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Strano: altri avrebbero sopportato quel peso con pazienza, alcuni quasi con gioia. Lucia era una creatura deliziosa, e alla famiglia non mancavano certo i mezzi per procurarle tutta l’assistenza necessaria. Ma i Viviani erano gente forte: la speranza in una vita futura, oltre i confini di questo mondo, li faceva sorridere. — Non erano felici. È curioso come l’esistenza di quaggiù divenga opprimente non appena ci si metta a badare soltanto ad essa.

A Lucia non restavano che i suoi lucherini: per giorni e giorni interi. Ogni tanto riceveva la visita di qualche amica della madre o di un conoscente di suo fratello: gente molto occupata, che se ne andava in fretta. Paolo significava qualcosa di più. Con lui si sentiva immersa in un incanto che le faceva dimenticare la sua sventura. Insieme di divertivano alle birichinate dei Tillini liberi per la camera, o ascoltavano qualche disco. Avevano sempre tante cose da dirsi. Una volta, alla radio, sentirono un bollettino della guerra in Corea, ma lei spense l’apparecchio prima che l’annunciatore finisse di leggere.

“Non t’interessa?” domandò Paolo.

“No”, fu la secca risposta. Lucia rifuggiva da quasi tutto ciò che attraeva e interessava i suoi.

Un’altra volta, spinto dalla pura curiosità di vedere la reazione di lei, Paolo cercò di portare il discorso sulla religione, ma la ragazza tagliò corto:

“Non me ne intendo”, e subito distolse lo sguardo da lui, stranamente turbata.

Da quando i Viviani avevano messo gli occhi su Paolo, la madre di lui aveva preso a trattarlo con minore asprezza. Il valore del figlio, agli occhi di lei, era salito come un titolo in borsa. Aveva invece trasferito parte del suo sordo rancore sul marito, reo di averla rimproverata e di averle imposto il silenzio. Non si parlavano quasi più, anche se alla separazione non era assolutamente il caso di pensarci: infatti, sulla carta, gran parte dei beni di famiglia erano proprietà del marito, quindi unione indissolubile e acqua in bocca. La “Salvatrice della famiglia” cominciò, al contrario, a intrattenersi un poco di più con quel figlio, le cui azioni erano in rialzo, e l’argomento era di solito Lucia.

Così Paolo venne a sapere dalla madre che, al tempo in cui frequentava le scuole medie, la ragazza era stata esonerata, per volontà del padre, dal corso di religione. Appena entrava il prete, prima che cominciasse la rituale recita dell’Ave Maria, un bidello provvedeva ad accompagnare quella scolara speciale in un’aula vicina, vuota. Ella aspettava lì che lo stesso personaggio venisse a ricondurla tra i compagni appena quella molesta ora fosse trascorsa. Nel frattempo, probabilmente, eseguiva un po’ di compiti, o guardava volare le mosche, assorta in qualche sua malinconica fantasia.

“Da chi l’hai saputo?”

“Da sua madre. Sembrava che se ne vantasse.”

“Ma che male poteva farle l’ora di religione? Noi giochiamo sempre alla battaglia navale.”

Sua madre non fece caso a quelle parole. Aveva altro per la testa. Continuò:

“È strano. Qui in Emilia non è come a Genova. Qui i compagni fanno battezzare i figli e vanno a cena col prete. Sarà perché loro sono pezzi grossi e devono dare l’esempio. Oppure hanno la coda di paglia e vogliono far scordare qualche cosa alla gente. Comunque, tu adeguati.”

“Come sarebbe a dire?”

“Non gli far capire che non siamo di quel colore. Iscriviti al partito, se necessario.”

“Ma cosa dici?”

“Sei proprio stupido. Bisogna legare l’asino dove vuole il padrone.”

“Ma io non voglio padroni.”

La “Salvatrice” alzò gli occhi al cielo, come ad accusarlo di averle dato un figlio così ottuso e incapace. Represse una sfilza di “vita maledetta” e cercò di far intendere ragione a quell’essere profondamente stupido che rappresentava uno dei tanti pesi della sua vita di povera donna incompresa.

“Ti è capitato che cercassero di farti parlare?”

“Parlare di cosa?”

“Ma di politica, naturalmente.”

“Non so, mi pare di sì. Non mi ricordo.”

“Cerca di pensarci. Ti è sfuggito qualcosa?”

“No, mi pare di no. Con Lucia non parliamo mai di politica. Non le interessa, e neanche a me.”

“Ma non intendevo con la ragazza. Con i genitori.”

“Gli ho parlato pochissimo.”

“Accidenti, ma non puoi fare più attenzione? Perché sei sempre così addormentato? Dannazione, se non ci fossi io…”

“Ma a cosa dovrei fare attenzione?”

“Che vita maledetta.” Questa volta le era proprio scappato. Continuò: “Quella è gente potente. Sono padroni di mezzo mondo. Noi siamo il due di picche. Il coltello dalla parte del manico non ce l’hanno ancora del tutto, ma chissà domani? Dammi retta: stai attento a quello che dici. Pesa ogni parola e riferiscimi sempre tutto. E se proprio insistono, digli che la pensiamo come loro. E se ci tieni alla carriera, prendi la tessera. Il compagno Viviani può aiutarti molto nella carriera.”

“Che carriera?”

“O maledizione. Vorrei sapere chi mi ha maledetto quando sono nata. Qualunque carriera, per esempio se farai il giudice.”

“Ma io non voglio fare il giudice. Non mi piace.”

L’esplosione che seguì, a base di “vita maledetta”, di maledizioni al giorno, l’ora, il minuto e il secondo dell’infausta nascita, di riferimenti a vite precedenti come Gengis Khan, Attila, Nerone e Caligola, di “vedrai quando sarò morta” e di “sei un cretino irrimediabile”, non richiede lunghe descrizioni.

Il risultato di quel colloquio fu, come al solito, che Paolo disse:

“Sì, mamma, hai ragione”, e, da quel figlio ingrato e “dif-fic-cil-le” che era, si gettò immediatamente alle spalle tutto quello che lei aveva detto.

Così non tenne in alcun conto i suggerimenti materni quando il padre di Lucia lo bloccò in anticamera mentre si recava a visitare la ragazza. Sedettero in salotto, e il discorso scivolò subito sull’“aggressione al popolo coreano”. Poi l’importante personaggio s’intrattenne su un tema più vasto, usando termini un po’ astrusi. Disse che un ragazzo intelligente come lui non poteva essere spettatore passivo dei grandi rivolgimenti mondiali e dell’alba gloriosa del sol dell’avvenire.

Ahimé, Paolo si affrettò a deluderlo, precisando che non sapeva cosa fosse il Gosplan, l’alienazione sociale, la presa di coscienza proletaria, e che viveva benissimo lo stesso. Anzi, proprio perché gli avevano dato non poco fastidio i suggerimenti invertebrati e miserabili di sua madre, fu più esplicito di quanto sarebbe stato altrimenti. E se avesse immaginato quale avvenire avevano in mente per lui sia il signor (compagno) Viviani sia sua madre, la “Salvatrice”, sarebbe stato forse ancor più determinato a respingere quei goffi tentativi di proselitismo.

Le due vecchie volpi non si erano messe d’accordo su alcuna strategia comune, non si erano quasi parlate di alcunché, tanto meno di un argomento così delicato, ma istintivamente le loro menti, rivolte solo all’interesse, spiritualmente si toccavano, unite nel corpo mistico del cornuto principe di questo mondo.

Il padre di Lucia e la madre di Paolo volevano che i due si sposassero, il primo per scaricare quella figlia su qualcun altro, la seconda per i vantaggi materiali che una simile alleanza avrebbe potuto portare. I due ragazzi, le cui anime erano anch’esse misteriosamente unite, ma nell’altro Corpo Mistico, e perciò assai più saggi dei loro genitori, sapevano benissimo che quell’unione era impossibile, e cercavano di assaporare la vicinanza reciproca nei limiti nei quali era prudente goderne.

No, non fece una gran bella figura Paolo, agli occhi del grande personaggio, e così venne a precludersi possibili aiuti per la smagliante carriera agognata da sua madre. Il signor (compagno) Viviani lo giudicò incapace e disattento alle grandi “problematiche”, ma forse proprio per questo abbastanza beota da cadere nella trappola e meglio adatto a quella sua figlia disgraziata. Bisognava lasciar maturare la cosa, e che i due si vedessero il più possibile.

Argomenti ben diversi interessavano Lucia. Il mondo visto da una poltrona a rotelle può essere brutalmente semplice.

“Dopo la morte dove andremo?”

Erano seduti vicini, quello stesso giorno, con i Tillini che saltellavano sul tavolino e si fermavano ogni tanto a guardarli.

La domanda di lei colse Paolo di sorpresa. Sembrava che Lucia fosse convinta che avesse tutte le risposte pronte, lì in tasca.

“Ma…” Paolo era un po’ disorientato “non è mai tornato indietro nessuno a dirci cosa ci sia di là, ma abbiamo la Fede.”

“Dicono…” Lucia esitò “i credenti dicono di saperlo. Tu lo sei?”

“Sì,” rispose lui “sono cattolico.” Si accorse che affermarlo gli dava un senso di sicurezza, perfino una punta di orgoglio, la forza del possedere la verità. Non era merito suo, l’aveva solo ricevuta, ma era certo che fosse la verità, e la verità era importante.

“E questo, in pratica, cosa vuol dire?”

“Be’, vediamo, tu sai che Cristo è esistito.”

“Certo, l’ho studiato in storia”, asserì soddisfatta Lucia. Evidentemente il suo autoritario padre non aveva pensato di impedirle di assistere anche alle lezioni di storia. “Sono anche stata battezzata,” soggiunse “come mio fratello e le mie sorelle. A quell’epoca certe idee non erano ancora di moda, ma della dottrina non so niente di niente. E non ho trovato nessun libro che ne parli, in casa. Non potresti dirmene qualcosa?”

Paolo cercò di ricordare un po’ di catechismo e delle lezioni di religione a scuola, fra una battaglia navale e l’altra, ma le parole gli vennero spontanee. Si accorse di parlare come se una voce interiore gli suggerisse cosa doveva dire, come se un Altro parlasse al suo posto, ed egli era felice di essere strumento di una tale Parola. Perfino i lucherini, sul tavolino, di fronte alla gabbia aperta, sembravano ascoltarlo, come incantati. Pareva che quelle due creaturine minuscole intendessero il suo discorso, come gli uccelli ascoltavano la predica di San Francesco.

“Partiamo di qui. Cristo è esistito. Duemila anni fa c’è stato un Uomo in Palestina. Ha predicato in modo mai sentito prima. Ha detto: “Io vi do un comandamento nuovo: amatevi gli uni gli altri, amatevi come Io vi ho amati”. Ha detto: “Io sono la resurrezione e la vita; chi crede in Me non morrà in eterno”. Ha sanato i malati. Ha ridato la vista ai ciechi. Ha scacciato i démoni. Ha risuscitato i morti. L’umanità lo ha ringraziato condannandolo alla crocifissione: la pena atroce e infamante dei ladri da strada. Ma Egli è risorto. Nessuna scienza potrà mai spiegare questo. Alcuni non ne parlano e credono, tacendo, di cancellare la verità.”

Paolo si arrestò, temendo che Lucia si offendesse per via dei suoi genitori, che erano appunto di quelli che, tacendo, e magari con lo scherno, tentano di cancellare la verità, perché troppo pieni di sé e del mondo. Ma lei era ben lontana da questo:

“E Cristo è dunque Dio?”

“È risorto. Intorno a questa verità ruota tutto il resto.”

“E se fosse una leggenda?”

“Lo hanno testimoniato le donne e gli apostoli che l’hanno visto e toccato dopo la Resurrezione, e generazioni di santi e di martiri per duemila anni. Non conviene essere cristiani, né allora né adesso. Non ti gettano più alle belve né ti bruciano più vivo, almeno in Occidente, ma ti calunniano e ti scherniscono. Sei un fanatico, sei uno sciocco. Non sai vivere. No, non c’è proprio niente di buono da guadagnare in questa vita ad essere cristiani. Si vive sotto il segno della persecuzione. Il segno della persecuzione è il segno del cristiano, la croce è il segno della verità. Perché la verità dà fastidio. Gli uomini preferiscono le tenebre, perché non siano conosciute le loro opere malvagie.”

“Ma se fosse vero… sarebbe meraviglioso. Non essere più soli.”

Nessuno dei due aveva più voglia di parlare. Anche i due uccellini erano straordinariamente quieti. Lucia propose di ascoltare un disco: scelsero Mendelssohn, la Sinfonia Scozzese. Ascoltarono in silenzio.

Quella sera Paolo fece un po’ più tardi del solito, e sua madre lo accolse tirando su col naso, col muso lungo e qualcuna della solite maledizioni, che lo riportarono rapidamente alla realtà quotidiana.

L’esame di maturità si avvicinava, e Paolo dovette diradare e poi cessare le visite a Lucia. O almeno questa era la giustificazione ufficiale. In realtà il motivo principale era che i suoi compagni avevano cominciato ad organizzare qualche piccola festa da ballo, e gli inviti cadevano proprio nelle giornate libere che avrebbero potuto essere dedicate alla fanciulla. Si sentiva punto dal rimorso, ma, ogni volta che si trattava di scegliere, decideva sempre per la festa.

Ed è curioso: in fondo all’anima le sue preferenze erano tutte per Lucia: un’ora sola con lei gli era più cara di tutti i balli del mondo. Non era adatto alle compagnie numerose: oltre ai ragazzi della sua classe ne venivano spesso invitati tanti altri mai visti né conosciuti, con i quali si trovava un po’ a disagio. E non sapeva ballare: gli altri imparavano subito, lui restava lì, con le spalle al muro, sentendosi escluso. Nessuno aveva mai un’idea spiritosa per animare la festa: balli, chiacchiere, bacetti negli angoli bui, nient’altro. Eppure egli continuava a recarsi ad ogni nuova festa, con la speranza di annoiarsi meno che alla precedente.

Era la tirannia della società: quel complesso formato in parti uguali da uomini, donne, abitudini e pregiudizi. “Lo fanno gli altri, dunque bisogna farlo”.

A quelle feste non mancava mai Tartaro, che pontificava snocciolando cumuli di sciocchezze. Paolo non capiva perché un discorso serio suscitasse noia, mentre un’esibizione di cultura fasulla, fatta con sufficiente faccia tosta, incantasse le ragazze, che stavano ad ascoltarlo a bocca aperta. E sì che ne diceva di scemenze. “La visione beethoveniana del mondo è unilaterale e incompleta” (ma che vuol dire? qual è l’artista, qual è l’uomo che ha una visione “completa”? e che significa “completa”?). “Il Leopardi ha scritto solo un monotono piagnucolìo” (il dolore cosmico leopardiano sarebbe solo un piagnucolio? monotono, poi? non è lo straziante dolore cosmico di non riesce a credere?). In compenso, nei minimi particolari, era sempre vestito all’ultima moda, con una punta di signorile nonchalance, ballava benissimo ed era sempre il primo a conoscere le nuove danze. Stranamente, nessuno lo trovava mai ridicolo.

Paolo cercava di sfuggirlo, e quando non era proprio possibile si sforzava di non ascoltarlo. Anzi, a poco a poco si stava abituando ad ascoltare e a guardare tutti il meno possibile, per non vedere i successi degli altri con le ragazze, per non innamorarsi di nuovo.

Eppure quello era il mondo e bisognava viverci, seguire la massa per non esserne travolti, la massa dei burattini che si muovevano secondo le convenienze. Quello era il mondo e non c’era niente che potesse cambiarlo. Del resto, non sarebbe stato spiacevole restarsene a casa, sapendo che gli altri in quel momento si divertivano? Lui non era capace di divertirsi come loro, ma almeno era presente, aveva tentato, non gli sarebbero rimasti rimpianti. Poteva dire a se stesso: “che sciocchezza venir qui, la prossima volta non accetto più”. Era una consolazione anche quella.

Per fortuna, quando l’esame si fece davvero imminente, le feste cessarono. Tutti si preparavano, ciascuno secondo il proprio carattere, ad affrontare lo scoglio. Icardi studiava con Marta. Zanelli scartabellava libri e riassunti, sempre più affannosamente, poi correva da sua madre a farsi dare dei tranquillanti. Claudia studiava sulle ginocchia di Candiani. Lucchese non riteneva distinto impegnarsi a fondo: tanto per lui gli esami erano sciocchezze. Acerra sbadigliava sul latino e divorava le materie scientifiche. In compenso Marchisio, quello destinato dai genitori a divenire ingegnere e futuro artefice di ponti e dighe, traduceva Tacito per divertimento e impazziva sulla matematica.

Mancavano pochi giorni agli esami, quando Paolo compì diciotto anni. Era il più giovane della classe. Ricevette qualche regaluccio da suo padre e da amici di famiglia, ma il più bello gli venne da una provenienza inaspettata.

Un giorno incontrò Alberto nell’atrio del palazzo:

“È tanto che non viene più da noi…”

“Mi spiace, la scuola…” Paolo sapeva bene che era una semplice scusa.

Il sabato seguente andò dai Viviani.

“Ciao”, lo salutò Lucia con un sorriso. Lo aveva atteso tutti quei mesi e lo accoglieva come se si fossero visti il giorno avanti. Da sotto la solita coperta che le nascondeva le gambe, e che non scompariva mai, neppure d’estate, trasse un pacco.

“Ma perché, Lucia? perché?” mormorò Paolo, a corto di parole.

“Perché, perché;” rispose lei ridendo “indovina un po’ perché.”

Quel pomeriggio passò in un lampo, e i due ragazzi non seppero neppure come. Al momento di lasciarsi fu Lucia stessa a dirgli:

“Capisco che queste sarebbero state ore preziose per il tuo studio. Promettimi di non venire più fino a dopo gli esami.”

Paolo promise, ma quella visita lo aveva turbato profondamente. A tavolino si distraeva e, con il testo di greco davanti, quasi senza volerlo, tornava col pensiero a Lucia, là, a pochi metri da lui. In fondo non c’era stato nulla di speciale, ripeteva a se stesso tentando di concentrarsi. Avevano chiacchierato? sì, un poco. Gli uccellini erano apatici, non avevano voglia di lasciare la gabbia, che pure era aperta. Meglio così, dopo tutto. Erano creaturine dolcissime, ma distraevano terribilmente. Come si fa a discorrere quando un batuffolino di piume ti vola intorno alla testa, e magari ci si posa sopra. O si siede sulla tua spalla e comincia a rassettarti i capelli, così come fra loro si rassettano le piume? Invece, con i lucherini tranquilli e mezzo addormentati, avevano potuto stare davvero insieme. Neppure il giradischi li aveva distratti. S’erano semplicemente dimenticati che esistesse. Tutto sembrava diverso dal solito in quella stanza. Niente più odore di chiuso. Chissà? forse Lucia si era spruzzata di profumo. E come aveva fatto a sapere del suo compleanno? questo non aveva voluto dirglielo.

Il regalo era ricchissimo: un grande volume, fitto di illustrazioni a colori, sull’arte medievale. Ora Paolo, invece di studiare, non sapeva trattenersi dallo sfogliarne le pagine. Gli avori bizantini, i giudizi universali delle grandi chiese romaniche e gotiche, gli arazzi fiamminghi, gli affreschi di Giotto a Padova, il San Giorgio di Donatello. Era tutta arte cristiana. Sembrava che Lucia, con quella scelta, avesse voluto inviargli una sorta di messaggio in codice.

“Chissà quanto costa?” aveva commentato sua madre. E pensava: “buon segno, buon segno”. Suo padre, invece, avrebbe preferito che il figlio non avesse mai ricevuto quel regalo.

Tutte le volte che Paolo apriva il volume, l’immagine di Lucia gli era davanti, dolce, sorridente. Provava qualcosa per lei, qualcosa che non osava definire. E se ne ritraeva sgomento.

Nei pochi giorni d’intervallo tra la fine delle lezioni e le prove scritte andò a confessarsi. “Agli esami bisogna andare sereni”, pensava.

Al confessore raccontò tutto di Lucia. Erano uno di quei solidi sacerdoti tutti preghiera e niente sociologia. Valeva la pena di ascoltarlo. E infatti quello che disse fece riflettere Paolo a lungo:

“Lei sta camminando sul filo del rasoio. Quella povera creatura, probabilmente, è innamorata di lei. Ma lei la ama? Ci pensi attentamente.”

“Non lo so,” aveva risposto Paolo “mi trovo così bene con lei, e mi fa tanta pena.”

“Si guardi, allora, da darle adito a sperare. Rifletta alla condizione fisica in cui si trova, e alla quale, purtroppo, non esiste rimedio umano possibile. Pensi bene al fatto che qualsiasi legame tra un uomo e una donna che sia fondato sulla pietà non può durare. Prima o poi si pentirebbe amaramente di aver compiuto un passo avventato. Quanto ai vostri discorsi di cui mi ha riferito, lei aveva cominciato bene, parlandole di Cristo. Poi non è più andato a trovarla per un lungo periodo. Non sappiamo quale effetto abbiano avuto le sue parole. Ma c’è il rischio che la persona in questione colleghi una sua conversione ad un legame fra voi due, e allora vede in quali spaventose difficoltà vi trovereste entrambi. Speriamo e preghiamo che il seme germogli per conto proprio. Nessuno è veramente ateo. Ogni anima custodisce in sé l’immagine di Dio, perché è fatta ad immagine di Lui. Anima naturaliter christiana. Noi tutti abbiamo il desiderio struggente di rivedere Dio. Sì, rivedere, perché tutti l’abbiamo visto, nell’attimo in cui la nostra anima è stata creata, all’atto del concepimento, e abbiamo una nostalgia infinita di quella Luce dell’eternità, e non avremo pace finché non ritorneremo a Lui.”

Una fonte non meno importante di riflessione trovò Paolo nella parole di Andrea Falco, una volta in cui si era recato a studiare matematica con l’amico:

“I Viviani sono andati ad abitare nell’appartamento di fronte al vostro? Io non vorrei averli come vicini. Ora sono politicamente rossi come il fuoco, o almeno lo è, o dice di esserlo, il vecchio Giovanni Viviani. È un costruttore. Ha lavorato per la Todt durante la guerra, costruiva bunker per i tedeschi sulla linea gotica. È stato fascistissimo. Poi, quando la sconfitta di quelli è apparsa inevitabile, ha cominciato a fare il doppio gioco, a fornire aiuti e informazioni ai partigiani. Dopo la guerra ha compiuto il grande voltafaccia: è diventato più rosso dei rossi. È il tipico miliardario comunista, come ce ne sono tanti, che si è messo coi rossi perché gli assicurano una manodopera tenuta sotto controllo e grassi contratti. L’azienda è diventata una cooperativa, e lui è in una botte di ferro. È uno che sta sempre al vento, e come il vento gira, lui gira. Come una banderuola. La coscienza non sa neanche cosa sia. No, non vorrei proprio averlo come vicino.”

E suo padre, che parlava così poco, lo aveva ammonito più di una volta, quando la “Salvatrice della famiglia” era fuori portata d’udito:

“Sta attento. Ormai sei un uomo. Pensa bene a quello che fai. Ogni gesto e ogni parola sono importanti e non si possono più richiamare indietro.”

 


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