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Una settimana dopo, Berlino Est insorgeva. Il grande autocrate che faceva tremare il mondo era miseramente morto. Chissà se lo avevano assassinato i suoi più stretti collaboratori, che temevano di finire fucilati o in Siberia come tanti prima di loro? Comunque non c’era più, e il castello aveva subito cominciato, come si dice, a “tirare sassi”, cioè a mostrare segni di sfacelo. Mancavano ancora molti decenni al crollo finale, ma la gente nel “paradiso dei lavoratori” cominciava ad alzare la testa.

Tante, troppe cose s’erano messe a marciare a rovescio per il vecchio Viviani, che non si capacitava come il processo storico avesse simili soprassalti all’indietro, e perché il sole dell’avvenire tardasse tanto a sorgere.

“Questi tedeschi” imprecava “sempre i soliti. Troppo bene li hanno trattati. Non uscirà mai niente di buono dai tedeschi.”

Alberto aveva ben altro per il capo. Venne a sapere da padre Giuseppe che era in progetto una nuova missione in Africa centrale. La sua offerta di mettersi a disposizione dell’ordine per i lavori venne accolta con gioia.

“Carmelitis da privilegium”, si leggeva sotto un’antica statua di San Simone Stok, un inglese, uno dei maggiori santi dell’ordine. Alberto si chiedeva quale privilegio potesse desiderare quel frate dall’aspetto austero, e a chi lo chiedesse. Forse al Papa?

Fu padre Giuseppe a raccontargli la storia, che era assai più straordinaria di quanto Alberto avesse immaginato. L’ordine carmelitano era in origine formato da un gruppo di eremiti dediti alla venerazione della Madonna, insediati sul monte Carmelo, in Terrasanta, intorno al 1160, presso la caverna che aveva ospitato il profeta Elia. In seguito alla riconquista musulmana della Palestina, il convento sul Carmelo subì incendi e massacri. I monaci superstiti si trasferirono in Inghilterra, e qui trovarono ad attenderli San Simone Stok che, profeticamente, sapeva del loro arrivo e, nell’attesa, aveva cominciato per conto proprio a praticare la vita eremitica. San Simone divenne superiore dell’Ordine, ma questo non era che un debole gruppo. La storia che segue è di quelle che atei e cattolici “progressisti” tendono a ignorare o a trattare come “leggende”: il santo pregò la Vergine di dargli un segno; questa gli apparve nel 1251 e gli ordinò di istituire lo scapolare, una versione ridotta del grande scapolare portato dai carmelitani, e destinato ai laici.

I portatori di questo piccolo scapolare (che non può venire semplicemente indossato, ma dev’essere imposto da un sacerdote carmelitano con apposita cerimonia di consacrazione) diventavano (e diventano), pur restando laici, membri della grande Famiglia carmelitana. Per grazia divina, erano (e sono) loro promessi grandi benefici spirituali. La devozione dello scapolare, confermata e incoraggiata da diversi Papi, assicurò alla Famiglia una crescita senza precedenti. Se altri Ordini si distinsero per gli impulsi allo sviluppo economico e per le attività caritative, quello carmelitano diede, attraverso la devozione alla Santa Vergine, promossa grazie a San Simone Stok, un potente contributo alla fratellanza nella Cristianità. La devozione dello scapolare, infatti, si diffuse in tutta Europa, e intere nazioni, prima fra tutte la Spagna, ne divennero universalmente portatrici.

“Che cosa meravigliosa”, pensò Alberto, “se solo un piccolo pezzo di stoffa ha tanta potenza, grazie alla benedizione della Madre di Dio”. Sentì uno struggente desiderio di rivestire un giorno anche lui l’abito glorioso che distingueva quell’Ordine. Non gli bastava più essere un laico che aiutava dall’esterno.

Gli oggetti usuali, le strade ben note, le piccole cose cui l’abitudine aveva tolto ogni attrattiva, tutto ora sembrava chiamarlo: “Resta qui. Lei è morta. Non la farai rivivere andandotene via. Qui è stata la tua infanzia, là passeggiavi con la tua prima ragazza. Perché vuoi lasciare tutto? Cosa importano le idee? Pensa a te. Tu sei vivo e lei è morta”.

“No, lei è viva, non so come, ma lo è. E io non ho più niente da fare qui. Vade retro. Non mi farai deviare dalla mia strada”.

Allora il tentatore lo lasciò e andò da suo padre. Qualcuno sussurrò parole di delazione al vecchio, che un giorno affrontò suo figlio:

“Da quando in qua ti piace il fumo delle candele?” Il tono era beffardo, sarcastico, di colui che è abituato a dominare.

Alberto sapeva che prima o poi sarebbe giunta l’ora della spiegazione, ma fu colto ugualmente impreparato. Strano, per un momento si sentì quasi in colpa.

“Non ci volevo credere quando me l’hanno detto. Di me hanno riso, di Giovanni Viviani. Certi sguardi, certi sorrisetti… Inginocchiato… Mio figlio in ginocchio davanti a un prete, a un frate… E non parli. E non ti difendi.” La voce s’era fatta cupa, minacciosa.

“La mia candidatura…”, pensava furente suo padre. Aveva il sospetto… Macché sospetto, la certezza, che proprio l’improvviso “tradimento” del figlio avesse impedito la sua elezione, già data per sicura, facendogli perdere una valanga di voti di preferenza. Non era di certo come nelle campagne, dove i rapporti personali più stretti e la minor importanza politica dei centri rendevano possibili i più curiosi compromessi. Questa era la città, il capoluogo. E, a quanto pareva, la perfetta organizzazione capillare del partito, la fulminea trasmissione delle notizie da una cellula all’altra, avevano funzionato contro di lui.

Intere sezioni lo avevano disertato a vantaggio di un compagno, un astuto avvocato, un parvenu figlio di un salumiere, eletto così al suo posto. Il suo posto, il suo posto, quello che gli apparteneva di diritto. Una persona di bassa estrazione gli avevano preferito. Per le sbandierate convinzioni egualitarie di Giovanni Viviani quella era come una sassata in un branco di oche. E poiché questo era ciò che gli bruciava di più, si guardava bene dal parlarne. Tutta la sua ira si riversava sull’aspetto “morale” della vicenda, sulla “deviazione” dai sacri principi.

Cercando faticosamente le parole, Alberto prese a descrivere quello che aveva provato dopo la morte di Lucia. Il suo sguardo sfuggiva quello del genitore, finché si fissò su un solo particolare: una mano che suo padre teneva appoggiata al bracciolo della poltroncina imbottita su cui sedeva. Ad un tratto fu come se quell’arto fremesse di vita indipendente, si contrasse tremando e affondò le unghie ben curate nel velluto. Lo sguardo di Alberto passò da quella mano al volto del grand’uomo, immobile, inespressivo, e di nuovo alla mano, muta, rattrappita, che sembrava animata da volontà propria, pareva voler stroncare qualcuno.

Le parole del figlio giungevano a Giovanni Viviani da una distanza siderale. Nulla di simile aveva mai sentito. Possibile che un po’ di solitudine, di malinconia, di desideri insoddisfatti, potesse tanto sull’anima dei giovani? Cercò di richiamare alla memoria com’era lui all’età di Lucia, o di Alberto. Ma ricordava solo una grande ambizione a diventare importante, a dominare. Una sorda irritazione lo invadeva, e come l’ombra di un remoto spavento.

Che gli altri avessero ragione? Per un attimo gli parve di comprendere il figlio. Quasi sentì la sua stessa ribellione contro tutto quel mondo che da anni lo circondava, contro la legge che egli medesimo s’era imposto: il successo per il successo, a qualunque costo, al prezzo… Quale? di vendere l’anima? Sì, anche quello, se avesse creduto nel diavolo. Ma non ci credeva, non poteva vederlo. Gli era troppo vicino.

Giovanni Viviani aveva superato l’età dei cambiamenti e delle conversioni. Quella luce appena balenata lo atterriva. Meglio le tenebre, dove la sua anima poteva nascondersi. Rimettere tutto in discussione? e, proprio alla fine, ricominciare da capo? Volle reagire, dire, gridare qualcosa che riaffermasse la sua autorità:

“Dunque sei un disertore? Speravi di convertire anche me? Volevi che diventassi un baciapile anch’io?”

“Baciapile,” ripeté Alberto con un tremito nella voce, e fu come se avesse ricevuto uno schiaffo, come se quella parola volgare lo avesse liberato da ogni soggezione di fronte al padre “perché baciapile? È un delitto pensare con la propria testa? Io non ho mai sognato di convertirti, ma tu non puoi proibirmi…”

“Tu farai quello che ti dirò. Le donnette possono votare falce e martello e andare in chiesa. Noi no, nella nostra posizione…”

“La nostra posizione… la nostra posizione… cos’ha giovato a Lucia, la nostra posizione?”

“Basta,” gridò il signor (compagno) Giovanni Viviani, gonfio d’ira, sentendosi ripreso da quel vago malessere appena scacciato, non appena sentiva il nome della figlia “basta. Tua sorella… non si rendeva conto… cosa dovevo fare ancora per lei? Necessario e superfluo ha avuto, quello che tanti non si sognano mai in tutta l’esistenza.”

“Ma la speranza in una vita futura, una vita dove non occorressero stampelle per camminare: questo le è mancato. Le era concessa solo questa vita, e questa vita era un inferno.”

Tutti e due tremavano, ora. Alberto considerava con stupore la propria rivolta contro il padre. Questi, con altrettanto stupore, quel figlio, fino allora così docile, che gli sfuggiva irreparabilmente, come Lucia. L’unico impulso che emergeva nella confusione dei suoi pensieri era quello di respingere in blocco ciò che aveva appena udito.

“Cosa dici? Ah, sì… la vita era un inferno per Lucia… e i tuoi preti l’avrebbero guarita?”

Alberto non rispose subito. Un’opprimente sensazione lo soffocava, difficile da esprimere. Distacco, disfacimento, crollo: le parole che più vi si adattavano. Ricordi dell’adolescenza, ormai sepolti, riemersero d’improvviso: suo padre in orbace, e poi la grande paura, le visite frettolose e clandestine, i contributi versati ai partigiani, il rovesciamento di fronte, il costruttore di fortini per la Todt trasformato nell’edificatore delle “case del popolo”. Su questi fondamenti si reggevano i saldi principi, gli ideali di suo padre, solo adesso se ne rendeva conto. Non aveva mai visto le cose sotto questa luce: sapeva già quelle cose, è vero, ma gli erano sembrati inevitabili adattamenti dettati da circostanze avverse. Sebbene avesse già deciso di andarsene, solo allora gli apparve chiaro che in quella casa non c’era più posto per lui.

“Non posso continuare su questa strada” affermò, quasi parlando a se stesso, seguendo il filo dei propri pensieri.

“E allora vattene” fu la risposta, un urlo pieno d’ira “vattene. Chi ti tiene? Cosa me ne faccio di un figlio che mi sta davanti come un… ? come un… ?” voleva dire “come un giudice”, ma non poteva.

La porta dello studio si aperse. Apparve la madre di Alberto.

“Cosa c’è?” domandò allarmata “perché gridate?”

“C’è… c’è che noi, disgraziati, non abbiamo allevato dei figli, ma dei nemici. C’è che, a sentir lui, Lucia quasi quasi l’abbiamo ammazzata noi.”

La signora Viviani rimase in silenzio. Si sforzava di cambiare il corso dei propri pensieri: le faceva troppo male sentir solo nominare la figlia. Ma in quel momento la sua mente era vuota, a parte il dolore. Se fosse stata un poco di più insieme a lei, se almeno avessero pianto insieme… Ma finché restava un pensiero inespresso, riusciva a dominarlo, come chi avverte un dolore sordo e non sa ancora della malattia che avanza nel suo corpo. Ora però l’accusa aveva preso forma. Si aspettava che il figlio ripetesse anche a lei quel tremendo rimprovero. Alberto taceva. Ma quel silenzio era intollerabile. Allora fu lei a romperlo:

“È vero. Sì, sì, sì, è vero. L’abbiamo ammazzata. Non si può vivere di beni materiali soltanto. Non lo possiamo noi, come poteva riuscirci una nelle sue condizioni? Darei la mia vita per poterla avere ancora un giorno solo con me. E non mi perdonerò mai di non essere stata di più con lei e di non averle voluto abbastanza bene, come dovrebbe fare una buona madre: amare di più le sue creature più deboli. A te piace solo la forza. Che Stalin e tutti quelli come lui vadano all’inferno. Anzi ci vanno già senza che io glielo auguri. Io me ne vado da questa casa.”

“Anch’io”, annunciò con fermezza Alberto. E uscì dalla stanza dietro a sua madre.

Il grand’uomo restò lì, incredulo. Davanti a lui uno sfacelo quale non aveva mai sognato, neppure nei suoi peggiori incubi. Si alzò con fatica, estrasse una bottiglia di vodka da uno stipetto e se ne versò un generoso bicchiere.

Non più di un’ora dopo, raccolti alcuni effetti personali in una valigia, Alberto uscì per sempre da quella casa, a chiedere asilo al convento carmelitano. Sulla porta della villa lo salutò la madre piangente, che a sua volta si stava preparando a cercare rifugio presso una delle figlie che vivevano a Milano, e alla quale aveva già telefonato, annunciando il proprio arrivo. Anche la cameriera era in lacrime e aveva chiesto e ottenuto di accompagnare la padrona.

Il padrone di casa, intanto, dopo il quinto bicchiere, era crollato in un sonno profondo, il capo appoggiato alla scrivania dello studio. Sognava la sua vittoria elettorale, i compagni osannanti, lui che li arringava da un balcone mentre sorgeva il sole dell’avvenire. E d’improvviso il sole cominciava a scottare orribilmente, e l’intera scena si accartocciava e si anneriva come un foglio di carta investito da una fiamma.

La notizia incredibile si propagò ben presto. Il signor (compagno) Viviani, abbandonato dalla moglie e dal figlio dopo il suicidio della figlia, non era più lui. Si trascinava malamente, cercando di far finta di nulla, con la cravatta di traverso, la camicia in disordine, sempre un po’ alticcio. Non riusciva a seguire quanto gli veniva detto, dirigeva i lavori alla bell’e meglio. Non si sapeva se mai avrebbe potuto riprendersi. I commenti della gente andavano dalla soddisfazione maligna, allo stupore, alla compassione. Ma lui non ascoltava, e se qualche parola gli giungeva all’orecchio, sembrava non curarsene più.

Paolo non ne parlò con nessuno. Era particolarmente apatico. Il dolore per la morte di Lucia scavava nel profondo della sua anima, anche senza alcun fatto nuovo a ricordargliela.

Gli avvenimenti di quei giorni: la morte di Stalin, le elezioni in Italia, l’insurrezione di Berlino, la tregua in Corea, lo lasciarono indifferente. E così pure ciò che accadeva alla porta di casa sua: il trasloco dei Viviani e l’arrivo, in vece loro, di due arcigne zitelle che, incontrate nell’atrio e nell’ascensore, ricambiavano a malapena il saluto.

Ciò che l’aveva sconvolto fin nel profondo dell’anima era la scoperta della morte. La notte, sgomento, si domandava: “cosa ci sarà laggiù?”, e gli pareva di vedere Lucia, pallida, immobile, su quel letto, oppure seduta sulla poltrona mentre si sforzava di sorridere. Egli pregava Dio che gli concedesse un po’ di quiete. Ma tutto era scolpito nella sua memoria, e non si cancellava. Spinto all’estremo dall’angoscia e dall’insonnia, non gli restava che pregare, non più per sé, ma per lei, perché potesse trovar pace. Pregando per Lucia si sentiva meglio. Allora il sonno veniva.

Passarono gli esami di luglio, passò l’estate, una delle più tediose della sua vita.

Cominciò il secondo anno. I suoi compagni mormoravano che sarebbe stato pesantissimo, a causa dell’esame biennale di anatomia umana normale. Ed ecco di nuovo il cranio pelato e la faccia da idolo polinesiano, ora abbronzatissima, del professor “Kon-Tiki”. Ecco il volto sfiduciato, acceso a volte da lampi di risentimento e di malignità, del dottor Frontoni, che aveva dovuto ancora una volta rinunciare alla speranza d’esser presto libero docente.

Erano ormai trascorsi molti mesi dalla morte di Lucia, quando Paolo trovò finalmente la forza di ascoltare i dischi. Li ascoltava di rado, in silenzio, chiuso nella sua camera, perché sua madre non sopportava la musica e cominciava a inveire. Le rare volte che lei non c’era, perché occupata a fare la spesa o in visita da qualche amica, Paolo osava ascoltare un disco. Gli veniva spontaneo alzare il capo, cercando Lucia, come per domandarle che ne pensasse di quel pezzo. Ma lei era presente solo nel suo spirito.

Egli adorava la composizione preferita da Lucia: la Quarta Sinfonia di Brahms. Non poteva ascoltarla senza una commozione dolorosa, come se un liquore magico, che lo esaltava e lo abbatteva al tempo stesso, fosse penetrato in lui. E più il male aumentava, più lo assaliva il desiderio di riudire quelle note, di farle ancora una volta riecheggiare dentro di sé.

Finì l’anno 1953, che era stato decisivo per tutto il mondo, nonché per alcune persone viventi in una piccola città dell’Emilia. Poco dopo, Paolo smise di andare con regolarità a messa. Per abitudine usciva di casa la domenica mattina, ma più spesso finiva per compiere una semplice passeggiata. Pregava solo quando il ricordo di Lucia gli toglieva il sonno.

Ricominciate le lezioni, il dottor Frontoni ebbe modo di notare “un certo Donati” che nel laboratorio di anatomia microscopica sembrava lavorasse piuttosto bene e, dopo averne parlato col principale, concesse a Paolo l’insperato onore di entrare nell’istituto come allievo interno. Egli era fiero di quell’incarico, e lo compiva coscienziosamente, lavando vetrini e affannandosi in altri piccoli servizi, e guadagnandosi l’immancabile invidia di molti compagni che non trascurarono di fargli ogni tanto qualche dispettuccio.

Paolo s’immergeva nello studio e non badava a nessuno. I mesi volavano. Alla fine del secondo anno superò tutti gli esami, tranne la monumentale anatomia umana normale, che preferì lasciare indietro per prepararla meglio per la sessione autunnale.

Ed ecco, la città fu di nuovo agitata da una notizia esplosiva: Claudia Maltese, la bella, l’orgogliosa Claudia, era stata vista a Bologna, in una “casa”, di quelle che, qualche anno più tardi, avrebbero attirato l’amorevole attenzione della senatrice Merlin.

Tacere, non far commenti, era divenuta ormai la regola di Paolo, e infatti non aprì mai bocca in proposito, quando in sua presenza qualcuno accennava a quell’infelice. Altri tempi: Claudia era un’ombra lontana che gli ispirava pietà. E con la pietà un profondo timore. “Che trappola l’esistenza;” pensava “un errore, una disattenzione, uno scherzo della sorte: ed è la fine”.

 


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