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La catastrofe della prima guerra mondiale — scatenata dalla congiura bosniaca che assassinò l’arciduca Francesco Ferdinando d’Austria, e della quale facevano parte l’ebreo Gavrilo Princip e il musulmano Drugalo Dukovac, presenti al congresso congiunto islamico-sionista di Istanbul, nel quale venne deciso lo sterminio dei cristiani armeni — colpì duramente l’Ungheria, che fu amputata dei quattro quinti del suo territorio, lasciando milioni di magiari fuori dei confini. Ciò corrispondeva al piano di disintegrazione del cattolico Impero asburgico formulato dal “Congresso delle Massonerie delle nazioni alleate e neutrali”, tenutosi a Parigi il 28-30 giugno 1917, i cui documenti dimostrano che un anno e mezzo prima che la guerra finisse, le alte sfere massoniche avevano già formalmente deliberato la distruzione dell’Austria-Ungheria, ferocemente odiata in quanto ultimo resto del cattolico Sacro Romano Inmpero.
Dopo un breve periodo di brutale dittatura comunista, abbattuta nel 1919, l’Ungheria mutilata si alleò con la Germania, per cercare di recuperare almeno in parte le terre perdute, e riuscì a riprendersi parte della Transilvania e altri territori, ma il prezzo pagato fu altissimo: il paese si trovò vincolato alla Germania hitleriana, della quale condivise la catastrofe bellica e l’orrenda invasione sovietica. Nelle ultime fasi della guerra, l’Ungheria tentò di concludere una pace separata ma, analogamente all’Italia, fu occupata dai tedeschi. L’arrivo dei “liberatori” sovietici rappresentò una spaventosa esperienza per le popolazioni civili: tutte le donne su cui le orde sovietiche riuscirono a mettere le mani furono violentate decine di volte, quasi tutte infettate di sifilide e moltissime si suicidarono.
È in questo travagliato contesto che si svolge la vicenda di Joséf Mindszenty, nato a Mindszent nel comitato di Vas, da una numerosa e religiosissima famiglia di piccoli contadini, il 29 marzo 1892. Fin dalla prima giovinezza avvertì la vocazione religiosa e divenne prete il 15 giugno 1915. Fu sempre intrepido difensore della Verità evangelica, dei sacrosanti diritti della Chiesa e dell’istruzione cattolica. Per questo fu arrestato nel 1919 dai comunisti, e nel 1944 dai nazisti, così che ebbe modo di ottenere una prima esperienza delle delizie del totalitarismo. Divenuto arcivescovo della sede primaziale di Esztergom e cardinale subito dopo la guerra, nel 1945, fu arrestato di nuovo dai comunisti il 26 dicembre 1948, per aver cercato di difendere il suo gregge dal cancro comunista sotto la brutale occupazione sovietica, che sovvertì con i brogli e le violenze i risultati delle elezioni in cui i comunisti avevano ottenuto solo il 17% dei voti.
Seguì l’interrogatorio, in cui era già determinato dai suoi persecutori quello che doveva “confessare”, il tutto condito da degradanti torture, poi il processo farsa e la condanna all’ergastolo, scontata in condizioni spaventose ed umilianti. Venne liberato dagli eroici insorti anticomunisti il 30 ottobre 1956, ma costretto a cercare rifugio nell’ambasciata americana il 3 novembre, quando i sovietici attaccarono a tradimento i patrioti ungheresi, dopo aver finto di essere pronti a ritirarsi. I negoziatori ungheresi, fra i quali l’eroico colonnello Pál Maléter, furono arrestati dai russi durante i negoziati e assassinati.
Mentre era recluso nell’ambasciata, sentiva i ragazzi per la strada proferire le medesime bestemmie che i suoi aguzzini vomitavano in sua presenza apposta per offenderlo, durante gli interrogatori, le torture e il carcere. Era il bel risultato della politica scolastica comunista: distrutte le scuole religiose, nelle scuole pubbliche si insegnava l’ateismo. Non mancavano naturalmente preti collaborazionisti, i cosiddetti “preti della pace”, che il regime infiltrava come un cancro nella chiesa ungherese, per distruggerla dall’interno. Una volta l’ambasciata americana di Budapest, “colpevole” di dare asilo al Cardinale, fu invasa e devastata da centinaia di “studenti” africani, aizzati dal regime.
Mindszenty era deciso a non abbandonare comunque l’Ungheria, ma venne invece costretto a farlo dalle pressione del Vaticano, dove regnava la sbornia postconciliare del “dialogo”, che fruttò solo sterili acrobazie diplomatiche e non ottenne altro che favorire i comunisti. Di questo pericolo Mindszenty più volte cercò invano di rendere conscia la Santa Sede, facendo presente che la Chiesa magiara, assoggettata com’era ai comunisti, non era comunque in grado di svolgere la propria missione, e il “dialogo” avrebbe solo aiutato il nemico. E Cristo in persona aveva forse consigliato di “dialogare” con l’anticristo?
Come avrebbe potuto la diplomazia vaticana aiutare i cattolici del silenzio, se questo medesimo atteggiamento compromissorio stava rovinando lo stesso centro del cattolicesimo? La nuova politica vaticana portò infatti in Italia alla svolta a sinistra, alla distruzione della scuola, al divorzio, all’aborto, alla crisi demografica, una crisi demografica che finì per investire l’intera Europa, col dilagare del relativismo, delle sette, dell’egoismo, della denatalità, fino allo spettro non tanto remoto dell’estinzione fisica. Chi abbatté infine il comunismo? Di certo né la Ostpolitik di Brandt né la diplomazia vaticana. Ci riuscì Reagan, costringendo l’URSS ad una corsa agli armamenti che l’assurdo sistema economico della dittatura comunista non poteva sostenere. Altro che disarmo e distensione.
Ma la follia pacifista della distensione era in piena furia negli anni Settanta, che furono naturalmente il periodo di maggior splendore dell’imperialismo comunista (caduta del Vietnam, dell’Angola, del Mozambico). Il 28 settembre 1971, Mindszenty fu dunque obbligato dalle ossessionanti pressioni vaticane ad uscire dall’ambasciata americana e a recarsi in Occidente. Proclamato “ostacolo alla distensione”, dato che continuava a dire la verità sul disastro comunista, il cardinale martire fu rimosso da Paolo VI dalla sua carica di principe primate d’Ungheria, nonostante le iniziali promesse in contrario. Il Cardinale Siri, che lo incontrò a Roma nella basilica di San Paolo fuori le Mura nel 1971, fu forse l’unico che gli ofsse veramente amico: gli manifestò una calda gratitudine per le sofferenze che aveva dovuto sopportare per la Chiesa e gli baciò la mano.
Mindszenty morì nel 1975 in esilio. La sua salma tornò in Ungheria nel 1990, dopo la caduta del regime, ed è sepolta nella monumentale cripta della basilica primaziale di Esztergom. La causa di beatificazione è in corso, sebbene non manchi di incontrare i soliti ostacoli da parte dei “progressisti”. Le conseguenze del comunismo in Ungheria e altrove —secolarizzazione, bestemmie, famiglie a pezzi — sono tutt’altro che sanate, anche perché il liberalesimo che ha sostituito l’ideologia marxista è altrettanto nemico della Chiesa cattolica e della vera libertà quanto lo è il comunismo, solo in modo più subdolo.
EMILIO BIAGINI


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