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 Una città non troppo grande, non la solita metropoli che ha ingoiato paesi e borgate vicine devastando al tempo stesso il proprio centro storico. Il nome? è proprio necessario ricordarlo? In tale ambiente viveva Paolo Donati, ligure per parte di madre, emiliano di nascita. La sua città era l’unico angolo di mondo che conoscesse. Di andare altrove, quando la scuola era chiusa, non se ne parlava, ovviamente, per non finire a “pan dimandato”.

Paolo non sapeva cosa volesse dire villeggiatura, viaggio o vacanza, e ascoltava i racconti dei compagni in autunno —chi era stato a Riccione, chi a Cortina d’Ampezzo, chi più modestamente a Bellaria, ma qualcuno perfino a Parigi o in altre favolose località straniere —con un misto di meraviglia e di desiderio. Non sapeva cosa fosse l’invidia. Avrebbe solo voluto avere qualcosa ogni tanto anche lui: qualcosa da ricordare e da raccontare.

Ma non ne faceva un dramma, se quel suo desiderio, come tutti gli altri suoi desideri, restava inappagato. In fondo la sua città gli bastava. Era un piccolo mondo, un microcosmo brulicante di vita, immagine del macrocosmo che si stendeva al di fuori. Era affezionato a quelle strade piane, simili l’una all’altra, dove il sole al tramonto dipingeva lunghe striscie dorate.

Ma in quei giorni era troppo agitato per godere il panorama.

Aveva giurato e mantenne: il giorno dopo andò in parrocchia a confessarsi. Ne uscì sollevato. Il mondo aveva assunto una diversa dimensione. Non si sentiva più solo. Ma lo strapazzo fisico non fu senza conseguenze. Correndo per la città in quell’infelice giorno aveva molto sudato, e ben presto si manifestò una forte influenza, che lo tenne a letto per quasi una settimana, in quelle afose giornate, con suo grande supplizio. Sua madre colse l’occasione per tenergli varie lezioni sulla punizione divina che colpisce i figli quando nascondono alle autrici dei loro giorni, che sono le uniche ad amarli e ad avere il diritto di amarli, certe loro misteriose, ma certamente malvagie attività.

La calma interiore appena raggiunta da Paolo si sgretolò ben presto nell’assoluta mancanza di distrazioni. Egli prese a riflettere, a scavare nei ricordi. Tornarono dai più profondi recessi della memoria i minimi gesti, le parole di Claudia. Ricordava il primo giorno in cui gli pareva di aver cominciato a notarla, e quella muta e furente gelosia che lo assaliva se un compagno le rivolgeva un complimento; e poi l’aula, i banchi, i tentativi di farle la corte, la festa meravigliosa, i sorrisi di lei, e l’inutile attesa, e quell’orribile senso di desolata solitudine, e la disperazione. Sforzarsi di pensare ad altro era inutile. I pensieri dolorosi tornavano sempre.

Tutto era stato finzione in Claudia. Lo aveva preso in giro. Fece solenne giuramento di non rivolgerle mai più la parola. Poco dopo se ne pentì. Poi si pentì d’essersi pentito. Odio e amore lottavano in lui. La immaginò in pericolo; egli con sublime slancio la salvava, e la fanciulla cadeva ai suoi piedi invocando perdono… Ma a che serviva? Spontaneamente sorgevano le fantasticherie, ma non gli davano più alcun piacere. Niente più bei sogni ad occhi aperti che avevano avuto il potere di divertirlo tanto. Ora servivano solo a fargli avvertire più profondo l’abisso fra desideri e realtà. Dopo la guarigione, per un pezzo non volle più uscire. Non voleva più rivedere certi luoghi, e uno in particolare, davanti ai giardini pubblici. Sua madre aveva la sua da dire anche su questa strana riluttanza a metter piede fuori casa, ma abbastanza debolmente. In questo modo poteva tenerlo d’occhio.

Per lui le passeggiate erano state qualcosa di inebriante. Mentre camminava da solo, ecco i suoi sogni, le sue vaghe aspirazioni al bene e alla bellezza, le sue immagini di un’umanità perfetta, l’ansia dell’infinito, prendevano corpo. Il paesaggio piatto e monotono si animava di nuovi colori nella sua fantasia. Spesso però un fiore, o un insetto, attirava la sua attenzione e, abbandonati i sogni, cominciava a esaminarlo. Ma tutto questo era finito.

Ormai solo i libri, le meraviglie della circolazione sanguigna, della respirazione, degli elettroni, riuscivano a interessarlo. Stava accadendo in lui qualcosa cui non sapeva dare un nome: man mano che naufragavano i sogni ad occhi aperti, con crescente forza egli intuiva una presenza “al di là”, irraggiungibile, che gli sembrava talvolta di sfiorare un attimo, un attimo solo di ansia struggente e inesprimibile, come quella che nasceva in lui alla vista di un tramonto. Un attimo sublime che subito dileguava. Non era più solamente un’ansia di infinito. Era qualcosa di più: la sensazione che quell’infinito fosse una Persona, e che quella Persona si curvasse su di lui a dirgli: “Sono io, un giorno ci incontreremo. Tutto nasce da me e tutto ritorna a me, e chi ritorna e resta con me sarà felice”. In quei momenti la delusione subìta si riduceva a un bruscolino insignificante.

Giunse la prevista notizia della sua promozione con ottimi voti. Ora l’estate era veramente libera davanti a lui. Tutti i suoi compagni, promossi o bocciati, andavano in villeggiatura. Quell’anno Lucchese, Belmonte, Falco, Acerra, la dolce Claudia e la sua amica Marta erano tra i promossi e partivano con i genitori per il mare o la montagna, dove li attendevano appartamenti di proprietà, o alberghi, o pensioni. Solo Belmonte, non potendo concedersi un gran scialo, doveva accontentarsi della casetta rustica posseduta da suo padre sull’Appennino, nell’alto Frignano: un luogo silenzioso circondato da boschi, dove il suo carattere solitario si trovava perfettamente a suo agio. Zanelli invece aveva rischiato la bocciatura totale e, dopo essere stato graziato in storia, doveva trascinarsi tre materie pesantissime a settembre: italiano, greco e matematica; ma divertimenti e svaghi gli erano assicurati comunque nella villa dei suoi genitori, in Versilia. A Icardi toccava riparare in greco, storia e filosofia, ma la sua famiglia aveva preso in affitto un appartamento sulla Riviera Ligure, e non c’era motivo, agli occhi dei suoi, perché dovesse rinunciare allo svago estivo.

Paolo, invece, usava godere la villeggiatura che la politica rigidamente adottata dalla “Salvatrice della famiglia” gli elargiva: un lungo e tranquillo soggiorno in quell’esatto luogo dove risiedeva tutto il resto dell’anno. Infatti, sentenziava la “Salvatrice”:

“Bisogna fare il passo secondo la gamba.”

La gamba finanziaria della famiglia era corta, dunque passo corto. C’erano da pagare le spese d’amministrazione dell’appartamento. Il marito lasciava che fosse lei a rappresentarlo alle assemblee di condominio: firmava la delega senza discutere perché non aveva voglia di sentirla maledire la vita, l’ora e il giorno in cui era nata. Oltre metà del tempo di quelle assemblee se ne andava per le continue contestazioni di lei su ogni capitolo di spesa del bilancio preventivo, sempre esorbitante, a suo parere. Poi c’erano i gravi sacrifici per “il ragazzo”: la scuola, i libri, il vestiario, e qualche spicciolo che bisognava pur dargli, ogni tanto (fortunatamente Paolo riceveva qualcosa, sottobanco, anche da suo padre). E poi c’era la voragine della spesa quotidiana: ma quanto si mangiava in quella casa, roba da mandare a “pan dimandato” anche un nababbo. E poi la luce, il gas. No, no, il gruzzolo messo da parte era sempre troppo piccolo, un’inezia —forse non tanto, ma a lei sarebbe sembrato un’inezia anche l’oro di Fort Knox.

Nessuno doveva sapere a quanto realmente ammontasse, neppure il marito, che era “un belinone”. In uno dei loro rarissimi litigi, proprio sull’amministrazione del peculio familiare, che egli avrebbe voluto un po’ meno rigida, lei gliel’aveva pure detto in faccia: “Sei un belinone”. E lui, in uno dei rari guizzi di prontezza, aveva ribattuto: “Infatti ti ho sposato”. Ma le redini la signora Donati le teneva ben strette dall’inizio: “Perché dovrebbe metterci la proposcide?” pensava “di soldi non capisce niente”. Lei capiva, pensava e decideva per tutti. Non si poteva mai sapere: una malattia, un imprevisto qualunque; bisognava risparmiare, risparmiare, risparmiare. Nessuno era mai morto per non essere andato a sciupare soldi in villeggiatura. Ci rinunciava lei, dovevano rinunciare tutti. Tutti i membri della famiglia avevano un colorito lievemente giallastro, ma anche quello non aveva mai ammazzato nessuno.

Paolo non protestava: si immerse nei suoi libri. Non ci furono più scenate per passeggiate non autorizzate o rientri in casa oltre l’ora del coprifuoco, semplicemente perché egli non aveva più alcun appuntamento. In compenso spuntò la nuova fissazione di sua madre, per come egli beveva. Non le piaceva, diceva lei, il modo di bere del figlio, il moto brusco del polso quando portava il bicchiere alla bocca. Le sembrava il gesto del bevitore incallito. Non che bevesse vino, naturalmente. Il vino era bandito. Si beveva “acqua di Vichy”, ossia acqua del rubinetto in cui venivano versate polverine effervescenti, e nient’altro.

Ma era il principio che contava: non era quello il modo di bere, non bevevano così le persone educate, non beveva così la gente che aveva diritto al rispetto del prossimo, non beveva così la gente civilizzata e intelligente, non bevevano così i figli rispettosi della madre “Salvatrice della famiglia”, maledizione, vita maledetta e stramaledetta, e “il giorno che son nata doveva essere maledetto”, e “vorrei sapere chi mi ha maledetto”. Andò avanti così per tutta l’estate. Poi, d’improvviso, se ne dimenticò.

Sempre in tema di acqua, per vari mesi vi era stato il divieto assoluto di metterla in frigorifero. L’acqua gelata era mortale, la principale causa di decessi fulminanti al mondo. Aveva ammazzato più gente l’acqua fredda che le bombe atomiche e quelle al fosforo messe insieme. Un giorno ci avrebbe certamente lasciato la pelle, se si ostinava a bere robaccia fredda, e —vita maledetta, maledetto il giorno che son nata, bestia gramma, faresti scappare la pazienza a un santo, e piantala con quella faccia, che razza di faccia che hai —che la smettesse di sfidare la sua autorità e di giocare d’audaccia. Un giorno era stata lei stessa a mettere la bottiglia nel frigorifero e non si era più parlato dell’argomento.

Da una mania all’altra: c’era stato il periodo in cui Paolo, secondo lei, beveva troppo: non il modo, ma la quantità era il problema che tormentava la sua anima sensibile e pensosa del benessere del rampollo: bevi di nuovo, bevi sempre, bevi troppo, ti fa male, ti gonfierà la pancia, ti scapperà dell’aria, piantala, ti ho detto di piantarla, perché mi fai sempre infuriare? maledizione, vita maledetta e stramaledetta, e maledetto il giorno e l’ora che son nata. Prima ancora, Paolo, secondo lei, metteva troppo sale nelle vivande, e il crescendo rossiniano della sollecitudine materna si era riversato sull’ingrato figlio con l’inevitabile condimento di maledizioni sulla propria vita e l’ora in cui era nata. Tante ondate maniacali c’erano state, con il relativo processo alla faccia silenziosa dell’ingrato che le sedeva di fronte. Tante altre ce ne sarebbero state, finché l’uno o l’altro non avesse lasciato questo mondo.

Sordo a tanta sollecitudine materna, Paolo era ormai arrivato al punto di prestarle attenzione quanto al ronzio delle mosche. La sua unica preoccupazione, man mano che la ferita inferta da Claudia si rimarginava, era quella di amministrare le sue pressoché inesistenti risorse per comprare il maggior numero possibile di libri. Riuscì a comprarne soltanto due in tutta l’estate, uno di astronomia, l’altro di chimica fisica: li lesse e li rilesse avidamente. Dovette purtroppo rinunciare a un magnifico volume illustrato a colori sulla paleontologia: troppo costoso. Sua madre non vedeva di buon occhio quelle letture —come del resto quasi tutto quello che faceva quell’ingovernabile figlio. Se proprio doveva spendere in libri, almeno si comprasse dei testi utili, come quelli di diritto, per prepararsi alla carriera di giudice che lei aveva deciso per lui.

Mancava ancora un anno alla decisione della facoltà universitaria, e un anno è un tempo assai lungo a diciassette anni. Aveva molto da fare, oltre a leggere nuovi libri. Ripassò le materie principali, fece i compiti delle vacanze e seguitò ad inventare giochi e passatempi: complicati disegni a base di segmenti tracciati con la regola di non tornare mai su un segno già fatto, oppure manovre e battaglie su una carta geografica distesa sul tavolo, con segnalini colorati di carta rappresentanti i reparti degli eserciti in lotta. Tutto era buono per riempire le lunghe ore di solitudine.

In certe giornate, tuttavia, non aveva voglia di leggere o d’altro. Era assalito da una malinconia sterile, arida, senza sollievo. Con angoscia desiderava qualche coetaneo con cui scambiare due parole. Comprendeva di non essere fatto per stare solo. E chi mai lo è? Sapeva arrangiarsi per vincere la noia, ma non indefinitamente. Il ricordo di Claudia si faceva via via meno pungente. Solo nei vuoti di quella sua terribile malinconia, l’immagine della ragazza tornava a farlo soffrire.

Passò così luglio, poi agosto e settembre con le sue nebbie. La stagione declinava per quelli che erano in villeggiatura. Fra non molto la scuola avrebbe imposto a tutti di nuovo lo stesso giogo. Paolo ora desiderava la ripresa delle lezioni, non perché cessasse lo svago degli altri, ma perché la vita scolastica, con i suoi obblighi e la sua disciplina, era almeno più varia ed attiva, oltre che lontana dagli occhi della madre e dai segreti sensori di lei. Si sarebbe seduto nel banco, in classe, dove nessuno avrebbe processato la sua faccia o criticato, in crescendo isterico, il suo modo di bere o di mettere il sale.

Un giorno, verso la metà di settembre, durante una breve passeggiata, attraversando una piazza, fu sul punto d’essere investito da un’automobile lanciata a velocità folle: una di quelle decappottabili a due posti, da play boy. Se la trovò addosso prima d’aver tempo di fiatare. Fece un gran balzo per sfuggire al rombante mostriciattolo, mentre lo scriteriato guidatore sterzava con uno stridìo di gomme, evitando per un filo il peggio. Con un gran batticuore, Paolo si ritrovò illeso sul marciapiede. Alquanto scosso riprese la sua strada e ben presto arrivò a casa, un po’ meno giallastro in faccia del solito.

Più tardi, ripensando a quella scena, gli parve d’aver provato per un attimo la tremenda e affascinante ebbrezza della morte, il richiamo dell’abisso e dell’ignoto. Un’impressione posteriore al fatto, perché di fronte al pericolo incombente i suoi pensieri s’erano come congelati, e la sua fuga era stata un velocissima reazione riflessa. L’episodio s’impresse profondamente in lui e gli riportò il ricordo della sorellina scomparsa e a porsi quelle domande eterne cui nessuno sulla terra, in base alla nuda saggezza del mondo, sa rispondere.

L’amore della vita e dello studio restava però la sua passione dominante. Negli ultimi giorni di vacanza era riuscito a metter da parte abbastanza da comprarsi un terzo libro: un trattato di psicologia che da tempo desiderava, e lo lesse d’un fiato. Trovò nell’animo umano un campo d’indagine appassionante. Quel breve periodo fu pieno e tranquillo. Claudia non esisteva più. Egli riprese le sue belle passeggiate libere. I ricordi dolorosi sbiadivano di fronte alla ricchezza della vita. Si perdeva nel mistero delle case, con le finestre aperte che lasciavano intravedere un barlume della vita altrui. Si sentiva riflesso nel prossimo: gli stessi problemi, le stesse passioni, tutti con il medesimo desiderio di amare e di essere amati.

A volte le sue riflessioni si velavano di malinconia: le briciole del passato gli sembravano contenere una gioia delicata che non aveva saputo afferrare. L’allontanarsi dei fatti nel tempo li trasfigurava: una luce di sogno avvolgeva l’acquisto di un libro desiderato e l’istante in cui la bella cassiera della libreria l’aveva guardato al momento di pagare il volume. Così lo stesso attimo del mancato investimento, nell’annebbiarsi del ricordo, appariva sempre meno reale e si trasfigurava in una luce mitica. La memoria sembrava modellare i ricordi, renderli più gradevoli. Ma, cercando i luoghi dove quei fatti erano avvenuti, che delusione. Quando si avvicinava ad un angolo della città dove aveva lasciato una piccola parte della sua vita, l’incanto dileguava. La felicità che pareva cominciasse in quel punto era volata via per posarsi su un altro, da cui sarebbe ancora fuggita davanti a lui. Si accorgeva di aver sete d’infinito, e che niente sulla terra poteva saziarla.

Così, in un alternarsi di letizia e smarrimento, in perpetuo colloquio interiore, Paolo consumava il suo tempo.

Cadevano le foglie, trascorse anche l’ultimo giorno di vacanza.

La solita folla di studenti si addensò intorno al liceo. Paolo si unì ai vecchi compagni che si andavano raggruppando. E, naturalmente, poiché non desiderava vederla, Claudia fu la prima persona che incontrò. Fingendo di non averla notata, passò oltre, mescolandosi al gruppo, ma il suo cuore aveva già accelerato i battiti.

Si intrecciavano racconti delle vacanze appena concluse, ed egli avrebbe voluto riuscire a trovarli divertenti.

“Io” diceva Icardi che, come quasi tutti i rimandati della vecchia banda, era stato promosso agli esami di riparazione “ho conosciuto una bionda di Milano… ma una bionda… che non vi dico… Mezzo paese le stava dietro. Sì, sì, c’era proprio della gran bella gente.” Paolo fissò il compagno, abbronzato come un beduino, che parlava con la sua voce nasale, strascicando le “erre”. La storiella lo aveva colpito: che tipi fortunati al mondo. Come sarebbe piaciuto anche a lui vedere tante persone e cose interessanti.

Un certo Giosuè Tartaro, grandissimo chiacchierone, stava raccontando le imprese compiute con l’automobile e, nel descrivere come aveva fatto a non uscir di strada in una curva difficile abbordata in piena velocità, spendeva mille parole, rifacendo i gesti come se ancora tenesse il volante tra le mani. Molti pendevano dalle sue labbra. Solo Belmonte, fra quelli che l’ascoltavano, aveva la faccia annoiata. Quando Tartaro vide Paolo, lasciò a mezzo la cateratta di parole, e gli si rivolse:

“Be’, Donati, come te la passi?”

“Così” rispose Paolo. Non sapeva cosa dire. Tutto il gruppo aveva trasferito l’attenzione a lui, aumentando il suo disagio.

“Allora, dove hai passato queste benedette vacanze?” tornò a domandare Tartaro.

“Come, dove sono stato?”

“Oh, bella, dove? al mare, ai monti, dove?”

“Non mi sono mosso di qui.”

“Sempre qui davanti? a guardare la scuola? poveretto.”

“Non so cosa ci sia da compiangere;” borbottò Paolo, arrossendo come un colpevole, così senza motivo “ho fatto tante cose interessanti”, aggiunse con voce spenta, senza convinzione. La sua gioia di rivedere i compagni era andata in fumo.

Ovunque chiacchiere. Si discorreva di gite, di corse in auto e in motoscafo, si decantava la potenza dei propri motori, si vantavano splendide conquiste amorose. Inaspettatamente Paolo si trovò di nuovo Claudia vicina. Era tardi per evitarla: dovette rispondere al suo saluto e alle solite domande. Lo fece da principio col minimo di parole, ma la ragazza insistette a ronzargli intorno finché non vide i suoi modi farsi di nuovo gentili. Allora si allontanò soddisfatta, lasciando Paolo turbato per aver ceduto alla prima occasione: non si era proposto di non parlarle più? Egli avvertiva un malessere vago, indefinito.

Venne fuori il portiere della scuola a dire: “È ora”, perché nessuno aveva fatto caso alla campanella, e la massa di scalpitanti puledri si avviò rumorosa su per le scale.

A ricreazione, gli allievi dell’ultimo anno squadravano con sufficienza gli altri, come negli anni scorsi erano stati guardati a loro volta. Paolo rimase in disparte seduto nel banco, ma ecco Claudia avvicinarglisi di nuovo.

“Cos’hai?”

“Niente.”

“Allora perché te ne stai così da solo?”

Paolo si sentì ribollire il sangue e proruppe, senza badare se qualcuno lo ascoltava:

“Hai una bella faccia di bronzo. Mi prometti con tanti sorrisi un appuntamento e poi non ti fai vedere. Si tratta così a casa tua?”

Claudia fece il viso scuro:

“Che dici? quale appuntamento?”

“Non mi dirai che non ti ricordi”, mormorò Paolo, stupito. Ella lì, tranquilla davanti a lui. Mentiva come si beve un bicchier d’acqua. E si ergeva dritta, elegante, abbronzata. Chissà quanto doveva essersi divertita (e con chi?), mentre lui arrostiva nella canicola della città. E ora tornava dalle lunghe vacanze al mare a prenderlo in giro.

“Cosa non ricordo? Non ti ho mica promesso che sarei venuta. Hai fatto tutto da te. Ti immagini le cose. Svegliati.”

Così il torto era suo. Protestò:

“Ma certo che l’avevi promesso.”

“Ma chissà cosa ho detto di preciso? chi si ricorda? chissà cosa avrai capito? so che scherzavo, e anche il tuo m’era parso uno scherzo.”

Paolo non rispose. La guardava a bocca aperta.

“Sei proprio un bambino, sai?” aggiunse lei, ferendolo profondamente, ancor più col suo tono di compassione che con le parole stesse: ella non lo rispettava neppure. “Poi, se ci tieni a saperlo, i miei hanno voluto partire immediatamente per la villeggiatura”, continuò quella sirena, con un tono più affettuoso, che produsse l’effetto desiderato.

“Perché non l’hai detto subito?” domandò Paolo, aggrappandosi a quel filo di speranza: che l’affrettata partenza fosse il solo motivo del mancato incontro. Ma no: com’era possibile? aveva perfino negato che ci fosse tra loro un accordo per l’appuntamento.”Vacci ai giardini. È facile che venga.”. Ricordava benissimo le sue parole. Si era preso gioco dei suoi sentimenti. Oppure le importava così poco di lui da non curarsi neppure di far caso a ciò che egli diceva e da rispondere a vanvera la prima cosa che le veniva in mente. Ma Paolo sentiva di non poterle voltare le spalle: l’amore si era ridestato.

“Claudia…” la ragazza taceva guardandolo “Claudia, perché…” alcuni compagni stavano ad ascoltare, ed egli si fermò, confuso. Quel “perché” rimase lì, sospeso. Perché? perché? perché sei così gelida? perché non mi ami? perché non capisci che nessuno ti amerà mai come sento di amarti io? perché non sei diversa? Che significava quel perché? Paolo neppure lui lo sapeva. Sapeva solo di amarla. Era il suo primo amore.

“Claudia, vuoi studiare con me qualche volta?” riuscì infine ad articolare.

“Grazie, studio sempre con Marta.”

“E non potremmo vederci?”

“Non ci vediamo già a scuola?”

Squillò la campanella. Finì la ricreazione. Quel futile colloquio dovette interrompersi.

Nei giorni che seguirono, la macchina scolastica cominciò a rimettersi pesantemente in moto. Si acquistavano i libri di testo, costosissimi, secondo la madre di Paolo, un vero dissanguamento per le povere finanze della famiglia. Venivano stabiliti gli orari definitivi e assegnati i primi compiti di ripasso. Paolo spiava ogni espressione del viso ed ogni parola di Claudia, per scoprire il minimo cenno di simpatia o di affetto, o almeno un barlume d’interesse.

Era bellissima: il sole aveva schiarito i suoi capelli rosso-bruni, dando loro magnifici riflessi dorati, l’abbronzatura stava a poco a poco svanendo, ma le conferiva ancora fascino. Per il momento gli altri corteggiatori tardavano a farsi avanti, e Paolo continuava a nutrire la sua debole speranza, alimentata del resto anche da Claudia con qualche sorriso, qualche sguardo ogni tanto. La divertiva tanto tenerlo sulla corda: mai e poi mai si sarebbe messa con un poveretto come lui, che non poteva nemmeno permettersi uno straccio di villeggiatura. Comunque approfittò di lui per farsi passare il compito di greco.

Parlarle di nuovo? si poteva sempre tentare, rifletteva Paolo. Per non essere udito dai compagni, un giorno, subito dopo l’uscita dalla scuola, pensò di seguirla da lontano. S’era deciso perché Marta era assente col mal di gola, e l’aiuto richiesto da lei per il compito gli sembrava un atto così incoraggiante di degnazione.

Quando furono lontani dagli altri, accelerò il passo e la raggiunse, mettendosi al fianco di lei. La ragazza, niente affatto imbarazzata, esclamò, con apparente sorpresa:

“Oh, Donati.”

Egli invece non sapeva che dire: tutto il suo discorso ben preparato gli era svanito, come al solito, dalla memoria. Era indifeso di fronte a lei. Arrossendo, abbozzò un sorriso. Stavano attraversando il centro cittadino, e il rumore del traffico lo frastornava.

“Claudia, senti… volevo dirti…” cominciò, appena il frastuono si fece meno intenso, “dirti che… domandarti se… possiamo vederci da qualche parte questo pomeriggio… è sabato…” aggiunse, come a dire che non era il caso di preoccuparsi per i compiti. Avrebbe voluto dirle che era bella più del sole, che la vita era nulla senza di lei, che il suo amore era una fiamma inestinguibile. Tutto ciò che la sua ingenua passione gli suggeriva. Ma le poche parole che aveva proferito gli erano costate già troppo.

“Va bene, è sabato, ma abbiamo tanto da studiare. E poi domani non posso far niente: mio padre vuole uscire con la nuova macchina.”

“Un altro giorno, allora?”

“Non so. Vedremo.”

Intanto erano giunti all’elegante casa di lei. La ragazza lo salutò, lasciandolo solo. Paolo rimase a passeggiare sotto quelle finestre, chiedendosi come ottenere un appuntamento? come coglierla in un istante in cui non avesse qualcosa da fare.

Poi lo stomaco vuoto gli ricordò che anche lui aveva una casa, e sua madre avrebbe contato uno ad uno i minuti del suo ritardo, per sottoporlo al solito interrogatorio di terzo grado, condito delle solite imprecazioni, cosa che infatti puntualmente avvenne. Per tutto il resto della giornata, il pensiero di lei continuò ad assillarlo: la sua immagine, viva, reale, raggiante salute e bellezza, gli stava dinanzi, dandogli quasi un senso di oppressione fisica.

I compagni sapevano tutto, ormai. Un giorno si recò a fare i compiti in casa di Falco. L’amico gli disse, con un sorriso né ironico né cattivo, ma che lo irritò ugualmente:

“Eh, eh: così sei sceso anche tu sul sentiero di guerra.”

Il tempo non portò nulla di nuovo. Nelle vacanze di Natale, Claudia andò a sciare a Courmayeur con la famiglia, e fece sapere a tutti i compagni, quelli ai quali interessava e quelli che se ne infischiavano, che sarebbe tornata soltanto dopo l’Epifania.

Paolo passava ormai ore ed ore a sognarla ad occhi aperti. Fu duro per lui dover rinunciare a vederla. Lo distrasse un poco la preparazione, insieme alla mamma, dell’albero di Natale. Doveva stare molto attento a non fare errori: per sua madre era un inetto e non mancava di farglielo notare continuamente. Comunque, con denaro che gli aveva dato suo padre, in un momento in cui la “Salvatrice della famiglia” non guardava, aveva comperato i regali: una cravatta per il papà e un fazzoletto di seta per la madre. La mattina del gran giorno apersero i pacchi. Dai suoi, o meglio da suo padre, Paolo ricevette un’enciclopedia in due volumi. Anche gli altri pacchi a lui destinati, da parte dei pochi parenti ed amici, contenevano libri: tutta la piccola cerchia frequentata dalla sua famiglia conosceva i suoi gusti.

Quella fu una bella giornata che riuscì a distrarlo un poco dalla sua idea fissa. Era contento dei regali, ma soprattutto lo riempiva di gioia infantile l’atmosfera del Natale: l’albero splendente di palloncini in vetro colorato, di festoni iridescenti, di candeline accese, con la stella di cartone dorato in cima, e poi il manto candido che copriva le strade, i visi lieti della gente. Era stato alla messa di mezzanotte con sua madre, e aveva fatto la Comunione. La “Salvatrice della famiglia”, per una volta, era tranquilla. Si agitò solo quando avvenne un piccolo incidente che turbò un poco l’atmosfera natalizia: Paolo inavvertitamente urtò l’albero facendo cadere una bella pallina di vetro viola e sua madre, nel raccattarne i frammenti, ritornò alla sua abituale rabbia verso se stessa e il mondo, mentre suo padre allungava la mano verso il flacone di medicina contro l’ulcera.

Quella sera non riuscì a prender sonno. Il pensiero di Claudia lo aveva assalito di nuovo. Rimase sveglio fino a tardi, ascoltando i rumori della stazione: lo sferragliare dei convogli, il fischio dei locomotori, il clangore degli scambi; e gli parve di udirlo per la prima volta. Poi il suono delle campane che, dalla vicina chiesa, battevano la mezzanotte. Anche quel Natale era passato e non sarebbe tornato mai più.

Due giorni dopo, nel tardo pomeriggio, squillò il telefono: rispose sua madre, e subito ruppe in esclamazioni di doloroso stupore e in “Gesù mio, misericordia”, in netto contrasto con le esclamazioni che di solito le uscivano di bocca, poi domandò:

“Ma quando è successo?”

E poco dopo:

“Oh Gesù, vengo subito.”

Riappeso il ricevitore, spiegò:

“È morto il padre di Giovanna;” questa era la sua migliore amica “un collasso cardiaco. Tutto così all’improvviso. È disperata. Bisogna che ci vada immediatamente.

“È tardi,” osservò Paolo “ti accompagno, mamma?”

“No, grazie. Resta qui, caro. È ancora Natale, quasi.”

“Ma c’è neve ghiacciata fuori.”

“Mi accompagna tuo padre. Vero, Anselmo?”

“Va bene” rispose l’interpellato, con scarso entusiasmo.

Così Paolo rimase solo in casa, a meditare sul brusco cambiamento di sua madre ogni volta che c’erano di mezzo le amiche. Una vera adorazione aveva quella donna per le sue amiche. Mai nessuna di loro udì alcuna delle imprecazioni e maledizioni di lei, mai nessuna sospettò che in casa, col marito e col figlio, sfogasse la sua paura, le sue frustrazioni, le sue manie. Le amiche erano sacre: si vantava di essere la loro confidente, la consigliera ricercata. Pendevano tutte dalle sue labbra, diceva lei. Quando un’amica veniva in visita —accadeva di rado, ma accadeva —la melassa sembrava dilagare e uscire a fiotti da sotto la porta di casa. Suo figlio era un portento negli studi, suo marito così buono, diceva, e l’amica in visita annuiva compiacente, sorridendo.

Poi la visita terminava e la cappa di piombo scendeva di nuovo su quella casa. Sì, sua madre era così. Magari le visite fossero state più frequenti. Ma anche la casa vuota e silenziosa non era male. Per una volta, Paolo l’aveva tutta per sé. Andò nella sua camera, passò la mano sui libri ben allineati sullo scaffale, come per accarezzarli. Lesse un poco di chimica fisica e si entusiasmò alle peculiari caratteristiche dell’acqua, al legame a ponti di idrogeno che rendeva quel composto, apparentemente così semplice, assolutamente peculiare e capace di costituire il principale mezzo di sostegno della vita.

Ma poi la vita finiva. Si distolse dal libro e si mise a guardare fuori della finestra, nell’aria scura che non lasciava discernere quasi nulla. Ecco, un uomo con una casa e una famiglia, uno come tanti, non ancora vecchio, era scomparso. Non avrebbe parlato più, non avrebbe gioito o sofferto più, non su questa terra. Accade ogni giorno, e ovunque vi siano esseri umani. Paolo trovava difficile concepire una cosa del genere, non capiva la morte. Sapeva che un giorno sarebbe toccata anche a lui, come ognuno sa che la terra gira intorno al sole, e non perde certo il sonno per questo.

I suoi genitori tornarono tardi e la mamma, che aveva sul volto sciupato recenti tracce di pianto, preparò in fretta un poco di cena, e a tavola non fece che commentare il doloroso avvenimento.

Due giorni dopo andò sola al funerale per non rattristare il suo ragazzo. Il dolore dell’amica l’aveva resa, per il momento, gentile e quasi malleabile. L’anno finì malinconicamente, ma ella volle che la famiglia restasse alzata ad attendere la mezzanotte. Seduti intorno al tavolo del salotto, lasciarono scorrere via il tempo, giocando alla tombola con manciate di fagioli per segnare sulle cartelle i numeri estratti, mentre il capofamiglia dirigeva il gioco. La radio trasmetteva musichette e sciocchezzuole, finché venne l’atteso segnale orario che annunciava il tramonto dell’anno di grazia 1950.

Il padre di Paolo stappò la rituale bottiglia, che era economico moscato, e non certo champagne. Vi furono i soliti brindisi e scambi di auguri, mentre la radio trasmetteva qualcosa di simile a una marcetta trionfale e Teresa Donati si sforzava di sorridere e dimenticare quanto fosse penosa la sua esistenza, e quale grave fardello pesasse sulle sue spalle: salvare la famiglia, sorvegliare quel figlio così dif-fic-cil-le e quel marito così debole e taciturno, sostenere e consigliare le amiche, strigliare la casa, difendere il misero peculio per non finire tutti “a pan dimandato”.

Mezz’ora dopo erano tutti a letto, ma un malessere indistinto, angoscioso, tormentava Paolo. Non potendo dormire, si alzò con cautela, accese la luce, sperando vivamente che sua madre non la vedesse, altrimenti lo spreco l’avrebbe mandata in crisi. Preso un libro e un quaderno, restò a lavorare oltre due ore ai compiti delle vacanze.

Dopo Capodanno, il tempo precipitò. In breve giunse la riapertura delle scuole. Una brutta sorpresa attendeva Paolo. Claudia s’era trovata un “ammiratore”: un compagno di classe a nome Carlo Candiani, ripetente, e del tutto insignificante tranne il fatto di essere bruno, alto, ricco.

L’incontro casuale in montagna, fuori dell’ambiente scolastico, il fatto di alloggiare nel medesimo albergo, i begli occhi di lei, non avevano tardato a fare effetto. Carlo aveva esperienza, di donne e di altro (su come marinare la scuola e divertirsi); non era studioso, ma non mancava d’intelligenza; sapeva essere divertente, quando voleva. I due si erano sollazzati a sciare, a compiere escursioni, a raccontarsi i propri dispiaceri.

“Il mio vecchio mi dà pochissimi soldi”, si lamentava lei.

“Figurati: a me danno solo trentamila lire per le piccole spese.”

Infine, mentre i rispettivi genitori erano troppo occupati in ben più importanti faccende che la cura dei propri figli, i due minorenni avevano varcato certi limiti da cui non si torna più indietro. Ora navigavano in pieno idillio: tutti i compagni se ne accorsero alla prima occhiata. Paolo si sentì agghiacciare. Per qualche giorno rimase come inebetito. Era scosso ogni tanto da brividi. Se gli parlavano rispondeva a rovescio. Fu una fortuna che in quel periodo nessun insegnante lo interrogasse.

Lo interrogò sua madre a casa, in compenso. Lei prendeva fin troppo sul serio il dovere di occuparsi della prole. Ogni giorno era terzo grado, con il consueto contorno di maledizioni alla vita, e al giorno e all’ora della nascita, di allusioni ai peccati di una fantomatica vita precedente che le avevano meritato un figlio sciagurato del genere, di “faresti scappare la pazienza a un santo” e di “vedrai quando sarò morta”. Egli quasi non l’ascoltava. Pensava se tentare lo stesso la sua dichiarazione, ma si avvedeva che sarebbe stata disperatamente ridicola. E del resto si era già ampiamente dichiarato, ottenendo che cosa?

Claudia e il suo bellimbusto erano sempre insieme. Adducendo a scusa le correnti d’aria, avevano chiesto e ottenuto di poter cambiare posto per essere vicini di banco. Perfino Marta s’era vista mettere da parte. Ma un giorno, circa due settimane dopo la ripresa della scuola, Candiani mancò all’appello.

“Dev’essergli capitato il solito malanno di stagione: speriamo che gli duri un bel po’”, pensava Paolo, che non aveva mai augurato del male a nessuno, prima di quel momento. Ella pareva sperduta senza il compagno, mentre Paolo sentiva il coraggio crescergli sempre più, col trascorrere della mattinata, e ogni tanto si voltava a guardare con soddisfazione il posto vuoto del rivale. Alla fine decise di arrischiarsi a parlarle: forse sarebbe stato crudelmente deriso, ma poteva sciupare un’occasione simile?

Come l’altra volta, dopo l’uscita da scuola, seguì la ragazza da lontano, finché non si trovarono fuori della vista dei compagni. Marta, delusa per il comportamento dell’amica, se n’era andata per conto proprio. Allungato il passo, Paolo si avvicinò all’oggetto di tutti i suoi desideri. Guardandola mentre camminava, sicura ed elegante, si sentiva colmo di tenerezza. Sapeva cosa dirle: il tempo e i tentativi falliti avevano fatto maturare in lui la coscienza del suo amore.

“Ciao, Claudia”, la salutò quasi con disinvoltura, mettendosi al suo fianco.

“Ciao”, ella rispose distrattamente. Paolo notò che camminava più svelta del solito.

“Claudia, è tanto che voglio parlarti… devo dirti che non conosco nessuna che ti somigli. Tu sei come l’aria che respiro.” Tacque, meravigliato di se stesso. Quelle parole gli parvero il culmine dell’eloquenza. Non ne avvertiva l’ingenua retorica, tanto scaturivano dal profondo della sua anima. Attese la risposta, che non si fece attendere:

“Ah, sì?”

Il cuore di Paolo si fece pesante.

“Forse non mi sono spiegato;” riprese, aggrappandosi a un’irragionevole speranza “Claudia, ascolta: tu sei tutto per me. Lascia quell’antipatico individuo e…”

La ragazza si fermò sui due piedi e, lanciandogli uno sguardo cattivo, sibilò con voce stridula:

“Sei matto?”

“Ma io ti voglio bene”, proruppe Paolo con passione, aveva voglia di piangere.

“Non so che farci”, rispose lei, riprendendo a camminare. Egli la seguì, e vide che non stavano facendo la strada che portava all’abitazione di lei. Stavano dirigendosi verso la periferia.

“Non vai a casa?” domandò.

“Vado per i fatti miei”, ribatté Claudia, aspramente, accelerando il passo.

Ed ecco sbucare da una strada laterale una bellissima auto sportiva color rosso fiamma, che si accostò al marciapiede vicino a loro. Da un finestrino si sporse la nera testa impomatata di Candiani.

“Non dovrebbe essere a letto?” pensò ingenuamente Paolo, stupito. Ma ad un tratto capì.

“Tesoro,” diceva intanto la testa impomatata “peccato che la tua vecchia abbia così poco spirito. Potevi venire con me. Sono arrivato fino a Bologna.” Poi parve accorgersi solo in quel momento dell’intruso e domandò, indicandolo con la mano: “Che fa quello lì?”

“Non me ne parlare. È da quando siamo usciti che mi viene dietro”, rispose Claudia, girando intorno alla macchina e aprendo lo sportello. Prima di salirvi, rivolta a Paolo, accennò alla fiammeggiante vettura, e con orgoglio, quasi fosse roba sua, esclamò: “Vedi: è nuova. Gliel’ha regalata suo padre per Natale. Bella, eh?”

“Siete tutte uguali!” il grido era sfuggito dalle labbra tremanti di Paolo prima ancora che se ne accorgesse.

Candiani assunse un’aria bellicosa, mentre Claudia, già mezza dentro l’auto, ne uscì fuori.

“Che vuol dire?” ringhiò a voce bassissima, furente, staccando le sillabe, anzi le lettere, l’una dall’altra”c-h-e v-u-o-l d-i-r-e?”

“Vuol dire… voglio dire… che sei detestabile.”

Lei impallidì, poi mormorò a voce bassa al compagno:

“E tu te ne stai lì come niente fosse?”

Candiani, chiamato a difendere l’onore della “sua donna”, scese e venne a piantarsi di fronte a Paolo.

“Cos’hai detto?” abbaiò.

Il ragazzo diede al rivale un’occhiata dal basso in alto. Ebbe paura, ma riuscì a dominarsi.

“Dico quel che mi pare” rispose, cercando di assumere un tono energico.

Un colpo violento gli esplose nel cranio. Si ritrovò con la faccia voltata di lato, stordito, senza respiro. Prima che potesse riprendersi, un altro pugno lo colpì. Poi la voce beffarda di Candiani:

“Ne vuoi ancora?”

Il sangue gli affluì violentemente alla testa. Sferrò un calcio che andò a vuoto. Fu colpito da un nuovo pugno al viso: la cartilagine nasale scricchiolò.

“Sta alla larga”. lo ammonì l’altro. Poi gli volse le spalle, tornando verso la macchina. Paolo, raccolta la cartella che gli era caduta, la scaraventò con tutte le sue forze.

“Attento”, strillò Claudia.

Candiani, voltatosi di scatto, fece appena in tempo ad assaggiare con la faccia il peso e la consistenza del proiettile. Paolo aveva sempre la cartella più pesante di tutte: si portava sempre dietro molti libri, e quella mattina c’era anche l’atlante, con una bella rilegatura rigida. Chi ha detto che la geografia non serve a nulla? Subito dopo, il bellimbusto ricevette un pugno nello stomaco che lo piegò in due per un momento. Ma praticava numerosi sport, e fu subito in grado di riprendersi. Tempestò l’avversario di colpi, e lo vide accasciarsi al suolo, sia pure a prezzo di un robusto calcio in uno stinco. Zoppicando, risalì in auto gridandogli:

“Morto di fame.”

Non potevano esserci dubbi sul vincitore, anche se Candiani dovette poi farsi medicare la faccia e una gamba.

Solo dopo che la sgargiante automobile si fu allontanata, Paolo riuscì ad alzarsi e si accorse che, a una certa distanza, s’era formato un capannello di curiosi. Rimase qualche istante appoggiato a un muro, poi trovò la forza per staccarsene, raccolse la cartella nella neve sporca e si aggiustò alla meglio la sciarpa, che gli era andata tutta di traverso.

S’avvicinava un vigile urbano. Quando lo vide, Paolo fu assalito da un’irragionevole paura. Attraversò di corsa la strada. Per poco non finì sotto un autocarro: lo stridore dei freni, la bestemmia del conducente, il fischio del vigile, furono altrettante sirene d’allarme per il suo cuore in tumulto. Anche i curiosi gli erano nemici; tutti, tutti, tutti i viventi, tutti, tutti quelli che respiravano. Con una folle corsa, riuscì a far perdere le proprie tracce.

Quando fu abbastanza lontano, si fermò a riprender fiato. Le gambe gli tremavano. Nella sua mente un turbinìo di pensieri, uno più amaro dell’altro: gli scherni, le percosse, l’umiliazione, Claudia che parteggiava assolutamente per quell’altro. Sentì il sangue gocciolare dal naso, il volto tumefatto, l’occhio pesto che gli faceva vedere momentaneamente tutto doppio. Si appoggiò ad un lampione e chiuse gli occhi. All’improvviso una voce estranea lo scosse:

“Guarda quello: quante ne ha prese.”

Due giovinastri dallo sguardo duro, sfrontato, passarono vicino a lui ghignando, deridendo il “signorino con la cartella”. Finse di non vederli, si ricompose più che poté, s’incamminò verso casa, ripulendosi col fazzoletto viso e cappotto, alla meno peggio.

E ora cosa avrebbe detto ai suoi? Per una confessione completa sarebbe stato necessario parlare del suo amore per Claudia, sempre gelosamente nascosto, ma gli faceva troppo male anche solo pensarci. Decise di esporre i fatti press’a poco nel modo in cui si erano svolti, tranne che per il motivo della lotta. “Una dimostrazione di pugilato,” avrebbe detto “spinta involontariamente troppo in là”. Era abbastanza credibile? chissà? “E poi ci siamo riconciliati; ci siamo chiesti scusa a vicenda; non è rimasto nessun risentimento”. Era vitale che sua madre non denunciasse il fatto al preside, che non ci fossero strascichi.

Appena lo vide, ella cacciò un urlo e lo investì:

“Cos’hai fatto? cosa ti è successo? chi ti ha conciato così? Disgraziato.”

Era talmente fuori di sé che dimenticò per un poco gli abituali improperi e maledizioni a se stessa, alla vita e all’universo mondo. Voleva sapere tutto, naturalmente. Il suo cuore materno sanguinava al vedere il figlio ridotto a quel modo.

Intanto la mente di Paolo lavorava. La scusa che aveva inizialmente architettato non reggeva ed era pericolosa. Avrebbe messo in moto un’inchiesta dagli esiti incalcolabili. Sua madre sarebbe andata a parlare col preside. Chissà che bomba sarebbe scoppiata. Idea: quei due giovinastri che l’avevano deriso per strada. Erano stati loro: intanto chi li avrebbe più pescati? chissà dov’erano a quest’ora?

“Calmati mamma, non è colpa mia. Sono stato aggredito.”

“Aggredito da chi? Parla, parla, presto.”

“Un momento. Aspetta che mi sieda.”

Inseguito dalla madre, raggiunse la sua camera, depose la cartella, che era un po’ sporca ma, essendo molto robusta, era uscita dalla lotta in condizioni molto migliori della sua faccia. Sì, e ora bisognava trovare un movente per l’aggressione. Stavano molestando una ragazza, ecco, stavano molestando pesantemente una ragazza. Nessuno interveniva. Le avevano già messo le mani addosso. Lui era intervenuto. Che eroe. —Ma che bugiardo. Normalmente era sincero, ma quello era un caso di emergenza. Non poteva dire la verità. Aveva un’indistinta paura che scoppiasse qualche scandalo, e soprattutto non sopportava l’idea che la storia di Claudia e del suo infelicissimo amore per quella svergognata circolasse più dello stretto necessario. Già immaginava che a scuola sarebbe stato impossibile nascondere la verità. Ma almeno che sua madre ne restasse fuori.

Sì, quella doveva essere la versione ufficiale ad uso e consumo della famiglia. Andò meglio di quanto immaginasse. Dopo il suo racconto frettolosamente messo insieme, sua madre lo bombardò di domande. Voleva sapere dove, come, quando, chi, perché e percome. Egli riuscì a mantenersi sulle generali. C’erano sì stati dei testimoni, ma non sapeva i loro nomi. Tutti sconosciuti. No, nessuno dei compagni era presente in quel momento. Altrimenti avrebbe potuto contare sul loro aiuto (“Stai fresco”, pensò). Sì, ne aveva prese tante, ma le aveva restituite con gli interessi. Uno dei due era andato via zoppicando sostenuto dall’altro che aveva la faccia insanguinata quanto la sua perché lui l’aveva preso in pieno un paio di volte. Quando ci si metteva, nemmeno lui scherzava. E la ragazza? Quella era scappata appena aveva potuto. No, non ci contava proprio che lo cercasse per ringraziarlo. Si era dileguata appena i due maramaldi avevano distolto l’attenzione da lei per concentrarla sull’eroico salvatore, Lancillotto con la lancia in resta, il cavaliere senza macchia e senza paura. Mentre sparava queste balle, cominciava quasi a crederci lui stesso, e la comicità della situazione lo aiutò a risollevare un poco il morale.

Il resto della giornata trascorse fra impacchi d’acqua vegeto-minerale e faticosi tentativi di eseguire i compiti nonostante tutto. Ma l’occhio nero era già quasi tornato alla visione normale: non vedeva più doppio se non molto leggermente e a tratti. Suo padre, quando fu informato da una concitatissima moglie di quanto era accaduto, fu molto orgoglioso di quell’eroico rampollo e gli regalò una piccola somma. Cosa ancor più straordinaria, per l’intera giornata sua madre non disse neppure una volta “vita maledetta”.

Quella sera andò a letto sperando di sognare Candiani espulso da scuola, privato della macchina e ridotto “a pan dimandato”. Purtroppo rivisse in sogno più e più volte, in un’accozzaglia di immagini slegate, la scena selvaggia della colluttazione; gli pareva di non poter fuggire: il vigile, i curiosi, l’autocarro, s’avvicinavano inesorabili, ed egli era come radicato al suolo. L’incubo lo destò con affanno tre o quattro volte nel cuore della notte.

Ma una volta riuscì a controllarlo. Come talvolta avviene, aveva coscienza di essere dentro un sogno. Ripetendosi incessantemente: “Sto sognando, sto sognando”, assunse il controllo dell’azione, volle trasformarsi in un mostro invincibile e sentì che stava assumendo le sembianze del Tyrannosaurus rex, la cui immagine campeggiava su quel volume di paleontologia che non aveva potuto comprare l’estate scorsa. Almeno in quella versione del sogno, Candiani non ebbe scampo. E in quell’istante gli parve di vedere Claudia in preda a un’acuta sofferenza: era incinta e stava per partorire, sola e senza aiuto.

Il giorno dopo era domenica. Paolo ebbe il tempo di finire i compiti e farsi sparire dalla faccia, con intense cure, una parte dei guasti. L’occhio era andato a posto del tutto come capacità visiva. Aveva solo un vistoso alone scuro, ma quello avrebbe impiegato un bel po’ a sparire. La messa fu anche l’occasione per confessarsi. Il sacerdote fu molto comprensivo:

“Caro ragazzo, non si dicono bugie, ma nel tuo caso lo hai fatto anche per far preoccupare il meno possibile la tua buona mamma (“come si vede che non l’ha mai vista in casa”, non poté fare a mano di pensare Paolo). Questa esperienza ti insegni a stare più attento in futuro. Non bisogna lasciarsi trascinare dalle passioni. È proprio ciò che il diavolo vuole da noi, e noi non vogliamo far contento il diavolo, vero? Per la tua penitenza, dirai tre volte il Gloria. E ora l’atto di dolore. Deinde ego te absolvo a peccatis tuis in nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. E non ci pensare più. Gesù ti vuole bene.”

Quello fu un grande sollievo, ma il ritorno a scuola, all’inizio, fu penoso. Candiani era là, tutto eretto, sprezzante, appena segnato dai colpi ricevuti, di cui sembrava si gloriasse. Nel solito assembramento davanti all’edificio prima del suono della campanella, stava raccontando per l’ennesima volta tutta la storia, un po’ riveduta e corretta. Per maggior scorno di Paolo, era venuto con la famosa automobile rossa, che faceva bella mostra di sé parcheggiata lì davanti.

Si capiva subito, vedendolo, che si vantava di aver “difeso” la sua ragazza. Claudia, con cenni del capo, confermava. Intorno al bel Carlo c’erano, fra gli altri, Motterini, il più maleducato e manesco della classe, che adorava simili racconti; Pampalini e Monticelli, due ripetenti come Candiani, di cui condividevano i gusti, se non le larghe possibilità economiche; la Pignardi, una ragazza sottile, bionda, ma di un biondo platinato e artificiale che sapeva di tintura da quattro soldi lontano un miglio, ed era gelida e scostante con tutti, tranne che con Monticelli, del quale era innamorata cotta, non ricambiata; e Giosuè Tartaro, che per una volta aveva messo freno alle sue chiacchiere per ascoltare con attenzione il grande pettegolezzo.

E Candiani a tutti indicava con grandi gesti: ecco l’automobile, quello là è il cretino che ho suonato a dovere, eccetera, eccetera. Quando si mosse, però, zoppicava visibilmente. Ad un tratto Paolo scoppiò a ridere, perché gli venne in mente un gioco di parole che, lì per lì, trovò irresistibile, e lo disse forte:

“È claudicante. Guarda un po’. Chissà perché?”

Tutti risero, anche quelli più tardi, che non avevano afferrato subito la connessione con il nome di Claudia, e che dovettero pensarci su un po’ prima di farci su una seconda risata. Risero anche quelli che un momento prima guardavano Paolo con curiosità mista ad un certo dileggio.

Candiani fece la faccia scura, e parve fare un movimento verso Paolo, il quale però, a quel punto era pronto a tutto. Per prima cosa gli avrebbe tirato un calcio nella gamba già sinistrata, e poi si sarebbe visto se il secondo incontro era destinato a finire come il primo. Anche la cartella, particolarmente dura e pesante, era pronta ad entrare in azione, non meno della batteria dei pugni. Ma le artiglierie non aprirono il fuoco, perché la campanella suonò proprio in quel momento, e Candiani, se non era proprio tirato nella mischia per i capelli, grande e grosso com’era, era solo un vigliacco.

Più tardi, durante la ricreazione, i compagni si affollarono intorno a Paolo per sentire la sua versione, che era semplicissima:

“Sono stato un cretino. Ho seguito quella là per… per parlarle, e ad un tratto è sbucato quel bellimbusto con il suo macinino di lusso. Aveva marinato la scuola. Non gli è piaciuto che seguissi ‘la sua ragazza’ e ce le siamo date di santa ragione. Càpita… agli uomini càpita di picchiarsi per questioni di donne. Non mi era mai successo. Ora faccio parte anch’io del club.”

Il racconto piacque più di quello di Candiani. In genere Paolo non era affatto popolare. I primi della classe non lo sono mai. Ma Candiani era ancor più antipatico. Non piaceva a nessuno. E per quanto nessuno sospettasse alcunché di simile, cominciava a non piacere neppure a Claudia, ora che la foia iniziale stava passando. A parte il fatto che, essendo ripetente, non apparteneva alla “vecchia banda”, quell’individuo suscitava un’invidia feroce, perché la ricchezza ostentata appariva ancor più desiderabile, e quindi più invidiabile, dei bei voti di Paolo, senza contare l’ulteriore carica d’invidia sfrenata per la magnifica conquista femminile. Nella gara dei cattivi sentimenti suscitati nell’opinione pubblica la splendida auto rossa e la chioma rosso-bruna di Claudia pesavano più di una pagella ricca di bei voti.

Quel piccolo mondo studentesco era in fermento, e quasi tutti parteggiavano per Paolo. Appena ebbe raccontato la sua versione, che in effetti non era del tutto completa, perché aveva omesso la sua provocazione, quel “siete tutte uguali” gridato alla ragazza, Paolo ricevette la solidarietà di molti compagni.

“Non prendertela,” cercò di consolarlo Belmonte, indicando Claudia con un moto del capo “non ne vale la pena.”

“Da tanto volevo dirti lo stesso,” confermò Falco “che vuoi ricavare da quella? Ha fatto la civetta con mezza classe. Cosa crede? che la bellezza non sfiorisca? Se ne accorgerà.”

“Certo, sono stato proprio cieco” rispondeva Paolo, ma in fondo all’anima l’amore, infangato, dileggiato, stentava a morire.

Ad inasprire la ferita, durante quella ricreazione, venne Tartaro. Il seccatore si unì a loro col suo solito vacuo sorriso sulle labbra. Interrompendo Falco che parlava, disse in tono di scherno, con una specie di nasale cantilena:

“Donati, mi hanno detto che hai preso delle botte.”

“Le ho anche restituite. Ne vuoi una razione anche tu?” Dopo quella violenta esperienza, stava rapidamente perdendo la timidezza, almeno per il momento.

“Non t’arrabbiare, dicevo così per dire. Potresti essere un po’ più gentile. Siamo amici, no?”

“Lasciaci in pace”, intervenne Belmonte.

“E tu che c’entri?”

“Levati dai piedi,” gridò aspramente Falco “chi credi d’essere? vieni sempre a strusciarti addosso a qualcuno, a fingere condiscendenza. Chi ti cerca? chi ti vuole? cosa ti manca?”

Paolo sentiva rinascere in sé la furia della recente lotta, mentre guardava i due litiganti. Falco aveva all’incirca la sua stessa corporatura, mentre Tartaro era anche più alto e massiccio di Candiani. Ma non accadde nulla. Suonò la campanella: era finita la ricreazione, e tutti rientrarono nelle classi, compreso Tartaro che, non essendo neppure lui un campione di coraggio (e poi erano in tre, con un’aria di chi non ha voglia di storie), preferiva in cuor suo che il litigio svanisse così.

La storia dello scontro continuò a circolare sempre più deformata, finché ci fu chi, in buona fede, credeva che Candiani avesse tentato d’investire Paolo con l’auto, e chi con la medesima buona fede, era certo che uno dei due fosse armato di un pugno di ferro —chissà quale? ma visto chi aveva riportato i maggiori danni sulla faccia, l’armato doveva essere quell’altro, quello con la bella macchina.

Il mormorìo si dilatò, passando dal chiuso delle mura scolastiche alle varie famiglie, cui gli studenti raccontarono, ognuno a modo suo, i fatti. Gli indaffarati genitori ebbero così materia di pettegolezzi, e molti espressero l’opinione che quel Donati —o come diavolo di chiamava —fosse davvero un mascalzone, e che Candiani si era comportato da ragazzo bravo e coraggioso. Si sparse la voce che Paolo fosse un tipo dai sensi troppo accesi, e quelli che avevano delle figlie sentenziarono che alle ragazze per bene conveniva evitarlo. E poi era così povero, vestiva sempre allo stesso modo, vestiti e camicie lise, sempre lo stesso cappotto rivoltato, puah. La sua famiglia viveva quasi come i barboni, e stava a galla solo grazie agli sforzi di economia di quella gentile, affaticata, sciupata, signora Donati. Una donna squisita, che nessuno aveva mai sentito alzare la voce, nessuno aveva mai udito pronunciare una singola parola che fosse men che cortese e angelica. Una santa, dicevano le sue amiche, con un figlio così difficile.

Nei giorni successivi, l’invidia per quell’antipatico di Candiani prese la forma di strisciante sabotaggio contro la mitica auto. Qualcuno cominciò a sfregare distrattamente una moneta metallica sulla smagliante carrozzeria, che si riempì ben presto di brutte righe, e il bel Candiani perdette l’abitudine di andare a scuola in auto. Paolo non ne era responsabile, ma non si può dire che la cosa gli dispiacesse troppo.

Ma la malignità del prossimo si sfogò anche contro un altro bersaglio. Paolo scoprì sull’ultimo banco della propria fila un rozzo disegno scavato col temperino. Una femmina nuda sotto cui erano incise le parole: “a Donati piacerebbe, ma è occupata”. Il sangue gli salì alla testa e comprese perché tanti compagni, nei giorni precedenti, durante la ricreazione, erano andati a contemplare quel banco che, sempre vuoto, non avrebbe dovuto interessare nessuno, e ridevano. Con le unghie, rabbiosamente, cercò di cancellare disegno e scritta, strappando il duro strato di vernice nera. Un frammento gli si conficcò sotto un’unghia. Un dolore acuto.

Corse a farsi prestare un temperino da Andrea Falco, che aveva sempre tutto, e poté così distruggere totalmente l’anonimo capolavoro. Trasportato da un’ingenua indignazione, vi scrisse sotto, graffiando la vernice:”chi fa queste porcherie, abbia il coraggio di firmarle”.

Ma se gli autori della distrutta opera d’arte l’avessero firmata, Paolo si sarebbe stupito nel leggere, accanto al nome di Tartaro, che sapeva capacissimo di simili atti, anche quello di Giovanni Zanelli, per il quale provava una certa simpatia, e che era invece uno dei suoi peggiori nemici, e continuava a ripetere, ad ogni propizia occasione:

“Donati oggi ha dato spettacolo.”

Non aveva mancato di raccontare in casa solo la versione di Candiani, ulteriormente peggiorata a danno di Paolo, che, a quanto sembrava, si era permesso di mettere le mani addosso a Claudia in un tentativo di violenza carnale, o quasi.

Succedeva sempre qualcosa di eccitante in quelle brevi ricreazioni, e anche quella volta Paolo tornò al suo posto, tremante per la tempesta che quel disegno e la velenosa scritta aveva destato in lui.

Il suo rendimento risentì di queste scosse. Un suo cinque, in un compito in classe di latino, fece esultare molti nell’ombra, ma fu un bene, perché lo obbligò a concentrarsi nello studio, strappandolo ai suoi pensieri amari. Ben presto, i suoi voti risalirono alla consueta quota di crociera fra il sette e il nove.

Un conforto inaspettato gli giunse da Marta, l’amica, anzi l’ex amica di Claudia. Tra le due ragazze era sorta una fiera inimicizia per causa del bel Candiani, il quale, dopo una corte serrata a Marta, poi abbandonata perché troppo seria per i suoi gusti, aveva inciampato nell’altra, con miglior fortuna. E l’altra non si era lasciata sfuggire l’occasione di vantarsi della “vittoria” con le compagne.

“Se tu sapessi tutto quello che so io di Claudia… altro che rimpiangerla” ripeteva Marta a Paolo, e gli raccontava dettagli tutt’altro che edificanti. Ascoltare tali parole fu dapprima sgradevole per lui. Ma ben presto si persuase che, tutto sommato, era andata bene così. Ben peggio sarebbe stato se quella specie di arpìa dal bel viso e dalla bella chioma avesse corrisposto alle sue attenzioni. La triste delusione cominciò a impallidire tra i ricordi.

Ma per Paolo non sarebbe stato mai più tutto come prima. Il suo mondo fantastico e dorato dileguava. I sogni ad occhi aperti sempre più rari e sbiaditi, la realtà dei fatti e il bisogno assoluto di adeguarvisi sempre più evidenti e inevitabili. Senza che egli se ne rendesse conto, un oscuro senso di angoscia aveva messo radice in lui: la paura dell’amore, la paura di affezionarsi, d’essere ancora una volta debole e cieco, alla mercé degli altri, delle loro cattiverie, dei loro scherni.

 


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