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In quell’istante, di ritorno da scuola, giunse Paolo. Sapeva che l’appartamento di fronte aveva cambiato proprietario e non si meravigliò scorgendo l’autotreno dell’impresa trasporti con i facchini che scaricavano. Salutò con timoroso rispetto i nuovi vicini, entrò nell’atrio e vide la “cosa”.

Il suo primo pensiero fu: “Che bella ragazza”. Si era voltata verso di lui, ed egli poté vedere il visino ovale, pallido, incorniciato dai capelli neri, le labbra rosee, gli occhi grandi, neri, tristi, che si abbassarono subito incontrando il suo sguardo. Fu allora che Paolo notò le stampelle e il resto.

Il corpo della ragazza, modellato dal maglione blu e dai pantaloni di tela, era perfetto fino alle anche. Più giù, in quella creatura cominciava la morte. La gamba destra sembrava normalmente sviluppata, la sinistra un poco più piccola e corta, ambedue quasi immobili e insensibili. Tutto ciò aveva un nome: poliomielite.

Piuttosto impressionato, Paolo le aprì con premura l’ascensore. Ella entrò faticosamente, ma non si sedette. Disse solo, con un filo di voce:

“Quarto.”

“Anch’io”, confermò il ragazzo, premendo il pulsante. Con uno sforzo cercò di rivolgere la propria attenzione altrove, ma non poté impedirsi di guardarla con la coda dell’occhio, mentre ella continuava a tenere gli occhi bassi, arrossendo. Quando l’ascensore si fermò, egli le aprì le porte, scostandosi per lasciarla passare. La fanciulla si mosse con pena, come sempre, avviandosi in silenzio sul pianerottolo, verso la nuova casa. Dalla porta aperta si vedevano due facchini intenti a sistemare un mobile sotto la direzione di un giovane sui venticinque anni, ben vestito, che le somigliava.

Paolo era profondamente turbato. Disgrazie simili esistono, lo sapeva benissimo, e anche peggiori, ma in fondo chi ci pensa? Ora ne toccava con mano una, e gli pareva di scoprire la deformità e il dolore per la prima volta. Si sentiva piccolo e meschino. Aveva spasimato tanto per Claudia, infelice perché non corrisposto: c’erano innocenti che sopportavano ben altro.

Alcuni giorni dopo, di primo pomeriggio, squillò il campanello. Fu Paolo ad aprire. Suo padre era in ufficio, la mamma riposava, naturalmente con la porta aperta perché doveva controllare tutto e credeva di poterlo fare anche dormendo, e se si svegliava erano guai. Ma la presenza di un visitatore garantiva il suo comportamento angelico. Paolo si trovò dinanzi il giovane intravisto nell’appartamento il giorno del trasloco.

“Salve,” disse lo sconosciuto con un sorriso “mi chiamo Alberto Viviani. Dato che ora siamo vicini, ho pensato di venire un momento a salutare.”

Sedettero in salotto. Paolo era un po’ intimidito, il visitatore disinvolto e perfettamente a suo agio. Parlarono delle rispettive famiglie. I nuovi vicini erano in quattro: padre, madre, due figli. Due sorelle più grandi, sposate, abitavano a Milano. Alberto studiava ingegneria, suo padre si occupava di costruzioni edili e l’aveva già preso con sé come aiuto nella ditta.

La “Salvatrice della famiglia” apparve sulla scena e rimproverò dolcemente il figlio per non averla chiamata. La presenza dell’ospite aveva fatto spalancare le valvole della melassa. Poi la signora Donati andò a preparare il caffè. I due giovani chiacchierarono un po’, ma Paolo era distratto: “Perché non parla della sorella?” pensava, e al tempo stesso si vergognava per le condizioni della casa: la presenza di quel giovane elegante, che appariva trasudare benessere, rendeva acuta la percezione, di solito addormentata dall’abitudine, di quanto le loro stanze somigliassero ad antri di una famiglia di barboni. Sua madre tornò col caffè. Soltanto allora Alberto disse, esitante:

“Mia sorella Lucia è sempre così sola… lei, Donati, l’ha vista… se qualche volta venisse a trovarla… chissà come sarebbe contenta.” Una breve pausa, poi riprese spiegando: “È cresciuta normale fino agli otto anni. Le piacevano gli stessi giochi dei ragazzi, correva, saltava, non si stancava mai. Ha cominciato a sentirsi male nell’estate del ‘43. Sa? febbre, mal di testa, eccetera. Era tempo di guerra, e i miei l’hanno curata come hanno potuto.”

“L’hai vista e non hai detto niente.” Venata di tenero rimprovero, la voce della madre riscosse Paolo. Tutte le informazioni dovevano esserle immediatamente riferite: la sua unica distrazione. Nulla doveva sfuggire al comando centrale. Come avrebbe potuto, altrimenti, dirigere e impartire ordini, com’era suo preciso diritto e dovere?

“Sarò stato sovrappensiero. La scuola…” Altra era la verità: non avrebbe saputo dire quale invincibile groppo alla gola gli aveva impedito di parlarne.

“Perché non la portano a Lourdes?” domandava sua madre ad Alberto “che succeda un miracolo è raro, ma dicono che sia comunque un gran conforto.”

L’interpellato non rispose subito. Guardò fuori della finestra, cambiando posizione sulla poltrona.

“Veramente non ci abbiamo mai pensato. Sa? non diamo gran che importanza a queste cose”, disse piano, nascondendo il viso dietro la tazzina nel sorseggiare il caffè. “Suo figlio dovrebbe veramente venire da noi qualche volta. Anche lei e suo marito. I miei faranno volentieri la loro conoscenza.” S’alzò in piedi “Ora devo andare.”

Dopo una rinnovata effusione di melassa da parte della “Salvatrice della famiglia”, la porta si richiuse dietro il visitatore.

“Non mi piace; non so perché, ma non mi piace”, fu il primo commento della signora Donati. Siccome, a parte le amiche (le quali si muovevano in un empireo di luce e camminavano sull’acqua), di solito non le piaceva niente di niente e di nessuno, l’osservazione era di prammatica.

Quella sera, a cena, si parlò molto di quella visita. Paolo taceva, ma ad un certo punto non poté fare a meno di rilevare:

“Che pessima figura abbiamo fatto.”

“Pessima figura? Perché? Cosa c’è che non va?” Sua madre tirò su rumorosamente col naso. La sua voce annunciava grande tempesta.

Ma ormai il dado era tratto e Paolo arrischiò:

“La tappezzeria è in condizioni pietose. Quella del salotto cade a pezzi.”

“Ecco che comincia;” ringhiò la madre di famiglia “non gli va mai bene niente. Sempre pronto a criticare. Se non ti va questa casa, vattene. Vuoi che ci riduciamo a pan dimandato? vuoi che andiamo in rovina? E cosa vuol dire quella faccia?”

Paolo, si morse la lingua e non pronunciò più una parola, ma il processo alla sua faccia era ormai cominciato e andò avanti per un pezzo, mentre suo padre ingoiava l’ennesima pillola contro l’ulcera.

“Vita maledetta, vita maledetta. Vorrei sapere chi mi ha maledetto quando sono nata. Guarda lì che faccia da mascalzone, che si permette di farci la censura. E piantala con quella faccia. Ci vuol tutta a tirare avanti. Se non fosse per me sareste tutti e due a pan dimandato. E poi chi pulirà con tutto il disastro dopo aver ritappezzato? Devo fare sempre lo striglione di casa? Non sei proprio capace di vedere al di là della proposcide, disgraziato. Ma guarda che faccia contratta. Si può sapere cosa ti ho fatto? Maledetto il giorno, l’ora, il minuto, il secondo che ho visto la maledetta luce. Sei proprio scosso. Razza di impiastro. Smettila con quella faccia, sai? Smettila. Cosa ti credi di essere? Se non pensassi io a tutto… Dovevo essere Attila o Gengis Khan in una vita precedente, o tutti e due. Aspettate che sia morta, poi fate quello che volete.”

La disputa, del tutto unilaterale, andò avanti per un bel pezzo, sotto la grandine di cannonate dell’autocrate che regnava sull’inferno familiare. Né il padre né il figlio pronunciarono più una parola per tutta la sera.

Nell’appartamento di fronte, anche i Viviani discutevano dei vicini. Non a cena, ma alcune ore dopo, mentre erano ormai a letto con la porta chiusa, lontano dalle orecchie dei figli. Parlavano a bassa voce:

“Quei Donati sono in miseria nera. Ho fatto bene a mandare Alberto in avanscoperta. Non li avrei nemmeno invitati a prendere un bicchier d’acqua da noi, se non fosse per Lucia.” La signora Viviani stava riassumendo la situazione a suo marito. Anche lei, da brava madre di famiglia, sedeva metaforicamente al posto di comando e preparava piani di battaglia. Solo, non usava mai l’artiglieria.

“Che c’entriamo allora con questi Donati, e che c’entra Lucia con loro?” domandò il marito, l’ultimo a capire quel che succedeva, come ogni padre di famiglia che si rispetti.

“Dato che sono così poveri, con una buona dote potremmo spingerli ad accettare Lucia come moglie di quel ragazzo”, gli spiegò pazientemente la compagna della sua vita.

“Ma credi che funzionerà? Anche se sono degli straccioni, quel giovane potrebbe non sentirsela di caricarsi di una moglie che ha bisogno di assistenza, non può dargli figli, e probabilmente non potrebbe neppure… consumare…”

“Non dici sempre tu che con i soldi si ottiene tutto?”

“Non proprio tutto. E forse non sono poi così poveri. L’appartamento è loro, e il padre ha un lavoro e qualche piccola proprietà.”

“No, credimi, le tirano verdi. Sono così mal vestiti. E hanno una casa disastrata. Non hanno neppure i soldi per una tappezzeria decente. I mobili sono pochi e fanno schifo. Alberto non ha visto tutte le camere, ma se quello era il salotto buono, figuriamoci il resto. Certo, se la povera Lucia stesse bene potrebbe aspirare a un ottimo partito, ma così sarà una fortuna se riusciremo a sistemarla con quei poveracci.”

“Può darsi che tu abbia ragione. D’altronde noi diventiamo vecchi, Laura e Francesca sono lontane e hanno altro da fare. Alberto dovrà pensare al lavoro. Se avesse qualche specie di marito a starle dietro, per Lucia sarebbe una fortuna. Be’, buona notte.”

“Buona notte.”

Due giorni dopo i Donati al completo si recarono a restituire la visita. La madre di Paolo trasudava melassa. Giovanni Viviani e sua moglie erano una coppia anziana, distinta, contegnosa, di consumata abilità nello scegliere la via più sicura tra gli scogli dell’esistenza. I genitori di Paolo si sentivano intimiditi non meno del figlio dagli autorevoli ospiti e dalla ricchezza della casa. Questa era già quasi del tutto in ordine. I Viviani la fecero visitare agli ospiti, scusandosi per ogni cosuccia ancora fuori posto. In tutto l’appartamento non un’immagine sacra. Ma nello studio, appesa alla parete, troneggiava la fotografia di un personaggio allora in auge: un volto dai baffi spioventi, un sorriso enigmatico a metà tra il paterno e il sornione. Stalin.

Alberto non c’era.

“L’ho mandato a rappresentarmi a una riunione di partito”, spiegò il signor Viviani. Il partito: non era necessario spiegare quale. I Donati, del resto, lasciarono subito cadere l’argomento. Nel mare dell’Emilia rossa, a quelli come loro, poco politicizzati e ansiosi solo di schivare i guai, toccava nuotare con estrema cautela. Così era stato anche prima, al tempo dell’Emilia nera.

“Che ne dice della Corea?” domandò il signor (o bisognerà dire il compagno?) Viviani al padre di Paolo. La guerra in corso era naturalmente l’argomento del giorno.

“Mah,” rispondeva lapidariamente l’interpellato, allargando le braccia “vedremo come andrà a finire.” Schermaglie del genere gli capitavano abbastanza spesso, come impiegato di un comune rosso scarlatto. E ogni volta lo coglievano alla sprovvista. Chissà, forse in passato gli erano costate qualche scatto di grado. Non era capace di adeguarsi da ipocrita. Si difendeva pronunciando meno parole possibili. C’era abituato, sia in ufficio che in casa. Anzi, in casa parlava ancora meno che con i colleghi.

“Io penso che il popolo vincerà;” sentenziò il signor (compagno) Viviani “non crede?” Il sondaggio continuava.

“Giustissimo”, approvò il padre di Paolo, osservando distrattamente una preziosa coppa di cristallo di Boemia che troneggiava in mezzo a un tavolo in puro Settecento veneziano. E intanto pensava: “Bisognerà vedere quale popolo”.

“Intanto” diceva la signora Viviani alla madre di Paolo “il suo ragazzo potrebbe stare un po’ con Lucia”.

“Ma perché non viene lei qui con noi, invece?” intervenne il (compagno) padrone di casa.

“Lascia stare,” sussurrò la signora “sai bene com’è.”

Il signor (compagno) Viviani emise un sospiro e, come per allontanare un pensiero molesto, si rivolse agli ospiti con un sorriso di affettata giovialità:

“Un po’ di liquore? al momento siamo sforniti. Sa? il trasloco… Ma credo di avere ancora del cognac, della vodka, del pelinkovac e qualcos’altro. Ora chiamo la cameriera e faccio dare un’occhiata.”

“La compagna cameriera?” pensava il padre di Paolo.

“Non s’incomodi” protestò Teresa Donati, mentre la madre di Lucia si alzava per condurre Paolo dalla figlia. Percorsero un lungo corridoio dalle pareti adorne di bellissime stampe antiche ed entrarono in una camera che non era stata mostrata durante la visita alla casa. Subito risuonò il grido della ragazza:

“Gli uccellini. Chiudete la porta.”

Paolo la vide seduta su una poltrona presso la finestra chiusa, con le gambe nascoste da una coperta. Vicino a lei una gabbietta spalancata. Due uccellini verdi dal capino nero le stavano uno sopra una spalla, l’altro su una mano. Vedendo uno sconosciuto diedero segni di inquietudine. Una delle creaturine volò a rifugiarsi in gabbia.

“Chiudete la porta, ho detto” ripeté nervosamente Lucia “volete che vadano a storpiarsi?”

“Se si spaventano possono volare via alla cieca e sbattere contro qualche mobile;” spiegò la signora (compagna) Viviani “non hanno ancora familiarità con la casa. Vi siete già visti, mi sembra. Vi lascio a far conoscenza.” E la signora (compagna) uscì richiudendo in fretta la porta.

Lucia stava carezzando il capino di uno degli uccellini. Ad un tratto esclamò:

“Perché non ti siedi?”

Paolo fece per sedersi vicino a lei.

“No, no, così spaventi i Tillini. Più lontano. Sai? non ti hanno mai visto.”

“I Tillini? non sono due lucherini?”

“Sì, ma Tillini è il loro nome. Magari, guarda: avvicinati a poco per volta, trascinando la sedia. No, non preoccuparti per il pavimento. Ecco, così si abituano: piano, piano.”

Quando Paolo fu abbastanza vicino, Lucia gli sfiorò la mano e, rivolta agli uccellini:

“Vedete: non fa male, è un amico”, e li chiamava dolcemente per nome.

Paolo non avvertì alcun brivido a quel contatto: era qualcosa di gentile, di familiare, ben diverso da quello di Claudia.

“Come hai detto che si chiamano?” egli domandò.

“Questo si chiama Tillino, è il maschietto;” rispose lei, indicando con un gesto del capo quello che le stava sul dito” quest’altra che è scappata in gabbia appena sei entrato è Tillina, la femminuccia. È più timida. Lui invece è uno sfacciatello: vorrebbe stare sempre fuori della gabbia e viene a portarmi via quel che ho nel piatto mentre mangio.”

Lucia guardò con tenerezza quel batuffoletto di piume: gli diede un bacio sulla schiena senza che si muovesse.

“Mi spiace averti disturbata”, si scusò Paolo nel vederla così intenta ai suoi uccellini.

“Ma no, ma no…”, Lucia si voltò vivamente verso di lui, arrossendo. Arrossirono insieme, senza sapere perché, senza quasi rendersene conto, nel guardarsi. L’infermità era, almeno per il momento, dimenticata.

Lei riprese a parlare, con gioia, sorridendo. Raccontò a Paolo le prodezze dei due lucherini: erano i primi a darle il buongiorno la mattina e le tenevano compagnia tutta la giornata; la chiamavano gridando con le loro vocine appena accennava ad allontanarsi, sapevano far capire quando avevano fame, sonno o voglia di uscire dalla gabbia per sgranchirsi le aluccie volando qua e là. Solo di notte la gabbia era chiusa. Durante il giorno erano spesso liberi per la camera.

“Anche a me sarebbe piaciuto avere degli uccellini, ma…”, e Paolo si interruppe. Quante cose gli sarebbero piaciute e non poteva averle. Una casa decente, un po’ di villeggiatura, una ragazza, un lavoro.

“Per un ragazzo può essere difficile tenerli,” osservò Lucia “hanno bisogno di continue cure e attenzioni. Non si può metterli in gabbia e lasciarli soli. Intristiscono e muoiono. Voi ragazzi dovete uscire di più, muovervi di più. In città non si trovano lucherini. Li ha portati il fattore di una nostra tenuta, o cooperativa, come la chiamano… In certi momenti non so proprio cosa farei senza di loro.” La voce di lei s’era abbassata. Un sussurro appena percettibile, quasi soffocato.

Tillino volò dalla mano di Lucia al tavolino che era lì presso, e prese ad avvicinarsi cautamente a Paolo. Una creaturina più piccola di un passerotto, curiosa e in vena di esplorazioni. Teneva la codina e le piumette del capo erette all’insù: segno di nervosismo. Fissava il nuovo venuto con gli occhietti neri. Sbuffi di piumette chiare gli uscivano da sotto le aluccie striate di verde e nero.

“Sta studiandoti”, lo avvertì Lucia.

Il ragazzo fece un lieve movimento e l’uccellino schizzò via, rifugiandosi sul petto della padroncina.

“Ecco. Me lo hai spaventato.”

“Mi spiace, io non…”

“Pazienza, si abitueranno. Tornerai, vero?”

“Sì, sì, volentieri.”

“Meglio chiuderli in gabbia, adesso. Ho paura per loro: sono così piccoli. Su, da bravo, Tillino, va’ a casa.”

Subito quel batuffoletto di piume volò sulla porticina tenuta aperta dall’apposito ferretto, si voltò a guardare in viso Lucia e saltò dentro la gabbia andando a raggiungere la piccola compagna, che aveva continuato a fissare sospettosamente l’estraneo.

“Incredibile”, esclamò Paolo.

“Capiscono più di quanto crediamo,” asserì Lucia richiudendo la gabbia “è l’amore che li rende così. Queste creaturine lo sentono in modo fantastico e lo contraccambiano come possono. E pensa a quel corpicino, con due occhietti che sono due capocchie di spillo, un cervellino minimo ma grande rispetto alle loro dimensioni come si vede anche dalla loro intelligenza, i polmoncini, il cuoricino. Sono piccoli miracoli di amore.”

La coperta le stava scivolando dalle ginocchia e cominciava a rivelare la diversità fra le due gambe. Ella ne afferrò un lembo e la tirò su più rapida che poté, avvolgendosela intorno ai fianchi perché non cadesse di nuovo. Poi rimase a capo chino, come se fosse stata colta a fare qualcosa di sconveniente. Paolo, sgomento, cercava di nascondere l’emozione e la pietà parlando, raccontandole qualcosa della sua vita di scuola e di casa.

Lucia si riprese e raccontò a sua volta come, dopo aver conseguito la licenza media, avesse pregato i genitori di farle interrompere gli studi. Non disse il motivo, ma non fu difficile intuirlo quando indicò la poltrona a rotelle che era in un angolo:

“Mi hanno comprato quella perché possa girare per la casa, ma io la detesto.” Chiuse gli occhi come a scacciare “quel” pensiero: “Tu sei diversa, non puoi andare in salotto quando ci sono visite; non puoi andare a scuola, gli altri ti guardano; tu sei diversa”. Riaprì gli occhi e vide di nuovo Paolo. Gli sorrise. “Quel” pensiero si allontanava a poco a poco.

“Ora però la scuola mi manca;” continuò “e faccio di tutto per compensarmi: credo d’aver letto tutta la biblioteca di casa. Senti: secondo te, ci sarà vita sugli altri pianeti?”

Inaspettatamente, Lucia svelò un aspetto nuovo della sua personalità: un insaziabile desiderio d’imparare, una cultura in molti punti superiore a quella di Paolo. A lungo parlarono del sistema solare e delle prospettive di viaggi interplanetari. Lei volle sapere, fra l’altro, che cosa ne pensasse dei dischi volanti, alcuni dei quali pareva fossero stati avvistati pochi giorni prima sulla città. Secondo lui su questo problema si sapeva ancora troppo poco. Lucia, invece, si divertiva ad immaginare un’invasione di marziani. Mentre discorrevano con entusiasmo, la porta si aprì timidamente e dallo spiraglio spuntò, non un marziano in avanscoperta con le antenne verdi, ma la testa della cameriera.

“Può entrare,” la chiamò Lucia “gli uccellini sono in gabbia.”

“Ecco il dolce, signorina”, disse la donna, entrando e deponendo due piatti sul tavolino.

Uscita la donna di servizio, i due giovani mangiarono le loro fette di torta, mentre continuavano a parlare. Lei, tenendosi ai mobili, con la coperta strettamente avvolta intorno alla vita, e appoggiandosi a Paolo che si era precipitato ad aiutarla, si trascinò fino alla finestra, la aperse e rovesciò le briciole sul davanzale.

“Hanno sempre tanta fame,” spiegò “e io ho fondato il C.A.R.P.A.: Centro Assistenza e Refezione Passeri Abbandonati.” Scoppiarono a ridere insieme.

“Ti piace la musica?” gli domandò poi Lucia, dopo essersi risistemata sulla poltrona.

“Moltissimo. Se solo avessi tempo e…”

“Allora prendi il giradischi. Eccolo lì. Mettilo sul tavolo.”

“Che bello.”

“Mica troppo. È dell’anno scorso.” Lucia, trattenendo la coperta con una mano, riuscì, da sola, ad introdurre la spina nella presa di corrente. “Guarda, i dischi sono in quello scaffale. Prendili. Non tutti in una volta.”

Paolo fu incantato dalla vista di tanti microsolco dei più grandi e costosi. A quel tempo prevalevano ancora sul mercato i dischi a settantotto giri, ma quelli erano tutti a trentatré giri.

“Come hai fatto a trovarli? Qui se ne vedono pochissimi nei negozi.”

“Me li porta mio fratello da Milano. Cosa vuoi sentire?”

“Veramente… non me ne intendo gran che.”

“Aspetta allora: questo è uno dei miei preferiti.” Lucia scelse un disco: la Quarta Sinfonia di Brahms.

Dolci noti elegiache vibrarono nell’aria: la musica sembrava un’onda delicata e potente che fluiva e rifluiva. Lucia l’ascoltava ad occhi chiusi, in silenzio. Paolo, che la sentiva per la prima volta, non poteva invece coglierne subito tutta la bellezza, e lasciò vagare distrattamente lo sguardo per la stanza.

Una camera grande almeno il doppio della sua. Mobili in stile moderno e razionale, diversamente dal resto della casa, che pareva una mostra d’antiquariato. Le pareti chiare davano all’ambiente un aspetto arioso. Due grandi scaffali, con tanti libri e pochi ninnoli. Un magnifico tappeto orientale copriva gran parte del pavimento a parquet di legno.

Finì la prima facciata del disco e Lucia lo voltò.

“Sta a sentire: il finale è stupendo.”

Ma Paolo non poté ascoltarlo quella volta. La porta si aperse ed entrò Alberto:

“Salve. Come va?”

“Come vuoi che vada?” rispose lei, spegnendo a malincuore il giradischi, mentre Paolo indugiava imbarazzato nei soliti convenevoli, che avevano il potere di metterlo subito a disagio.

“Hanno detto niente della Corea?” s’informò il nuovo venuto.

“Non abbiamo acceso la radio”, rispose Lucia.

S’era fatto assai tardi.

“I suoi genitori sono già andati, ma se lei vuol fermarsi a cena…”, lo invitò Alberto.

Paolo non aveva pratica di rapporti sociali, ma una sorta d’istintiva sensibilità l’avvertì che accettare sarebbe stato inopportuno, e si congedò, promettendo di ritornare presto.

“Grazie”, mormorò la ragazza, trattenendo la coperta con la mano sinistra, mentre porgeva a Paolo la destra.

Fu così che egli cominciò a recarsi da Lucia, quando lo studio non lo assorbiva troppo. Bastava attraversare il pianerottolo. Il giorno più propizio era naturalmente il sabato, e lei attendeva quel giorno con ansia.

Appunto un sabato, mentre egli era in visita presso gli importanti vicini, sua madre espresse col marito i pensieri che andava ruminando da tempo.

“Vogliono appioppargli la figlia.”

“Lo temo anch’io”, replicò Anselmo Donati.

Un lungo silenzio.

“Ma sono ricchi sfondati. Non sarebbe una cattiva sistemazione.”

Il marito la guardò come avrebbe guardato una madre che proponesse di far prostituire le figlie. E in quell’occasione, dopo aver ingerito un paio di pillole contro l’ulcera, ruppe la consegna di parlare il meno possibile e di non contraddire mai la moglie:

“Tu sei pazza.”

“Eh già, sono pazza. Se non fosse per me questa famiglia sarebbe a pan dimandato da un pezzo. Vita maledetta, che non possa nemmeno essere rispettata. Per cosa mi hai preso? Per lo striglione di casa? Io dico quello che mi pare e tu non sognarti di contraddirmi.”

“Tu sei pazza, ti dico, e la tua avarizia è tale che venderesti la pelle di tua madre per farne un tamburo, se quella povera donna non fosse morta tisica a forza di mangiare poco e di non volere né medico né medicine per risparmiare. Fortunatamente nostro figlio ha abbastanza buon senso da non farsi catturare. Quella Lucia sarà anche un angelo, ma non si può pretendere di legare un ragazzo sano a una così. E ora taci una buona volta. Per oggi non voglio più sentirti.”

La “Salvatrice della famiglia” lo guardò, esterrefatta e incapace di replicare. La faccia le si gonfiò come un melone e ne sprizzarono lacrime roventi. Andò a chiudersi in camera e non ne uscì per tutto il giorno. Per almeno una settimana fu taciturna. Il suo volto di pietra in quei giorni avrebbe messo in fuga le Erinni in persona. Ma Paolo non se ne preoccupò. Era abituato a vederla alterata, in lite con il mondo e con se stessa. E siccome per un certo tempo si astenne da fare il processo alla sua faccia durante i pasti, non poté che rallegrarsi per il miglioramento.

 


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