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Da: IPOTESI: periodico culturale di informazione critica,
Rapallo, Anno 4, N. 10-12, Anno 5, n. 1-8 (1979),
Numero speciale dedicato a “Il mondo fantastico di J.R.R. Tolkien”, pp. 369-371.

Laura Faelli

Trattando di J.J.R. Tolkien sono inevitabili due parole a proposito degli Hobbit, non solo perché sono gli unici esseri, fra tutti quelli che popolano il variopinto mondo della Terra di Mezzo, che Tolkien abbia completamente inventato, e non ripreso da mitologie preesistenti — come avviene per gli Elfi, i Nani, i Troll, etc. — ma anche perché gli Hobbit occupano nella vicenda e nel significato di The Lord of the Rings un posto particolare e molto importante.
Il primo Hobbit, tanto per fare un po’ di storia, nacque come eroe di una favola “per bambini”: si chiamava Bilbo Baggins, era piccolo, casalingo, notevolmente buffo e terribilmente fortunato. Suoi compagni erano tredici nani litigiosi e un curioso mago vagabondo, suoi avversari i terribili Orc, un ributtante mostriciattolo appassionato di enigmistica e un drago presuntuoso, ma tutto sommato poco previdente.
L’avventura di Bilbo andò a finire nel migliore dei modi: il tesoro dei Nani venne recuperato, il drago ucciso e lo stesso Bilbo divenne — dopo la pubblicazione — un personaggio tanto simpatico e popolare che i lettori (e non solo i bambini) chiesero un’altra storia che avesse gli Hobbit come protagonisti. E riuscirono ad ottenerla, quindici anni dopo, ma, com’è noto, risultò una storia molto diversa.
Nel prologo de Il Signore degli Anelli Tolkien ci dà un’infinità di ulteriori spiegazioni e di notizie a proposito dei suoi personaggi, della loro origine, della loro storia.
Tra le tante cose, impariamo che gli Hobbit mancano di qualsiasi organizzazione statale, che la loro principale autorità ha l’unico compito di presiedere ai frequenti banchetti, che le poche armi rimaste dai tempi antichi delle guerre vengono considerate “mathom”, cioè oggetti inutili, che la cultura e — ancor più — la tecnologia sono parole pressoché sconosciute, che in compenso si dà largo spazio alle feste, alle canzoni, al buon cibo e alla buona birra.
Si tratta di un popolo assolutamente diverso da quelli utilizzati dalla tradizione della letteratura fantastica.
L’aspetto che caratterizza maggiormente gli Hobbit è forse la loro vocazione casalinga e il tratto umoristico con cui vengono descritti che li rende simpatici e molto diversi dai personaggi di un poema epico, ai quali si può avvicinare un Aragorn, per esempio.
Per un “malaugurato caso” (o forse per un disegno provvidenziale?) in questa loro innocente, ignara terra, piomba inaspettatamente l’Anello del Male. E qui entra in scena Frodo, l’Hobbit più importante della nostra storia, che ha ricevuto l’anello in eredità dall’inconsapevole Bilbo. A lui si spalanca davanti di colpo una realtà da incubo e si prospetta una missione ancor più terrificante: scendere senza difese e senza speranza nell’abisso stesso del Regno del Male, per distruggere il Male. Davvero un po’ troppo, per un piccolo Hobbit.
Eppure Frodo accetta lo spaventoso compito, che gli si rivela a poco a poco in tutta la sua enorme difficoltà.
Va detto che egli non si rende conto subito della portata della sua missione, ma deve decidere volta per volta se proseguire o no: quello che è importante è comunque che non si tira mai indietro, nonostante la paura, e questa sua determinazione stupisce tutti, anche lo stesso Gandalf, che pure di Hobbit se ne intende.
A questo punto è facile chiedersi: perché proprio ad un Hobbit è affidato un compito così alto e pericoloso?
Avrebbero potuto assolverlo gli Elfi, che vivono in una dimensione lontana dal male (precedente al peccato originale?) e che lottano per il Bene, oppure i grandi eroi che combattono il Male con le armi, o Gandalf, il più grande dei maghi buoni.
Perché dunque la scelta di un Hobbit?
Perché gli Hobbit sembrano costituzionalmente immuni da quella che è la più grande causa del male: l’ambizione, la sete del potere. Proprio questo fatto permette a Frodo di compiere incontaminato la sua missione, senza ascoltare le poco disinteressate proposte di quelli che vorrebbero “liberarlo” dal suo fardello.
Frodo rappresenta perciò l’innocenza addirittura inconsapevole del Male: gli Elfi lo combattono, gli uomini o lo accettano o lo respingono, gli Hobbit non lo concepiscono.
Non bisogna però credere che si tratti di individui incapaci di sbagliare, di predestinati o di qualcosa di simile: esistono Hobbit degeneri, ma si tratta di eccezioni: l’Hobbit è buono nel senso più profondo del termine, per inclinazione naturale.
Ed è proprio ai buoni che è riservato il compito di salvare il mondo. Certo a questo proposito non si possono trascurare le profonde convinzioni cattoliche di Tolkien: il fatto che siano non i grandi mai i buoni, anche se piccoli, a compiere le azioni che veramente contano è di chiara ispirazione evangelica.


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