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Ahimé, il relativismo dilaga. Naturalmente ci sono cascati anche i geografi. Tenetevi saldi, anzi, allacciate le cinture, perché la geografia accademica dà spettacolo.
Parliamo della regionalizzazione, che “dovrebbe” essere lo studio del modo in cui si formano le regioni funzionali, ossia quelle che gravitano intorno ad un centro urbano dal quale la popolazione regionale ottiene i necessari servizi. Anzi, lasciamo parlare l’”esperto”.
Si tratta del Prof. Angelo Turco (1984), il quale formula in proposito ciò che egli chiama “tesi forti”. Scrive il prefato autore: “La prima tesi che espliciterò è (…..) la seguente: la ricerca regionale aumenta in modo sostanziale l’intelligibilità dell’organizzazione umana dello spazio; ciò perché la regione si configura come una formazione geografica che garantisce la realizzazione di obiettivi socialmente più rilevanti di quelli perseguibili a mezzo di formazioni geografiche che dirò genericamente elementari e/o di essi comprensivi”.
Sulla nascita della regione, il Turco è altrettanto chiaro: essa nasce in quanto “la territorializzazione progressiva comporta una complessificazione dell’ambiente (…..) Con altre parole un attore sintagmatico (…..) nel mettere a punto strategie sull’uso del territorio (…..) opera in condizioni estremamente opache e, in particolare, non conosce esattamente né il ventaglio né la performatività delle sequenze operative capaci di assicurare congruenza tra le attese che lo inducono ad agire ed i risultati effettivamente conseguibili. Si colga correttamente l’accezione del termine complessità; esso designa in effetti una differenza tra potenzialità ed attualità nell’agire rendendo l’agire stesso consustanziale ad una ‘cogenza selettiva’. Nel dire dunque che la complessità è una funzione diretta della massa territoriale, penseremo alla territorializzazione come portatrice di un esito con doppio contenuto: da un lato, lo sganciamento degli attori dai condizionamenti fisico-naturali; dall’altro lato, l’assoggettamento degli attori all’imperativo costante e gravoso di scegliere, di prendere incessantemente decisioni in un ambiente incerto ed impresico” (Turco 1984).
Ma come potrà il povero “attore sintagmatico” cavarsela nell’ambiente “impresico”? Naturalmente, ricorrerà ad un “mediatore”. Infatti, continua l’angelico Turco, “la relazione tra l’attore e l’ambiente non è binaria; essa, piuttosto, è ternaria, operandosi per il tramite di un mediatore la cui funzione essenziale è ridurre la complessità, ossia di respingere il divario tra le potenzialità e l’attualizzazione dell’agire. Chiameremo tale mediatore genericamente senso e lo intenderemo in termini luhmanniani come la ‘forma delle premesse per la ricezione di informazioni e per l’elaborazione cosciente dell’esperienza vissuta che rende possibile la comprensione e la riduzione cosciente della complessità elevata’”.
Onde evitare che rimanga qualsiasi ombra di dubbio circa l’interpretazione della sua chiarissima prosa, il Turco si preoccupa di precisare che il “senso del senso (….) coincide assai semplicemente con la plausibilità di una mediazione necessaria tra attori ed ambiente complessificato, come preordinamento convenzionale ed insieme processivo delle strutture implose”.
Altrove, nel trattare del rapporto tra geografia e scienze umane, il Turco (1987) spiega che “il fondamento prasseologico legalizza tramite l’autoreferenza tutti quegli accadimenti — e quei comportamenti — che il fondamento normativo non riusciva a legare tramite stipulazioni”, e che “il gioco linguistico trascende la preformazione linguistica della cognizione anche se non ne annulla la cogenza”, ed inoltre — continua, con cristallina evidenza, il Turco — “È solo il rinvio alla pertinenza come idealità dell’autoriflessione che può dare indicazioni sul ramo del fiume che si è imboccato alla biforcazione: se quello che dopo una serie di rapide conduce alla cascata; oppure quello che scende alla pianura lento e sicuro”, infatti — chiarisce il Turco — quello che ci vuole è “un contesto della giustificazione in grado di istituire a valle una simmetria di rapporti interdisciplinari squilibrati a monte. Ove ciò non si dia (sic), la disciplina si muove in un quadro di transizione al caos che più chiaro non si potrebbe immaginare: importa problemi la cui soluzione disciplinare è priva dei requisiti di scambiabilità: l’autoreferenza è ridotta alla pura funzione di conservazione e riproduzione biologica della comunità, infatti” — continua a chiarire sempre più cristallinamente il Turco — “una ragione critica autoreferenziale afferma anzitutto se stessa negando consistenza argomentativa ad asserzioni come ‘questa non è geografia’. Essa si dota di una teoria riflettendo sulle connessioni che si stabiliscono tra prasseologia ed ideali-referenti esterni, l’obiettivo atteso essendo, beninteso, il successo della fluttuazione disciplinare. Essa infine intende la tecnica della critica come valutazione dei contesti creativi e giustificativi in quanto pratiche secondarie di legittimazione incaricate di elaborare pertinenza disciplinare” (Turco 1987).
Non ancora soddisfatto di tali illuminanti asserzioni, Angelo Turco torna alla carica, per rendere noto ad un mondo in impaziente attesa che “la dinamica del nostro veicolo segnico trova svolgimento lungo l’asse delle relazioni pragmatiche”, infatti, “le relazioni pragmatiche, obbligando a slittare dalla sostanza linguistica del designatore alla sua effettualità, agli imperativi etimologici del prassein, il fare di cui è portatore, ci proietta nel cuore della tematica habermasiana dell’agire comunicativo” (Turco 1994). Chi ha capito cosa vuol dire, alzi la mano.
No, non si tratta di un turco che cerca di dimostrare la propria maturità ad entrare nella Comunità Europea parlando quello che egli molto ottimisticamente crede sia italiano, e magari spera di surriscaldare il cervello dei lettori al punto da far loro dimenticare l’Olocausto armeno.
Si tratta proprio di un professore di un’università italiana, vincitore di regolare concorso. Il fatto più grave è appunto che parole in libertà come quelle riportate sopra abbiano incontrato il favore di una miserabile commissione di concorso ed abbiano quindi fruttato all’individuo lodi, appoggi e lauri accademici, nonché l’opportunità di insegnare baronalmente all’università, costringendo gli studenti a ripetere all’esame bizzarre esternazioni del genere.
Nella frenesia di iperspecializzazione e disfacimento morale, mentre si continua, a dispetto di ogni evidenza in contrario e di ogni fallimento epocale, a blaterare la “geografia marxista”, è nata pure la “geografia dei froci” (pardon, dei “gay”) e la “geografia femminista”, e le parole d’ordine della ricerca, che in passato erano ancora “ipotesi” e “verifica”, sono state sostituite da “discorso”. Infatti “ipotesi” e “verifica” sanno di accertamento della verità, concetti che, com’è noto, fanno parte di un antiquato bagaglio culturale “fascista” e “berlusconiano”, quindi da condannare al rogo. “Discorso” è politicamente corretto: si adatta perfettamente alla nostra età delle chiacchiere.
Non vi è quindi da stupirsi se la geografia come disciplina attraversa una seria, anzi serissima crisi, e di questo passo finirà per scomparire. Ciò che, in parte, finora, salva la geografia, è che, se Atene piange, Sparta non ride.
Cervelli surriscaldati si aggirano infatti anche in altre discipline, ciò che tende a mascherare la crisi dell’infelice disciplina che vanta tra i suoi padri nobili Eratostene e Alexander von Humboldt. Tanto per fare un esempio, anche certi sociologi hanno dato spettacolo: la scuola statunitense dell’”etnometodologia” (Garfinkel 1967, Turner 1974, Zimmerman & Pollner 1970, Zimmerman & Wieder 1970), ad esempio, è legata al presupposto secondo cui la società non sarebbe organizzata sulla base di rapporti intersoggettivamente verificabili tra individui, istituzioni e modelli culturali, e quindi sul modo di vivere delle persone normali e dotate del ben dell’intelletto. Al contrario, secondo gli “etnometodologi”, si baserebbe semplicemente su un soggettivo “senso dell’ordine sociale”, il quale farebbe credere a tutti che esista una struttura sociale, un “mondo reale”. Ma il mondo reale, per costoro, non c’è, o non si può conoscerlo. La matrice idealistica, e quindi gnostica, di simili farneticazioni è evidente. George Berkeley (1685-1753) era un vescovo anglicano di Cloyne, uno dei numerosi ecclesiastici protestanti imposti dagli inglesi all’Irlanda a succhiare le decime agli sventurati contadini cattolici oppressi, umiliati e minacciati dalle continue carestie (ma morire di fame non sarà un’idea soggettiva?). Questo degno “pastore” protestante aveva inventato l’assioma “esse est percipi”. In altre parole, l’universo sarebbe “fatto di idee”. Si racconta che ad un amico il quale obiettava che se egli, Berkeley, avesse urtato una pietra avrebbe dovuto ammettere, a causa del dolore provato, che la pietra stessa non era affatto un’idea, il vescovo-filosofo abbia risposto imperterrito: “Ma anche il dolore sarebbe un’idea”. Una risposta del genere non è che un sofisma, ossia una gratuita (e ridicola) acrobazia intellettuale. Non sappiamo quale sia stata la contro-risposta dell’amico, se ve ne fu una, ma costui avrebbe potuto agevolmente controbattere che il fatto stesso che si stessero parlando e si comprendessero a vicenda dimostrava l’esistenza di una condizione di intersoggettività. Infatti i concetti di “pietra” e di “dolore” erano immediatamente evidenti a tutti e due, e a chiunque ascoltasse il loro eletto conversare.
Una simile intersoggettività non avrebbe potuto verificarsi senza un solido e ben conoscibile mondo reale, al quale entrambi, come tutti gli altri, facevano riferimento nel loro ragionare e discorrere. Le medesime mode intellettuali che non conducono da nessuna parte riemergono secolo dopo secolo, perché ogni tanto qualcuno crede di riscoprire non l’acqua calda, ma la risciacquatura dei piatti, e con quella crede di supplire al vuoto pneumatico esistente nel suo cervello. Il relativismo o, comunque lo si voglia chiamare (soggettivismo, postmodernismo, pensiero debole, dispepsia, diarrea intellettuale, putrefazione, proliferazione di vermi nel cervello) riemerge, guarda caso, proprio nel momento in cui, grazie alla scienza autentica, le concezioni atee e materialistiche entrano in crisi irreversibile.
È infatti contraddittorio, oltre che grottesco, lo scientismo che pretenderebbe di attribuire alla scienza il ruolo di “unica” (sic) fonte di conoscenza, dato che la proposizione “la scienza è l’unica fonte di conoscenza”, proprio quella, non è dimostrabile scientificamente. Si cade quindi, come ben rileva il Popper (1968), nella ben nota assurdità che i logici chiamano paradosso del cretese (“Un cretese dice: ‘Tutti i cretesi mentono’”, ma se questa affermazione è vera, vuol dire che almeno un cretese ha detto la verità, dunque la tesi si autodistrugge). Come rilevato altrove in questo sito, nel la sezione “Cœli enarrant gloriam Dei”, l’evoluzionismo è ormai violentemente contestato da numerosissimi scienziati (non integralisti protestanti legati all’interpretazione letterale della Bibbia, ma matematici, genetisti, paleontologi). La spiegazione materialistica dell’evoluzione in base al semplice caso, senza l’intervento inevitabile di una mente creatrice e ordinatrice, si rivela sempre meno sostenibile, a dispetto delle elucubrazioni alimentate dai salotti buoni dell’alta massoneria anglosassone.
Al tempo stesso, la ricerca cosmologica (anche qui vedi la sezione “Cœli enarrant gloriam Dei”) mostra inesorabilmente un quadro sempre meno compatibile con la concezione di un universo infinito, eterno e dominato dal caso, una concezione cara ai materialisti, che avrebbe permesso loro di sognare un impossibile mondo senza Dio e senza Creazione. È solo grazie al pensiero debole, anzi debolissimo, che un astrofisico può dichiararsi “ateo”, ma se gli si chiede come può il mondo esistere senza una mente creatrice e ordinatrice non saprà rispondere. Il marxismo, poi, è ridotto in cenere e affogato nel mare di sangue di milioni di vittime, anche se marxisti ed ex-marxisti continuano a formare una classe chiusa che gode tuttora di importanti rendite di posizione nella società, specie nel campo della cosiddetta “cultura”.
Che il relativismo sia l’ultima spiaggia per il materialista ateo che cerca di sfuggire al proprio fallimento intellettuale e morale? Il relativismo assoluto è sterile, errato e in mala fede, ben degno di accademici palloni gonfiati che hanno venduto l’anima. Nessuno ci crede veramente, specie se ad essere messo in gioco è lui stesso. Se siete abbastanza grossi e forti o conoscete il karaté in modo da poter contenere eventuali reazioni violente, provate a prendere da parte qualcuno di quegli intellettualoidi che si dichiarano fautori del “pensiero debole” e insultate per bene lui e i suoi onorevoli antenati, e poi state a vedere il risultato. Scoprirete subito che il relativismo del gentiluomo si dilegua come nebbia al sole: egli pure è convinto che esistano verità oggettive, quelle che gli fanno comodo, naturalmente. Come minimo, dando prova della sua brillante immaginazione, vi dirà che siete “fascista”, concetto assurto a certezza assoluta di male metafisico (dunque, c’è qualcosa che non è relativo). Di certo vi è che, con l’avanzare del cosiddetto “postmoderno”, regna, proclamata come Vangelo, l’incertezza del relativismo, un tunnel buio dal quale non si vede ancora la fine.
Niente di nuovo: non è altro che il decrepito scetticismo degli antichi sofisti greci, quale fu il vecchio Pirrone di Elide, tirato fuori dalla naftalina. “Nulla di nuovo sotto il sole”, ammonisce, non a caso, il libro dell’Ecclesiaste. “Esaminate ogni cosa, ritenete ciò che è buono”, è l’esortazione di San Paolo, che esorta alla fiducia cristiana nei poteri della mente umana, un dono divino col quale siamo ben capaci di investigare e giudicare. Se i relativisti avessero ragione, non avrebbe alcun senso affaticarsi per imparare, per cercare lavoro, per fare qualcosa di utile. Tanto varrebbe fare solo i propri comodi, che è poi proprio l’obiettivo dei relativisti, i quali per prima cosa “relativizzano”, cioè rimuovono dal proprio febbricitante cervello le certezze della Rivelazione cristiana, e “aboliscono” i “fastidiosi” Dieci Comandamenti e la morale naturale, così come i sadducei e i farisei vollero che Cristo fosse “abolito” dalla Croce perché era per loro vivente rimprovero, così come tutti i viziosi e gli idolatri di se stessi non vogliono sentire parlare di peccato, castigo, inferno.
Il relativismo è l’ideologia ideale per una società di drogati, per giustificare il disfacimento intellettuale e la disgregazione sociale, fino all’estinzione del genere umano secondo l’utopia neognostica e diabolica degli eretici càtari. Del resto non avrebbe neppure senso ascoltare quanto i relativisti stessi dicono: se “tutto è relativo” perché proprio loro dovrebbero sfuggire alla relativizzazione e pretendere di poter insegnare qualcosa? Anche la proposizione “tutto è relativo”, infatti, si sgretola, per palese contraddittorietà logica, contro la dura roccia del paradosso del cretese.

EMILIO BIAGINI

NOTA BIBLIOGRAFICA
GARFINKEL H. (1967) Studies in ethnomethodology, Englewood Cliffs, N.J., Prentice-Hall
POPPER K. (1968) The logic of scientific discovery, London, Oxford University Press
TURCO A. (1984) “Lo spazio non regionalizzato: una versione sistemica”, in Regione e regionalizzazione, cur. Turco A., Milano, Angeli, pp. 83-106
TURCO A. (1987) “Geografia e scienze umane”, in Aspetti e problemi della geografia, cur. Corna Pellegrini G., Milano, Marzorati, vol. II, pp. 85-130
TURCO A. (1994) “Semiotica del territorio congetture esplorazioni progetti”, Rivista Geografica Italiana, 101, pp. 365-383
TURNER J.H. (1974) The structure of sociological theory, Homewood, Ill., Dorsey
ZIMMERMAN D.H. & POLLNER M. (1970) “The everyday world as phenomenon”, in Understanding everyday life, cur. J.D.Douglas, Chicago, Aldine, pp. 80-103
ZIMMERMAN D.H. & WIEDER D.L. (1970) “Ethnomethodology and the problem of order”, in Understanding everyday life, cur. J.D.Douglas, Chicago, Aldine, pp. 285-295


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