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Quasi nello stesso tempo giunse Tartaro. Si guardarono spauriti l’un l’altro, accennando a un saluto. A poco a poco vennero anche gli altri. Andrea Falco, appena vide Paolo, gli si avvicinò e sussurrò:

“Hanno operato il padre di Belmonte. Cancro, pare.”

“Ma quando?”

“Ieri, chissà se lui si presenterà all’esame? Sua madre ha telefonato ai miei. Era disperata.”

Ed ecco arrivare Belmonte: una statua di cera. Molti gli si fecero intorno a chieder notizie. Paolo si sorprese a osservare tutto con distacco, lui così emotivo. I fatti esteriori galleggiavano sulla sua coscienza come olio sull’acqua. “Come posso essere così duro di cuore?” si domandava. Eppure non si sentiva colpito dalla disgrazia altrui, in quel momento. Aveva troppi motivi di ansia che lo assediavano.

Venne la chiamata. Le solite scale parevano senza fine. Poi ecco l’aula: non era più grande, o più piccola, del solito? qualcosa di diverso doveva esserci, ma non riusciva a capire che cosa.

Un importante personaggio in doppiopetto impose silenzio con la mano e dettò:

“L’esperienza e gli ideali del mondo classico al confronto della vita e dell’esperienza d’oggi”. — Una breve pausa, poi cominciò a dettare il secondo tema, che Paolo scrisse soltanto perché vi era obbligato: già sapeva che avrebbe svolto il primo.

Finita la dettatura, l’importante personaggio tuonò in tono fra il severo e il minaccioso:

“Avete sei ore. Cercate di impiegarle bene. E ricordatevi: voglio sentir volare le mosche.”

“È un amico delle mosche”, insinuò una voce dai banchi. A Paolo sfuggì un sorriso. La tensione era scomparsa.

Lavorò tranquillo, con impegno. Gli venne spontaneo un paragone fra la presunta serenità del mondo di Fidia, di Saffo, di Socrate, e la tempestosa incertezza contemporanea. Ma seppe anche osservare che quella serenità non è che l’effetto ottico della distanza: Fidia morì in carcere per crimini non commessi, Saffo si suicidò per ragioni sulle quali era meglio sorvolare, Socrate fu condannato a bere la cicuta. Chissà che immagine idillica avranno del nostro tempo gli storici fra duemilacinquecento anni (ammesso — ma questo Paolo non lo scrisse nel tema — che a quell’epoca ci siano ancora storici, libri e bipedi umani in circolazione). In tutte le epoche gli uomini soffrono, cadono, amano, muoiono: sotto questo aspetto non c’è mutamento. Una somiglianza profonda tra il mondo classico e l’Occidente moderno è l’aspirazione alla libertà, mentre in Oriente l’individuo scompare inghiottito dal Moloch del capo divinizzato (e questo avrebbe fatto meglio a non scriverlo, ma essendo un figlio dif-fic-cil-le non dava mai retta alla sua mammina che desiderava solo il suo bene). Fu poi il pensiero di Lucia a suggerirgli la traccia principale dello svolgimento.

L’inappagata sete di verità di lei lo portò, per associazione di idee, a sforzarsi d’immaginare come doveva essere la vita prima di Cristo. Per quanto elevata, la civiltà classica, non poteva che avanzare alla cieca, priva della Rivelazione, e quindi nell’ignoranza della verità. La verità non è un concetto astratto. È una persona. Una volta sola si è incarnata. Questo è l’unico fatto realmente nuovo della storia. Il resto è cronaca grigia di stragi, pestilenze, guerre, scoperte e dimenticanze (chissà quante grandi civiltà sono andate perdute), gesti nobili e atti vili, povertà e ricchezza, oppressione e slanci di libertà, chiacchiere insulse e sangue. Ma da allora, da quando cioè il Verbo si è fatto carne, è esistito almeno un punto di riferimento. E Paolo espresse la sua fede nell’opera sottile della Provvidenza, che dirige gli avvenimenti, apparentemente banali e casuali, verso un fine ultimo superiore all’uomo.

Mentre scriveva, gli veniva in mente un altro tema, svolto tanto tempo fa, addirittura nelle medie inferiori: “Indicate quale, secondo voi, è l’uomo che riesce a dare un senso più alto alla sua vita: l’educatore, lo scienziato o il santo”. Troppo difficile per ragazzi così piccoli? Ma una volta si studiava sul serio e l’abitudine a ragionare non era stata delegata a nani e ballerine, comici televisivi e “veline”. Nello svolgimento, Paolo aveva scritto allora che era possibile, in teoria, che una persona ricoprisse tutti e tre i ruoli nella propria vita, ma che non tutti diventano scienziati o educatori, mentre tutti sono chiamati alla santità. È dunque a raggiungere quel fine che dobbiamo (dovremmo) tendere con tutte le nostre forze, perché la vita finisce, anche i premi Nobel muoiono. Solo la luce del paradiso non si spegne mai. L’insegnante, che era un’anziana e dolce signora, terziaria carmelitana, gli aveva dato nove. Per qualche motivo, quel ricordo lo rincuorò. Purtroppo, chi doveva correggere quel tema della maturità non era un carmelitano, come Paolo ben presto avrebbe dovuto constatare.

Finirono le prove scritte. Vennero gli orali. Autorevoli giudici dai volti impenetrabili sedevano dietro grandi tavoli dalla vernice un po’ scrostata. Zanelli si torceva le mani sudate, col terrore sul viso. Belmonte muoveva le labbra in silenziosa preghiera, non si capiva se per il suo esame o per la salvezza del padre.

“Parli di Kant”, ordinò una voce secca.

“Come?” fece Paolo. Qualcuno l’aveva chiamato, l’aveva fatto sedere. Era l’interrogazione di filosofia. L’esaminatrice, piccola e rotonda, di mezza età, dalla faccia di pietra, gli occhi gelidi da colonnello del Kgb, si mise ad osservare il panorama inquadrato dalla finestra aperta. Nella mente di Paolo le nozioni affondavano come luci soffocate dalla nebbia. Sentiva la propria voce lontana, come fosse quella di un altro.

Tutti gli orali del gruppo letterario si susseguirono press’a poco a quel modo. Lo sconcertò specialmente quello d’italiano, con l’importante personaggio che aveva dettato i temi, l’amico delle mosche, il principe delle mosche, il quale esordì con voce secca:

“Un po’ ingenuo il suo svolgimento, sa? Ammesso che il cristianesimo sia come lo ha dipinto lei, le sembra tanto attuale, tanto moderno?”

Paolo si sentì come in trincea, solo. Il nemico era padrone del campo. Si trattava di abbassare la testa per evitare le cannonate o tenergli testa. Rispose esitando:

“Veramente, l’aspetto spirituale…”

L’altro aveva il coltello dal manico e non esitò ad usarlo:

“Il progresso ha un profondo significato ben oltre le pretese spirituali di religioni e sette, che sono spesso nient’altro che oppio dei popoli. Il progresso affranca l’uomo dallo sfruttamento. Mai sentito parlare di questo?”

Il ragazzo non seppe cosa dire. Sì, aveva sentito qualcosa del genere nelle avide bocche spalancate di demagoghi criminali. Ma poteva arrischiarsi a dirlo?

“Il Vangelo dice che è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago piuttosto che un ricco entri nel regno dei cieli; questo rimane attuale del cosiddetto messaggio cristiano, oggi”, incalzava l’esaminatore, più intento a mostrarsi zelante nel far propaganda che a condurre l’esame.

“Anche il diavolo può citare le Sacre Scritture, se gli serve;” pensava Paolo “e ad una citazione fuori contesto si può far dire quello che si vuole, se si è in mala fede”. E rifletteva: “Sarà anche questo un ex fascista come il padre di Lucia, che ha bisogno di rifarsi, come si dice, una verginità politica?”. Ma nessuna di queste considerazioni aveva molta probabilità di aiutarlo a superare l’esame.

“Un ricco… un ricco… ricco… ricco…”, Paolo si attaccò a quella parola cercando di trarne qualche idea per rispondere all’esaminatore, ma tutto quello che riusciva a spremere era il ricordo di Candiani con la sua smagliante macchina rossa, mentre si portava via Claudia, ben lieta di stare con un ricco, piuttosto che con lui che era sempre al verde, eccetto quel poco che gli passava suo padre di nascosto dalla “Salvatrice”.

Ma perché quell’insistenza opprimente? L’altro sembrava volesse ad ogni costo lavargli il cervello, fare bottino di una recluta, di un futuro voto. E il tema lui l’aveva svolto come gli era riuscito. Di più non poteva fare. Perché non gli domandava qualcosa di letteratura, invece di fare l’agit-prop? Ma quello era il presidente della commissione e faceva quel che voleva.

Il partito penetrava come una piovra nei gangli della società, secondo il dettato di Gramsci: “espugnare le casematte della borghesia”. Scuola, università, banche, burocrazia, magistratura, giornalismo: una volta che le casematte fossero cadute, anche vincere le elezioni non sarebbe valso a nulla ai “fascisti”, intendendo per “fascisti” tutti quelli che non favorivano gli interessi e gli appetiti di lorsignori. Non sarebbe valso a nulla, perché il vero potere sta nella rete di piccoli e grandi centri nodali della società, nei burocrati dal sedere inamovibilmente incollato alla poltrona, in grado di sabotare e perseguitare qualunque governo a loro sgradito. Anche se fosse caduto miseramente lo “stato guida”, quell’Unione Sovietica tanto decantata, ormai la burocrazia, autoperpetuantesi per concorso e promossa per scatti di anzianità, avrebbe continuato a signoreggiare, riciclandosi magari come “liberale” o “cattolica moderatamente di sinistra”. Non “proletari di tutto il mondo, unitevi”, che era lo specchietto per le povere allodole da prendere in giro, ma “burocrati, faccendieri e invidiosi di tutto il mondo, unitevi”. Ad un tratto era accaduta una cosa strana: Paolo aveva avuto la netta impressione che ad interrogarlo fosse quell’altro autorevole personaggio: il principe dei voltagabbana, il padre di Lucia.

Alcuni giorni dopo, il secondo gruppo di orali: matematica, fisica, scienze naturali, storia dell’arte. Qui difficoltà e paure furono assai minori. Ma l’ansia divorò ogni ora di quella settimana che trascorse prima che fossero noti i risultati. Paolo non ebbe il coraggio di andare a vedere i quadri. Incaricò per telefono Andrea Falco (“Ma molla quel telefono, dannazione, il telefono costa”, aveva ringhiato sua madre “e mollalo, vita maledetta”) di comunicargli l’esito del suo esame.

Con gran dispiacere apprese di dover riparare in italiano e filosofia. Sua madre gli fece una scenata isterica:

“Sei un gran imbecille. Ti avevo detto, sì o no, di adeguarti? di mimetizzarti? Ma no, il cretino deve far sfoggio delle sue convinzioni. Così vedrai che ti bocceranno anche a ottobre. Ma che vita maledetta che mi è toccata. Faresti scappare la pazienza a un santo. Vorrei sapere chi è che mi ha maledetto quando sono nata. E piantala di guardarmi con quella faccia.”

Nelle settimane successive, il processo alla faccia muta del figlio, seduto davanti a lei a pranzo e a cena, divenne una parte del regolare andamento domestico, così come il massiccio consumo di medicina contro l’ulcera da parte del padre di lui.

Poco valse a placare l’erinni domestica il fatto che fosse stata una generale strage. Ben pochi se l’erano cavata: Claudia Maltese, Carlo Candiani, Giosuè Tartaro, quelli che sapevano “raccontarla”. Non era stata una commissione dal fine intuito. In compenso aveva fatto giustizia senza pietà di tanti fannulloni: Pampalini, Monticelli, la Pignardi, Zanelli così aperto e sincero. Marta doveva riparare in matematica, Acerra in storia e filosofia. Falco e Belmonte si erano visti appioppare le medesime materie di Paolo. Marchisio era rimandato in matematica, fisica e scienze, ma non sembrava che i suoi rinunciassero all’idea di farne un ingegnere, tanto tenace e ben collocata è l’umana costanza.

“Siamo nati per soffriggere”, commentò Andrea, che non perdeva mai il buon umore.

Il giorno dopo l’uscita dei risultati, Paolo e Andrea si recarono a far visita al padre di Belmonte, che stava per esser dimesso dall’ospedale. Elio li accolse con un sorriso stanco. Aveva trascorso al capezzale del malato tutto il tempo libero dagli esami.

Una visita forzatamente breve. L’infermo era ancora assai debole, per quanto si sforzasse di chiacchierare e mostrarsi allegro:

“Ora va bene, è niente in confronto a prima. Solo che io sono furbo,” disse, strizzando l’occhio “prima di andare sotto i ferri, mi sono confessato e comunicato. Così avevo il biglietto pronto per lassù.”

“Adesso” intervenne Andrea “le racconto l’ultima di Motterini.”

“È come la barzelletta del solito Pierino?”

“No, papà,” spiegò Elio “Motterini è un nostro compagno.”

“È successo mentre venivo qui,” cominciò Andrea “un attimo prima di raggiungere Paolo davanti all’ospedale.”

“Hai visto Motterini?” interruppe Elio.

“No, suo padre. Era fuori di sé. Camminava a zig-zag borbottando da solo. Appena mi vede mi blocca in malo modo e vuol sapere dov’è suo figlio. E io che ne so? Mi racconta a pezzi e bocconi che il suo ‘povero bambino, che è tanto bello e caro, tanto bello e caro, e come può aver fatto qualcosa di male?’ è ricercato dalla polizia. Innocente, naturalmente.”

“Cos’ha combinato questa volta?”

“Una telefonata anonima, sembra. A quella di lettere, la Zacconi. Insulti osceni e minacce. E poi l’ha aspettata per strada e ha tentato di aggredirla, furibondo, perché non è stato nemmeno ammesso all’esame, quel genio, e si è beccato una denuncia, oltre a una scarica di borsettate in testa. Fra l’altro, con tutti gli anni che ha ripetuto, è già maggiorenne, e per lui potrebbero essere guai grossi. Così è scappato. Ora chissà dov’è?”

Ritornando a casa, Paolo e Andrea fecero un pezzo insieme, e cominciarono a far congetture sulla direzione che il fuggiasco poteva aver preso.

“Lo troveranno in qualche postaccio;” concluse Andrea “se ti ricordi, era sempre lui quello che portava a scuola libri e foto pornografiche.”

La scomparsa di Motterini fu ben presto sulle bocche di tutti. Anche Lucia volle sapere se Paolo aveva avuto sentore di qualcosa. Lui le riferì quello che ne aveva sentito. Aggiunse che il disgraziato aveva una famiglia disastrata: la madre aveva piantato in asso la famiglia per andare con un altro uomo, e il padre conviveva con un’altra donna.

“Tante altre famiglie, che apparentemente stanno insieme senza problemi agli occhi degli altri, sono disastrate”, precisò Lucia, con gli occhi fissi nel vuoto.

A Paolo venne subito in mente la sua, ma evidentemente lei non stava pensando allo stesso esempio, dato che nulla di quanto succedeva in casa Donati trapelava mai al di fuori. Quale altro caso poteva avere in mente? la propria famiglia?

Poi lei gli domandò dell’esame di maturità, ed egli si sfogò come non aveva fatto con i suoi. Le disse della sfinge che l’aveva interrogato di filosofia e dell’inquisizione che aveva dovuto subire all’orale di italiano, con quell’individuo che si preoccupava più di politica che della materia su cui avrebbe dovuto esaminarlo.

“Non è affatto giusto;” osservò lei “ti ha giudicato per le tue idee che non coincidevano con le sue. Ma tu hai fatto bene a non stare al suo gioco.”

“Io non sapevo a che gioco stare. Quando sei lì per un esame cerchi solo di ottenere la promozione. E quello che avevo scritto nel tema non potevo mica ritirarlo.”

“Comunque, a ottobre farai certo una bellissima figura.”

Insieme trascorsero uno di quei pomeriggi silenziosi e irreali che non si cancellano dalla memoria. Giradischi e uccellini vennero lasciati da parte. Il cielo azzurro al di là della finestra aperta pareva invitare a lanciarsi in volo con le braccia spalancate come Icaro. Piccoli fiocchi bianchi turbinavano nell’aria, entrando nella stanza.

“Vengono dalle piante del viale qui vicino;” spiegò Lucia “a molti fanno un brutto effetto. Un mio zio sternutisce ore ed ore al solo vederli. Ma non viene mai qui. Non per quei cosi che lo fanno sternutire, ma perché non va d’accordo con mio padre. In questioni politiche. Sono anni che non lo vedo.”

I minuscoli particolari di quella scena s’imprimevano nella memoria di Paolo. Tutta la sua vita sempre uguale era fatta di cose piccole. E pensava: “Se potessi guarirti e portarti via. Poter andare via insieme, dove nessuno ci trovi”.

Era ormai tardi quando Alberto, di ritorno dal lavoro, entrò nella camera.

“Sai? il mio fratellino si è laureato.”

Paolo nutriva una sincera ammirazione per il fratello di lei, che incarnava ai suoi occhi l’ideale della maturità, della fermezza, del successo. Le usuali parole di felicitazione gli vennero subito spontanee. Domandò poi quando avesse conseguito la laurea.

“Più d’un mese fa”, fu la risposta.

“E perché non ha detto niente?”

“Si vergognava del votaccio che ha preso”, disse scherzando Lucia.

“Un centodieci, senza nemmeno la lode. Ero fuori corso da un anno e mezzo. Ho perso anche troppo tempo.”

“Nostro padre lo fa lavorare giorno e notte. Per forza è finito fuori corso.” La voce di lei era carica di risentimento.

“Lascia stare, Lucia. È un’ottima esperienza professionale.” Ma anche la voce di Alberto rivelava che non tutto andava bene. Doveva fare quella difesa d’ufficio, ma non era troppo convinto.

Paolo si congedò. Nel tornare a casa gli sembrava che quelle due case, che si fronteggiavano sul medesimo pianerottolo, fossero due tane di lupi. In entrambe c’era un lupo cattivo. Sembrava tutto in ordine, dal di fuori, ma per chi le conosceva dal di dentro, ed era costretto a viverci, la prospettiva era un po’ diversa.

Una settimana di riposo passa presto, ed ecco di nuovo all’orizzonte lo spettro dell’esame.

Proprio allora comparve sul giornale locale, in poche righe nella pagina dedicata alla cronaca, la notizia che riaccese in città le chiacchiere ormai languenti su Motterini. Lacero, sporco, dissipate le centomila lire di cui s’era appropriato a casa nel fuggire, si era costituito a un commissariato di polizia a Livorno. Aveva reso piena confessione di tutto, anche di un piccolo furto commesso gli ultimi giorni. Stroncata dalla fame, tutta la sua tracotanza era svanita.

Null’altro di notevole avvenne quell’estate, che Paolo trascorse studiando. Ogni tanto andava a trovare Lucia che quell’anno, stranamente, preferì non seguire i genitori a Riccione, ma rimase in città, accudita da una cameriera. Anche Alberto rimase per badare all’azienda e agli affari della famiglia: si riuniva ai genitori solo nei fine settimana, e ogni volta suo padre lo interrogava su come procedevano le cose tra Lucia e la preda: l’agognato genero.

Alberto trovava quel gioco crudele e non si capacitava come un giovane, per quanto in miseria (come la “prudente” economia della “Salvatrice della famiglia” lo faceva apparire), potesse legarsi a una creatura, dolcissima finché si vuole, ma in quelle terribili condizioni. Era stato proprio lui a invitare Paolo, perché sua sorella era sempre così sola, ma non aveva pensato alle possibili conseguenze. Ora si pentiva di averlo fatto.

Ma un cambiamento stava compiendosi nell’animo della vittima designata. Il padre e la madre di lei avevano già dimostrato di considerare ormai Paolo come un fidanzato. C’erano stati, da parte loro, brutti e nebulosi discorsi sulle ricche doti che avevano elargito alle altre due figlie e, indirettamente, su quella ancor più splendida destinata all’infelice figlia minore. Simili chiacchiere erano state per Paolo una vera doccia fredda. Non subito, ma nel ripensarci più tardi. Davanti al grande signor (compagno) Viviani e alla sua consorte era sempre in soggezione, e poi non era pronto nelle sue reazioni. Doveva riflettere sulle cose, prima di chiarirsi le idee e formulare una linea d’azione. Aveva anche imparato a diffidare del proprio giudizio, dopo l’esperienza con Claudia.

Che fare? Tutto andava bene finché si trattava di qualche visita. Perfino il lucherino maschio, Tillino (la femminuccia no, perché si teneva sempre a debita distanza), aveva preso confidenza con lui: gli stava sulla spalla e gli carezzava affettuosamente i capelli. Stare con Lucia era delizioso, ma niente dura in eterno, nulla è fatto per restare immutato. Prima o poi le cose cambiano, devono cambiare. Prima o poi doveva prendere una decisione. Toccava soltanto a lui. Nessuno poteva decidere al suo posto. Ma come pensare ad un legame destinato a durare tutta la vita con una creatura in quelle condizioni? Le visite a Lucia diradarono, e l’avvicinarsi dei nuovi esami rappresentava un’ottima ragione per andare sempre meno nell’appartamento di fronte e cominciare a prepararsi a un distacco più definitivo.

Vennero i temuti esami di riparazione. Dei due temi d’italiano, Paolo scelse questa volta il meno impegnativo, quello sul poeta che più gli era piaciuto, e si attenne rigorosamente al suggerimento ufficiale di parlare di Saffo. Cercò di non compromettersi con idee troppo personali. Scrisse le cose più ovvie, senza tentare di ravvivarle coi sentimenti che la figura dell’infelice poetessa gli suggeriva. Si limitò a citare il Leopardi, la conclusione del canto a lei dedicato: “(…) e per virili imprese, / per dotta lira o canto, / virtù non luce in disadorno ammanto”. E mentre scriveva gli veniva in mente Lucia: anche lei “in disadorno ammanto”, a causa della terribile malattia, anche lei destinata alla solitudine.

Mentre scriveva qualche frase scipita per concludere in qualche modo lo svolgimento, Paolo avrebbe voluto gridare per il senso di ingiustizia che lo attanagliava: perché alcuni sembrano avere tutte le fortune ed altri nascono sotto un terribile peso, o sono colpiti da disgrazie che non hanno in alcun modo meritato. Ma una voce dentro di lui giunse a confortarlo: “Tutto sarà svelato un giorno, quando la tela argentea, finissima, della Provvidenza e della misericordia divina si rivelerà, e non vi sarà più pianto fra gli uomini, perché io asciugherò tutte le vostre lacrime”. Il vero tema, ricco di riflessioni profonde sul destino umano, venne formulandosi nell’anima di Paolo, ma non trovò spazio sulla carta protocollo. Esporre le proprie opinioni di individuo pensante nel mondo delle ideologie assassine bandite da arroganti parassiti era pericoloso: l’esito della sessione estiva glielo aveva ampiamente dimostrato.

Agli orali, l’autorevole personaggio, l’amico delle mosche, fu assai benigno e lodò il suo tema stinto, le poche banalità che aveva scritto. Buona parte dei rimandati furono promossi. Quando gli dissero che aveva superato l’esame, Paolo non voleva crederci. Non aveva telefonato ad Andrea Falco chiedendogli di andare a vedere i risultati esposti. Lo aveva pregato di telefonargli, senza dirgli, naturalmente, che la “Salvatrice” vigilava su ogni minima spesa, e che le telefonate costano.

“Ma ti dico di sì,” gridava Andrea al telefono “ce l’abbiamo fatta. E anche Belmonte. Sta’ tranquillo. Vieni a vedere, se non mi credi.”

Finalmente egli si persuase. Ma dov’era adesso la soddisfazione così a lungo pregustata?

Era il momento di scegliere il corso di laurea. Paolo era in preda all’incertezza. Sua madre gli magnificava giurisprudenza, con il miraggio della carriera di magistrato, ma egli non si sentiva attratto da quella strada. Gli piacevano di più le materie scientifiche.

Belmonte, pensando a suo padre, annunziò:

“Voglio combattere quel male”, ed era chiaro a quale male alludesse. Allora si affacciò alla mente di Paolo l’immagine di Lucia, inferma, semiparalizzata, e si accorse di aver deciso.

Quando lo disse in casa, sua madre fece subito la faccia scura. Possibile che quel figlio ribelle non facesse mai quello che lei suggeriva? Ma le smanie di lei durarono poco. Cessarono appena egli espresse il pensiero che l’aveva condotto a quella decisione. Un’idea attraversò subito il cervello della “Salvatrice”: “Ah, dunque pensa di sposarla. Bene, bene”. E nel vuoto astioso della sua mente cominciarono a tintinnare tante invisibili monete d’oro, che lei avrebbe custodito, per il bene di suo figlio, per salvare la famiglia, per fare “il passo secondo la gamba”, per non finire “a pan dimandato”, perché “non si poteva mai sapere”.

Come sempre, non aveva capito nulla. Non era per dedicarsi a curare Lucia, per la quale non c’era ormai più nulla da fare, ma per quei bambini che forse potevano ancora essere strappati a un simile destino, che Paolo aveva deciso.

Così il corso di laurea in medicina del piccolo ateneo locale ebbe due nuovi iscritti, che divennero ben presto tre, poiché Andrea Falco non tardò ad imitarli.

Tornando dalla segreteria dell’università, ultimate le pratiche per l’iscrizione, Paolo si sentiva sollevato come da tempo non gli accadeva: l’esame di maturità era ormai alle sue spalle, la vita goliardica s’apriva davanti a lui e restava ancora qualche giorno di vacanza da godere. Certo, a sua madre non avrebbe fatto piacere veder uscire tanti soldi dal peculio, che ella custodiva come il drago Fafner accovacciato sul tesoro dei Nibelunghi. Il solo testo di anatomia era uno spaventoso mattone in cinque volumi dalla pesante rilegatura, e poi c’era l’atlante anatomico, e i libri di fisica, di chimica, di biologia generale, di istologia umana. Paolo aveva fatto un po’ di conti e il totale era impressionante. Si preparò a sopportare la solita scenata.

Ma, giunto a casa, i suoi pensieri presero subito tutt’altra piega. Appena uscito dall’ascensore, vide suo padre davanti alla porta chiusa.

“Che c’è, papà?”

“Non apre la porta.” La voce di suo padre non tradiva la minima preoccupazione. Era stanco di quella moglie o semplicemente abituato a reprimere ogni emozione da decenni di logorìo domestico?

Paolo se la prese un poco di più. La mamma è sempre la mamma. E poi erano ormai passate quasi due settimane dall’ultimo processo alla sua faccia. Forse il carattere della signora Donati si stava addolcendo? Certo, se il figlio si avviava a diventare la gallina dalle uova d’oro, valeva la pena di cercare di trattenersi un po’ di più, sebbene lui fosse così “dif-fic-cil-le”.

“Hai suonato?”

“Sono cinque minuti che suono. Bisognerà chiamare qualcuno.” Suo padre suonò ancora, poi avvicinò il naso (la “proposcide”, avrebbe detto sua moglie) alla porta e annusò “No, pare che non ci sia gas.” Si attaccò di nuovo al campanello che diede uno squillo prolungato, lugubre. “Sarà meglio chiamare la portinaia.”

Paolo scese di corsa le scale, trascurando di prendere l’ascensore. L’importante personaggio portieresco apparve, ma non fu di grande aiuto: provò a spingere la porta che non diede segno di accorgersene. Poi propose di telefonare dall’appartamento di fronte. Suo padre eseguì e, alla cameriera che venne ad aprire, spiegò in poche parole il perché aveva bisogno del telefono. Nessun risultato. L’apparecchio emetteva il segnale “libero”: nient’altro.

Alberto Viviani assunse l’iniziativa e telefonò a un falegname impiegato in uno dei cantieri di suo padre, perché venisse d’urgenza ad abbattere la porta.

Lucia, dalla sua camera, seppe subito tutto e mandò a chiamare Paolo che obbedì, non senza fastidio. Non aveva alcuna voglia di essere consolato, colto in un momento difficile. Sapeva bene che doveva staccarsi da lei, per il bene di tutti e due.

“Sta qui, siediti vicino a me. Non puoi far nulla, per ora. Fra poco s’aggiusterà tutto. Vedrai che non è niente.” Lucia voleva rassicurarlo e fece un movimento come se volesse prendergli la mano, ma Paolo si sedette a distanza di sicurezza.

Aveva l’aria sofferente, e Lucia pensò che fosse preoccupato per sua madre. Invece pensava proprio a lei, alla sua tremenda menomazione, alla compagna meravigliosa che sarebbe stata se la poliomielite non si fosse frapposta fra lei e una vita normale. E poi, per la prima volta, un nuovo pensiero si insinuò in lui, che scavò tra lui e Lucia un abisso che non si sarebbe mai più colmato in questa vita.

Non gliel’avrebbero nemmeno fatta vedere in fotografia, se fosse stata sana. Probabilmente nemmeno lei avrebbe voluto avere a che fare con lui. Una Lucia normale e in buona salute, sarebbe stata una delle tante ragazze, belle e inaccessibili, che prestavano attenzione solo ai ragazzi del loro medesimo livello sociale e di prospettive economiche uguali o, preferibilmente, superiori alle loro. Era così che funzionava il mondo.

Lucia continuava a parlare:

“Forse ha avuto solo un capogiro. Non aver paura.”

Paolo non aveva paura. Avrebbe solo voluto essere lontano. Appena sentì che era arrivato il falegname, si alzò e corse via. Non udì neppure la voce della ragazza gridargli dietro:

“Dopo, torna a dirmi cos’è stato.”

L’operaio armeggiò un poco intorno alla porta chiusa. Mentre l’ostacolo cominciava a cedere, si sentì armeggiare anche di dentro. Il battente si aperse e apparve, pallida come un fantasma, la madre di Paolo, che subito dovette appoggiarsi allo stipite per non cadere. Paolo e suo padre la sostennero e la fecero distendere sul letto. Fu chiamato un medico che le somministrò dei cardiotonici, auscultò e smartellò qua e là sulla carcassa, poi ordinò una completa visita di controllo in ospedale.

Divenuta improvvisamente remissiva, la madre di famiglia si lasciò condurre in ospedale da Paolo e permise che la sottoponessero all’elettrocardiogramma e ad altri esami senza neppure un “vita maledetta”. Solo dopo il ritorno a casa, poiché cominciava a sentirsi meglio, riprese ben presto il suo consueto posto di comando e imprecazione permanente. Chissà quanto sarebbe costata tutta quella ridda di medici e medicine? Avrebbe proprio voluto sapere quanti cristiani aveva ammazzati in una vita precedente per meritare quel castigo.

Il risultato delle analisi fu una diagnosi con tanti paroloni, da cui il medico di famiglia estrasse questo succo:

“Per il momento non c’è pericolo. Solo stia attenta a non affaticarsi troppo. Faccia pure i lavori di casa, ma senza sforzi eccessivi.” E intanto, guardandosi intorno, pensava: “Quest’ultima raccomandazione, forse, non era necessaria”. Infatti, non che la casa fosse proprio sporca, ma la mancanza di manutenzione la faceva apparire tale.

A poco a poco l’esistenza riprese il ritmo normale, ma quei pochi giorni di vacanza si erano ormai malamente dileguati. Ci fu tuttavia un lato positivo. Il carattere della mammina migliorò un poco. Si era spaventata e aveva deciso che era tempo di correggersi? Ma quando mai? Lei faceva e diceva tutto a fin di bene. Senza di lei, quei due scombiccherati esseri maschili che la vita maledetta la costringeva a sopportare sarebbero certamente affondati nel mare maledetto della vita medesima. E allora?

Semplicemente aveva meno energia per continuare ad esercitare con la consueta solerzia l’indispensabile e strettissima supervisione di tutto ciò che quei due scervellati facevano, dicevano, pensavano, ed esprimevano con i più impercettibili movimenti dei muscoli facciali.

 


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