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Abbiamo deciso di premiare con opportuni segni del nostro apprezzamento le opere letterarie e cinematografiche che hanno attratto il nostro interesse. Questa rubrica viene aggiornata quando ci pare e il nostro giudizio è inappellabile.

I TRIGOTTI

And the winner is …….

Ben meritevole della triplice aquila d’oro, ecco a voi:

MAJ F. (2011) In cammino, pubbl. in proprio

Segue una recensione di Emilio Biagini:

In questa nuova edizione, il capolavoro di Francesco Maj si ripresenta arricchito di parti nuove efficacemente satiriche.

Si tratta sempre di poesia altissima, un poema drammatico sui Dieci Comandamenti, che ci presenta il cuore umano in cammino fra Cielo e inferno, con visioni multiformi, che a tratti sono quasi dantesche, con grande maturità poetica e profondità teologica.

Nel Prologo una voce dal Cielo invita l’uomo a salire sul monte, abbandonando le tentazioni della terra e i canti delle sirene marine. Mosè sale obbediente al comando dell’Eterno, ma nel popolo in attesa dilaga il dubbio e l’incapacità di distinguere il bene dal male. Lo stesso Mosè dubita che le leggi siano “troppo eccelse” perché i mortali possano osservarle.

I Comandamenti si susseguono, in una corale in cui si alternano il bene, il male e il dubbio; il tutto intercalato dalle parole di solenni ammonitori e da interventi satirici sulla miseria umana. Al primo comandamento (Non avrai altro Dio fuori di me) si oppone potentemente la falsa divinità Mammona, che stuzzica i desideri umani, promette piacere e potere. Ed ecco che un veggente rivela l’inganno: false immagini di falsi dei che mentono. L’uomo è in dubbio, ma le donne invece, grazie alla preghiera e al maggiore sensus fidei, si dimostrano più ricettive alla Verità. Stupendi questi versi: “(…) fa che ti accolga in ogni mio momento / e in me ti lasci unicamente vivere… / a Te rivolgo mani tutte vuote / e sono sempre piene per accoglierti; / solo rimane il dono che ti rendo.” E il primo ammonitore conclude esortando a non far caso alle sirene mondane, ma ascoltare invece l’Unico capace di condurre fino alla meta.

Al secondo comandamento (Non nominare il nome di Dio invano) si prospetta, attraverso le parole di un profeta, la persecuzione che i servi dell’Altissimo sono destinati a subire: “Prepara il volto ad infiniti sputi / e attendi la risposta dalle pietre (…)”; ed una donna orante pronuncia una commovente preghiera che si chiude con: “A me dona di non velare mai / sotto il tuo nome santo un mio volere, / concedimi di udirti passeggiare / in ogni sera del terreno giorno / senza che, vanamente, mi nasconda!” Ma ecco all’attacco il “personaggio nero” della sacra rappresentazione, il demonio, capace ancora di nascondere l’orrore sotto una maschera di luce, per rovinare la preghiera trasformandola in frasi vuote, per caricare il nome dell’Altissimo di una miriade di inutili precetti (la mente corre subito ai 613 sterili precetti cosher dell’ebraismo), per rendere inefficace la predicazione dai pulpiti. E poi il nero personaggio amplia i suoi progetti al campo della politica, prospettando lo scatenarsi dell’odio della rivoluzione, finché il Nome divino “(…) svanirà, / e diverrà delitto il ricordarlo…”. Ma il secondo ammonitore svela le trame del nemico, che si nascondono proprio fra i chierici “in vesti arabescate” che pronunciano “santi sermoni”, chiedendo denaro (viene in mente la nuova Basilica di San Pietro, costruita con la vendita delle indulgenze, mentre sarebbe stato più semplice ed economico riparare la cadente ma bellissima basilica originaria). Così “orrendi fetori” di preghiere mal dette offendono il Cielo. Ma il sincero credente deve solo servire la Verità e “(…) in silenzio chiedere perdono.

A proposito del terzo comandamento (Santifica la festa) sono anzitutto i poeti a parlare: alla festa in terra ne corrisponde una in Cielo; è il Padre che comanda di far festa, affinché l’uomo si sollevi dal fardello quotidiano e levi il capo: “Leva la fronte accorgiti del cielo / dell’aria e della luce avverti il bacio / e tenta di capire le parole / che ti detta la pagina dei giorni (…)”. Ma un “personaggio molto quotidiano” propone, certo con grande successo, un altro modo di festeggiare, non certo in chiesa, ma in luoghi di sollazzo che portano ben lontano dalla sanità mentale e dall’ordine, perché la festa generi la rabbia. Elemento di equilibrio, parla una donna che, nella prospettiva dell’eternità, vede la festa allargarsi senza limite e senza fine. Interviene “un estraneo”, chiaramente diabolico, che non si unisce all’esortazione salutare ma promuove ogni sorta di divertimento che porti lontano dalla meditazione della festa: il tifo calcistico, le corse in auto verso le spiagge, i concerti rock, lo scatenamento degli istinti bestiali, e infatti rotola verso il nulla: “Ottimamente tutto si sviluppa / per logorare il povero animale / che beve aceto a saturar la sete / e morde sassi per nutrir la fame.” Ma interviene il terzo ammonitore a ristabilire l’equilibrio: il lavoro è santo, ma la sosta unita alla preghiera serve a ricordarci chi siamo e dove andiamo, infatti: “Vigile sempre resti la memoria / del viaggio a cui ti chiama l’esistenza / e della meta resti vivo lo splendore / ad accendere sempre la speranza.

Il quarto comandamento (Onora il padre e la madre) è occasione per il poeta per esaltare il Sacramento matrimoniale e la famiglia. Per prima una donna parla delle gioie familiari e scioglie uno stupendo canto che si conclude: “O divina bontà che in cuori umani / espandi l’onda dell’adente soffio / che schiude all’esistenza, io ti ringrazio / in ogni briciola di spazio e tempo / perdutamente voce e compartecipe.” Al padre il Signore parla della missione di guidare e sorreggere i figli, mentre alla madre, che rinascerà in ogni figlio, è affidata la missione di confortatrice e custode del focolare. Odiatore di Dio e dell’uomo, il demonio largisce osservazioni e consigli in apparenza molto umani (il matrimonio è una gabbia, soddisfare i desideri carnali, non procreare perché i figli sono un fastidio); i figli poi hanno diritto a ribellarsi, perché sono stati trascinati nella vita senza il loro consenso e chiusi in una gabbia di compiti e di obblighi, devono rinfacciare ai genitori lo “scherzo atroce” di averli messi al mondo, trattarli come uguali, farsi mantenere e far loro intendere che sono nati per un “momento di libidine” che i genitori stessi dovranno scontare fino a farli crepare dal rimorso. Ma il Signore dall’alto ammonisce i figli a confortare i genitori che diverranno vecchi, fragili e bisognosi di amorevole sostegno: “Onorate la vostra prima origine / quando a voi si trova confidata / armata solamente di memorie… / Io lo comando vindice inflessibile / del debole che impone grembo caldo / mentre si affaccia all’ultimo traguardo. / A lettere dorate scive il sole / quando tramonta gli ultimi messaggi: / in me restando incise in duro bronzo / le parole non dette di chi muore…”. Ai viscidi consigli demoniaci si ricollega la satirica concione di un “filosofo” demolitore, il quale esalta la malascienza che offre diaboliche armi per la distruzione della famiglia, per il controllo delle nascite e l’eliminazione del dolore, per i più arditi esperimenti eugenetici dai quali dovrebbe scaturire l’uomo “nuovo”, fino al “(…) felice giorno / in cui potremo maturare tanto / da trovarci con ali così vaste / da fare invidia al portentoso condor…”, Un dubbioso commenta che, seguendo la mirifica ricetta del “filosofo”, è garantito il suicidio collettivo. Ciò corona egregiamente il canto del quarto comandamento, riuscito senza dubbio in modo stupendo.

Il quinto comandamento (Non uccidere) si apre con un severo ammonimento agli scienziati, arroganti mosche cocchiere che credono di tenere in pugno i segreti della vita, come il ricercatore che — immagine poetica davvero geniale — “afferra l’ombra e crede spento il sole”. Segue un duplice inno alla vita, poi una bellissima preghiera a più voci e le parole di un veggente: altissima poesia piena di meraviglia di fronte al mistero insondabile della creazione. Ma un demagogo insorge predicando l’uso delle armi e della forza, mentre i deboli dovrebbero soccombere. Segue un medico abortista, un tipo molto umanitario pieno di comprensione verso i capricci delle madri snaturate che non vogliono gravarsi del peso di un bambino e malthusianamente sollecito verso la Terra sovrappopolata “come proclamano tante statistiche… / di cui non è permesso dubitare.” Segue una vera sinfonia di voci: una donna che loda l’accettazione e il rispetto dell’altro, un saggio che invita alla calma e alla condivisione, Dio in persona che ammonisce a non sentenziare sputando bestemmie perché Egli solo è padrone e signore della vita e soltanto Lui può dare la pace. Due profeti rispondono con cantici bellissimi esortando a non uccidere l’innocente e a non sottrarsi alla vita. Interviene il poeta con la bruciante immagine della terra assediata dall’ombra nera delle anime dei bambini non nati ai quali è stato negato il diritto di vivere per l’infamia dell’aborto e, muti, chiedono giustizia: “E avverto nella notte senza limite / dove le stelle nascono e si inseguono / di spazi più remoti innamorate / che l’amorosa offerta rifiutata / diviene sempre più maledizione!”. Un saggio depreca la crudele vanità della guerra. Gli risponde un “guerriero”, difendendo invasioni, aggressioni e stragi, che non sono delitti, purché l’aggressore vinca: infatti a scrivere la storia sono i vincitori. Ed ecco, evidentemente evocato dall’inferno, apparire l’utopista Robespierre, che esalta la rivoluzione, l’odio di classe, il Terrore, facendo balenare il fantasma del progresso che ne dovrebbe scaturire, della concordia e del benessere futuri che giustificherebbero ogni delitto, pronto ad ordinare un massacro oggi in nome di un’utopica felicità futura che non arriverà mai. Gli fa eco il demonio, che lega il progresso alla guerra, ma è un progresso di cui nessuno conosce la direzione e il risultato. Poi riprende il demonio, presentando l’orrore dell’eutanasia, mascherato da pietà per il sofferente. Infine, una preghiera corale a Gesù Cristo, l’unico capace di sconfiggere il male e consolare le vittime.

Il sesto comandamento (Non commettere adulterio) è occasione per il poeta di rievocare il matrimonio sacro e indissolubile, e quindi l’origine stessa del genere umano (“maschio e femmina Dio li creò”), per irrevocabile decreto divino. Stupendo il soliloquio di Adamo ancora solo e quasi smarrito, cui risponde la Voce divina decretando: “Non è bene che l’uomo resti solo! / Albero verde si agita nel vento / nell’infinita fuga dei deserti / e lento muore in vana sofferenza / sorto alla luce per produrre un’ombra…”. Dolcissimo è l’incontro di Adamo con Eva e altissima poesia il momento dell’estasi-dono, grazie al quale “I due saranno un essere soltanto! Li renderò partecipi dell’attimo / che suscita la vita a un universo / per sempre vivo, libero intelletto / e volontà che genera risposte…”. Ma contro il meraviglioso progetto trama l’Ombra demoniaca, che si propone di far leva sul libero arbitrio: “Un pugnale drizzato contro il cuore / di chi lo dona è il libero volere, / un rischio di tormento interminabile… / Stranamente l’artefice supremo / si procura creandoci un inferno!” La voce della corruzione si fa sentire con De Sade, che proclama d’essere arbitro di decidere il bene e il male, negando l’esistenza di norme immutabili: un invito al libertinaggio che contiene in nuce il comodo paravento del relativismo. L’uomo, incerto di fronte alla tentazione, dialoga con Dio che gli ricorda la tremenda condanna di chi corrompe l’innocenza. Ma la Nube nera torna alla carica proponendosi di trasformare gli uomini in “spavaldi grufoloni”, ossia maiali. Bellissimo l’interludio classico di Catullo a Lesbia, che ricorda come “il piacere vuole sofferenza”, a cui immediatamente segue la disperata angoscia della prostituta. Il dialogo si fa serrato tra propositi diabolici e preghiere, e si conclude con l’apparire della Madre di Dio che schiaccerà il nemico: “Perenne guerra ci sarà nel mondo / fra il serpente e la Donna senza macchia; / sarà nei figli termine di insidia, / ma il piede santo schiaccerà la serpe. / Tale sentenza immobile rimane!

Ad introdurre il settimo comandamento (Non rubare) è il dono divino delle immense ricchezze della Terra che vanno colte con cuore grato, senza lasciarsi trasportare da eccessivo attaccamento ad esse, e senza derubare la vedova, l’orfano, il prossimo. Ma l’ombra nera del demonio si insinua con l’utopia, l’invidia, la menzogna malthusiana ambientalista e assassina che mira a soffocare l’umanità, ma è paludata di arrogante malascienza; “E con dotte ricerche farò luce / con leggi matematiche per dire / che la Terra non basta al nutrimento / e occorre umanamente limitare / le bocche da nutrire; / avidamente frugherò nel cuore, / pervertirò la mente insinuando / che molte terre debbono marcire / libere al vento e a tutte le intemperie / da piede umano non contaminate.” Con vena satirica il poeta presenta una piccola galleria di personaggi ricchi e importanti sui quali sta in agguato il demonio pronto a consegnarli nudi alla terra. Un’altra forte nota satirica è introdotta dal ragionare di un uomo qualunque, testimone delle iniquità dei giudici, dei governanti e dei mass media che sovvertono la verità: “Pagate bene tutti i giornalisti / e chi comanda ai mezzi diffusori… / e intere folle subito urleranno / che in tutte le campagne l’erba è rossa.” Mordente allegoria del relativismo, che ricorda le “spade sguainate” di Chesterton per dimostrare le verità più ovvie. Il poeta evoca poi la torre di Babele, immensa impresa dissennata, e un narratore ne descrive il fallimento causato dai vizi capitali, ciascuno dei quali, in modo diverso, corrompe e annulla l’agire degli uomini: “L’orecchio non umano sente il vento / fischiare deridendo le rovine / che l’occhio vede sempre più sommerse / nelle sabbie incalzanti del deserto.” In forma di dialogo tra l’avaro e la morte, s’inserisce una potente allegoria dell’avarizia. Uno strano personaggio, che poi altro non è che il diavolo, commenta la cacciata dei mercanti dal tempio e giustifica questi ultimi che cercano di far soldi con mezzucci consentiti dall’occasione. Chiude questo canto la voce di san Francesco d’Assisi, che esorta a seguire madonna povertà, poiché se anche la terra porgesse all’uomo tutti i tesori, questi avrebbe in pugno solo vento che sfugge.

L’ottavo comandamento (Non testimoniare il falso contro nessuno) è introdotto dalle parole di un orante che si rivolge alla Realtà, “dimora stabile dell’Essere”, domandando mente lucida, cuore pronto, orecchio attento. Una voce dall’alto (è Dio che parla, ma il poeta usa frequenti perifrasi per sacrosanto rispetto) concede all’orante tutte le grazie necessarie per farlo “costruttore” di se stesso perché possa giungere alla Verità. Ma un personaggio comune, evidentemente senza troppa familiarità con la preghiera, e confidando quindi solo sulle sue forze, si trova del tutto smarrito. E qui si inserisce il maligno, proponendosi di far leva sulle chiacchiere filosofiche per portare l’uomo al relativismo, di cui il demonio stesso è l’inventore. È la cattiva filosofia dei sofisti, enunciata da Gorgia di Lentini, senza punti fermi, cinica, amorale, profittatrice, che libera l’uomo dal rimorso e giustifica ogni eccesso perché “rende sacrosanta la passione”; il male è monotono, e infatti nulla è mutato dal tempo del sofista Gorgia di Lentini, che già sguazzava nel relativismo e insegnava che “L’intelligenza serve ad ogni scopo: per truffare mietendo lunghi applausi… / e soprattutto serve a fare soldi / rubando senza mettersi in tagliola / trafficando veleni per curare”, sfruttando appunto vere o immaginarie pandemie. Un comune viandante osserva l’immensa varietà dei messaggi scritti e filmati e l’agitarsi degli uomini: “barbe viventi o tramontate / di severi filosofi” intenti “a decifrare / austeri detti forse senza senso… / Ma più c’è vuoto, più c’è da mangiare!”; e scienziati di malascienza che domandano soldoni per le loro ricerche e il progresso, e si offendono se si domanda: “Ma che ricerche sono e per che cosa?”; e sacerdoti che parlottano con formule sfuggenti che neppure loro comprendono; e giudici e avvocati concordi nell’unica certezza che “più si litiga più la pappa è grossa”. Di fronte a tale verminaio umano, il Signore ammonisce di non badare all’urlo delle folle o al trionfo dei malvagi, e di non scendere a compromessi curvando la fronte al prepotente o incoraggiando “l’artista che si vende alla menzogna”, e neppure di parlare del male per non propagarlo. Ma l’astuto demonio consiglia a chi scrive di non parlare di cose sante, di cui non possono occuparsi degnamente, ma di dedicarsi invece a descrivere a fondo il vizio, la malvagità, il furto, evitando i buoni libri e cercando invece quelli che descrivono casi estremi di gente patologica. La verità naturalmente non significa nulla per il giornalista, al quale solo importa servire l’opinione dominante e favorire “sondaggi pilotati / da qualche finanziere senza scrupoli”. Conclude questa alterna sinfonia di voci contrastanti la parola di un orante che, assediato dalle nebbie del mondo, chiede lumi a Dio, l’unico in grado di salvare l’uomo.

Si inserisce a questo punto un bellissimo intermezzo che ha per tema il cuore dell’uomo, con i suoi misteri e le sue serpi insidiose. Combattono per la signoria del cuore umano Dio e la satanica Nube nera. Dio è paziente perché “abisso non compiuto è il cuore umano”, mentre la Nube nera si pasce della speranza di condurre l’uomo alla rovina mediante malefiche utopie : “Mille progetti imbratteranno fogli / di società mirabili e perfette”, col risultato che “si vivrà scontenti sognatori / in zuffe disperate, per un’ombra!”. Con movenze che ricordano le tre fiere dantesche, il poeta dipinge le tre serpi: invidia, lussuria, avidità. Su tutto prevale, naturalmente, Dio onnipotente, con la Sua divina pazienza, che accetta di procedere tra il male perché solo Egli dal male può trarre il bene e la salvezza.

Al nono comandamento (Non desiderare la donna d’altri) è dedicato un breve dialogo tra la donna, che rivendica di non essere un ornamento qualunque, ma figlia e serva dell’Altissimo, mentre dalla Nube nera il demonio ordina di non parlare di peccato e pone al suo servizio “ (…) scrittori assai brillanti, / dottori in gamba astuti dichiarati / che sforneranno tutte le ricette / per allettare i cuori sempre deboli”. E infatti nella profondamente corrotta epoca attuale si è perduta l’idea stessa del peccato, spesso purtroppo anche tra molti chierici, mentre cultura ed arte sono di frequente al servizio del male. Segue una gustosa satira sulle donne che si danno da fare per attrarre l’attenzione degli uomini, e poi si lamentano di essere molestate.

Il decimo comandamento (Non desiderare la roba d’altri) si apre con un calmo colloquio in cui parlano esseri umani che appaiono soddisfatti di ciò che hanno, e grati al Padre celeste per i Suoi doni. Ma Arpagone, a colloquio con l’oro, propone una visione diametralmente opposta, di feroce avidità. Segue immediatamente l’azzeccatissimo discorso del demonio sulla Borsa di Milano, tempio della divinità denaro che tutti adorano ottenendo come risultato la discordia. (A maggior ragione la Borsa di Wall Street è il cuore delle speculazioni e della forsennata invadenza dei poteri forti, ove poche centinaia, forse solo poche decine di squali decidono l’avvenire di interi paesi e guidano la scristianizzazione e la corruzione del mondo, preparando tempi di orrore quali nessuno riesce ad immaginare, ma che sono stati adombrati dalle rivelazioni alla grande mistica Maria Valtorta e a numerose altre veggenti del passato). Un quarto ammonitore ricorda “l’indomabile serpe / che séguita dall’albero dipinto / al povero affamato far promesse / mentre gli addita colorati pomi…”, ed esorta a non chiedere l’impossibile, ma di accontentarsi di quanto basta per procedere nel proprio cammino. Parla quindi Dio onnipotente, ricordando come egli manderà nei secoli profeti che “ricorderanno la strada da percorrere” (e anche qui non può che ricorrere il pensiero a Maria Valtorta, o meglio alle rivelazioni che le fece il suo Divino Maestro). In modo stupendo conclude il poeta questo canto con la potente allegoria dell’invincibile Colonna, eretta a ricordare l’eternità dei Comandamenti e, di riflesso, l’assoluta inanità dei vaneggiamenti umani affondati nel relativismo.

Chiude questo stupendo poema una serie di preghiere in cui si alternano personaggi diversi: una donna, Aronne, Mosè in dialogo con la divina Nube luminosa, un ebreo che riconosce come la terra non è la sua sede definitiva, e una donna che gli fa eco riconoscendo che non è definitivo neppure il suo stesso corpo. Stupenda la successiva preghiera di Mosè: nessun uomo è un assoluto per un altro, soltanto l’Unico rimane. Un uomo prega riconoscendo che nessun traguardo umano è definitivo. Ritorna Mosè con estrema umiltà che, pur riconoscendosi non migliore di nessun altro, obbedisce al divino comando e procede, proclamando che Dio è ovunque ed è il Dio di tutti. Alla preghiera di un sacerdote, risponde il Signore che insegna come pregare: per chi non si sente degno interviene lo Spirito Santo che sopperisce alle nostre lacune e incertezze. Stupendo il dialogo conclusivo tra Dio e Mosè, che insegna come il perdono sia il supremo segno dell’amore.

Da questa nuova edizione è stata espunta l’appendice, “Il canto di Abramo”, che nella prima edizione costituiva una sorta di prologo a “In cammino”, poiché la vicenda di Abramo non solo è cronologicamente anteriore a quella di Mosè, ma “interessa in varie forme chiunque è in viaggio per la salvezza”. Anche qui si alternano molte voci: il narratore, Abramo, Isacco, il Signore, il poeta. Si trattava di uno stupendo poema da leggersi anche a sé stante, nel quale si adombrava l’interrotto sacrificio di Isacco e l’Albero della Vita, ossia il preannuncio dell’apertura della terra intera al mistero della Redenzione.

Profondità teologica, eleganza stilistica e altezza poetica si coniugano un questo poema drammatico, o sacra rappresentazione, che ben altre lodi meriterebbe di quelle che possa offrire il sottoscritto, al quale purtroppo manca l’accesso alle riviste letterarie mainstream, dove si celebrano gli ammanigliati del partito. Ma il poeta Francesco Maj è certamente il primo a insegnarci che la lode umana è “flatus vocis”, e che un’Autorità inappellabile renderà merito al merito e sgonfierà i palloni gonfiati che vanno oggi per la maggiore in questo piccolo mondo.

EMILIO BIAGINI


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