere schematico, direi: positivo. Positivo perché non ha mai smesso, pur attraverso i dubbi, di credere che Dio non ha abbandonato la storia a se stessa; e che questo Dio è una Persona con la quale si può parlare, che può farsi vicina con strumenti semplicissimi, come i sacramenti. È un personaggio positivo perché è normale, cattolicamente normale. È santo? Sì, non certo nel senso giornalistico, ma nel vero senso biblico.
FABRIZIO PORCELLA


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