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Si diceva che fosse ricchissima. Abitava in una villa sulla Riviera adriatica, sola con due cani da guardia e una cameriera vecchia e sorda. Aveva sempre ignorato i parenti poveri, e i giudizi sul suo conto erano di solito assai aspri.

La signora Aurelia, dal canto suo, non aveva più l’età in cui ci si lascia facilmente turbare dall’opinione altrui. Inoltre avrebbe potuto dire a sua discolpa:

“Non sono neppure una vera sorella di quella pappa molla di Anselmo. Nostro padre si è sposato due volte. Io sono figlia di primo letto, lui di secondo. E poi chi si è mosso quando ho avuto quella specie di infarto? Già, con l’arpìa che ha sposato…”

Ma viene il momento in cui un’anziana signora senza figli desidera conoscere quelli dei parenti. Fu così che un giorno arrivò a casa Donati una bella lettera della zia che invitava il nipote per qualche giorno nella sua “casetta”.

Paolo era intimorito. Non aveva mai viaggiato. Andare così lontano? chissà cosa lo attendeva laggiù? Ma sua madre rizzò subito le antenne: una parente ricca priva di eredi? una possibile miniera d’oro? e la vecchia non aveva altri con cui mettersi in contatto, se non loro?

“Ma che razza di deficiente sei;” apostrofò amorevolmente il figlio diletto “ma sei proprio un imbecille, una bestia gramma. La pazienza di Giobbe ci vuole con te. Fila a prepararti senza discutere. Come farai senza di me? Lo so cosa pensi: che vorresti liberarti di me. Vedrai, vedrai quando sarò morta. E smettila di guardarmi con quella faccia da idiota. Guai a te se non vai. È un’occasione coi fiocchi, e tu te la lasceresti sfuggire? E muoviti, idiota.”

Le affettuose esortazioni materne, che per lei erano l’unico modo per scuotere quel figlio un po’ ritardato e che costava tanto all’esiguo peculio raccolto con tanto amore, non restarono senza effetto.

Paolo fu commosso nel vedere la figura di suo padre, che l’aveva accompagnato alla stazione, farsi sempre più piccola e sparire. Era la prima volta che si separava dai genitori. Sedette in un angolo della vettura e restò a guardare la pianura emiliana che fuggiva dinanzi ai suoi occhi. Ad un tratto fu preso dal timore di mancare la stazione d’arrivo e di finire chissà dove, con pochissimi soldi. Superando la timidezza, pregò una signora anziana, seduta vicino a lui, che consultava continuamente l’orario ferroviario, di avvertirlo in tempo.

Vedendo quel ragazzo così sperduto, la sconosciuta sorrise e gli domandò quanti anni avesse. Fu stupita della risposta: venti. — Lei non gliene avrebbe dati più di quindici o sedici. Il resto del viaggio passò in tranquilla conversazione. Come spesso accade ai timidi, una volta preso l’avvio, finì per raccontare quasi tutto di sé. Gli spiacque dover abbandonare la compagna di viaggio, che proseguiva per Ancona. Quando fu disceso dal treno, s’accorse di non averle neppure chiesto il nome: ne fu mortificato.

E ora? La gente andava e veniva, con pacchi, con valigie, passava urtandolo senza riguardi. Il treno stava ripartendo. Sul marciapiede della stazioncina, Paolo non vedeva una sola faccia conosciuta. Ebbe voglia di tornare a casa.

Una vecchia grinzosa gli si avvicinò:

“È lei il signorino Donati?” articolò con voce gracchiante.

“Sì.”

La vecchia non comprese, e Paolo ripeté accennando col capo.

“Venga con me, allora”, e gli prese la valigia.

“Ma no, ma no”, esclamò Paolo sconcertato, e gliela tolse di mano.

Usciti dalla stazione, si avviarono sotto il sole verso la casa della zia. Egli s’aspettava una grande villa. Non era invece che una casetta a due piani, imbiancata a calce, col tetto in mattoni rossi e le persiane verdi, circondata da un giardinetto, in cui due piccoli cani cominciarono ad abbaiare. Non sempre la distanza rimpicciolisce le cose.

Dal di dentro una voce energica fece tacere i cani. Poi dei passi sulla ghiaia del giardino, il rumore di una chiave che girava. Il cancello verniciato di giallo si aperse, e la zia apparve.

Era alta, vestita di scuro, con il viso allungato, severo. Guardò il nipote intimorito, guardò la vecchia cameriera:

“Perché ha lasciato che portasse la valigia? Non vede com’è pallido?”

La donna comprese dal movimento delle labbra e protestò debolmente, ma la zia Aurelia non l’ascoltava:

“Vieni a vedere la tua stanza”, ordinò a Paolo.

Quel giorno fu meraviglioso per lui: la casetta ospitale e le gentilezze della zia lo conquistarono. Ella insistette perché andasse a riposare dopo pranzo, poi se lo portò a spasso per il paese, presentandolo come una gloria della famiglia.

“Il costume da bagno ce l’hai?” gli domandò, a un certo punto.

“No,” rispose Paolo, imbarazzato, chissà perché “veramente il mare, finora, l’ho visto solo in cartolina.”

“Poverino, tutto il tempo sui libri. Be’, senti il mio programma: prima di tornare a casa per la cena andiamo subito a comprare il costume, anzi ne compriamo due, poi prendiamo un bel gelato sulla passeggiata, così potrai vedere il mare.”

La scelta nel negozio fu rapida.

“Se non sai nuotare, non preoccuparti: alla spiaggia troverai qualche bella ragazza che t’insegnerà.”

Camminavano per la strada elegante, alberata, tutta pensioni e alberghi: la nuova via principale. Parte del paese, al contrario, era ancora composta di vecchie case e villette. A Paolo parve assai strana tutta quella gente al passeggio, così eccentricamente vestita. E, soprattutto, così poco vestita. Certe esibizioni di corpi femminili, cui non era abituato, lo turbarono.

Il mare. A una svolta apparve, azzurro, immenso. Dapprima non ne fu troppo colpito. Ma al bar, seduto dinanzi ad esso, a poco a poco si sentì penetrare da un senso di sconfinata libertà: sognò terre meravigliose al di là dell’orizzonte, nascosti tesori, la quiete profonda degli abissi. Il gelato nel frattempo era divenuto un brodino.

Quella sera andò a letto eccitato dalle troppe novità e non riuscì ad addormentarsi subito. Rimase a sognare ad occhi aperti, come da tempo non gli accadeva più. Il ricordo di Lucia, sempre vigile accanto a lui, non era troppo doloroso. Infine andò ad affacciarsi alla finestra: il cielo era sereno, le stelle luccicavano come diamanti. A un tratto l’incanto fu rotto dagli urli di un juke-box, e quella fonte di inquinamento acustico sembrava inesauribile.

Turandosi le orecchie, Paolo stette a contemplare quell’immensa legione di astri a incommensurabili distanze, di fronte a cui non solo lui stesso, ma l’intera umanità era nulla. Sotto quel cielo impassibile, nell’udire suo malgrado il frastuono del juke-box e le grida sguaiate di quelli che ci si divertivano intorno, e che non sapevano neppure che al mondo esistesse un Paolo Donati, egli si sentiva una goccia sperduta nell’oceano. Qualunque cosa gli fosse accaduta, il mondo avrebbe continuato a girare. Non fu intimorito da questa idea.

Il mattino dopo si svegliò presto: era appena giorno. Riaprì il balcone e scoperse con piacere che di là si vedeva una striscia di mare fra le case. Disceso in cucina, vi trovò la zia e la vecchia serva sorda che si davano da fare ad apparecchiare la tavola.

“Bravo;” lo lodò la zia “non mi piacciono quelli che poltriscono a letto.”

“Tu non vieni alla spiaggia?”

“Verrei volentieri, ma il medico me l’ha proibito. Ma non aver paura: non sarai solo. C’è una compagnia di giovani abbastanza per bene che abitano qui vicino. Conosco i loro genitori, gente di Bologna che viene sempre qui d’estate.”

Paolo si sentì a disagio all’idea di trovarsi in un ambiente che non conosceva, insieme a coetanei altrettanto sconosciuti. La solita invincibile timidezza del ragazzo che non aveva mai sporto la “proposcide” fuori di casa, per il sacrosanto timore della “Salvatrice” di restare “a pan dimandato”.

Invece tutto andò bene. Quando la brigata passò chiassosamente, come ogni mattina, davanti al cancello, la zia uscì, tirandosi dietro il nipote, lo presentò a tutti e lo mandò via con loro.

Erano più giovani di lui. C’era un ragazzo diciottenne, scuro di capelli e di carnagione, che recava l’attrezzatura per la pesca subacquea. Come Paolo venne ben presto a sapere, apparteneva a una famiglia nobiliare assai ricca. Se ne stava leggermente in disparte, con aria annoiata. Senza sua colpa, gli avevano messo a nome Isidoro.

Gli altri sembravano più alla buona. Una ragazzina minuta, dai capelli castani e gli occhi celesti, non ancora quattordicenne, che aveva già vinto diverse gare di nuoto: un ragazzo biondo e altre due ragazze che dapprima non parvero a Paolo gran che interessanti.

Tutti, tranne Isidoro, lo tempestarono di domande. Le ragazzine ammirarono molto il suo “coraggio” e gli chiesero se la vista dei morti fosse proprio terribile. Il marchesino Isidoro se ne uscì:

“Poh, io ne ho visti dei cadaveri. Che impressione volete che facciano? baccalà sembrano.”

Paolo si sentì urtato. Perché quello non rispettava i morti? Chi non rispetta i morti, tanto meno rispetta i vivi. Ma non ebbe il coraggio di rimbeccarlo. Erano tutti più giovani di lui, è vero, ma al suo confronto erano degli esperti che conoscevano il mondo. Come tutti i “parenti poveri”, ospitati per carità ogni tanto da chi non aveva alcun obbligo, come tutti quelli i cui genitori non possono o non vogliono mettere i figli sullo stesso livello degli altri, che li tengono chiusi in casa, perché “non si sa mai”, e per non finire “a pan dimandato”, Paolo si sentiva acutamente a disagio. Gli altri avevano genitori che li portavano regolarmente in vacanza. Erano al loro posto. Lui era un esterno, un estraneo, o, come si cominciò a dire quando i neologismi anglosassoni dilagarono nella lingua di Dante, un outsider, o meglio ancora un disadattato.

Arrivarono allo stabilimento balneare. Premurosamente, la zia gli aveva prenotato una cabina. Fu quasi con vergogna che, solo nella penombra, si spogliò per indossare il costume da bagno. Ne uscì temendo che ridessero di lui, ma nessuno fiatò. S’inoltrarono nella spiaggia affollata, alla ricerca di un posto. Quando sedettero, Paolo sostenne una specie di lotta interiore se mettere o no il berretto di tela datogli da suo padre perché non prendesse troppo sole sulla testa. Ancora una volta temeva di apparire ridicolo. Una delle ragazze che gli erano sembrate insignificanti lo stava guardando, mettendolo un po’ in soggezione. “Perché non guarda qualcos’altro?” si domandava, fingendo d’interessarsi ai futili discorsi del gruppo.

“Cos’aspetti a ficcarti in testa quel coso?” Paolo si voltò di scatto. L’“insignificante” creatura continuava: “io ho avuto l’insolazione una volta; non ti consiglio di provarla.”

Egli s’affrettò a seguire il consiglio. Quell’intervento capitava a proposito. La testa aveva già cominciato a dolergli un poco.

“Non ricordo il tuo nome”, mormorò.

“Giulia. Gulp, ora me la prendo io che prédico agli altri”, e si coperse il capo con un fazzoletto.

Paolo la trovò buffa e rise: era una piccola soddisfazione poterlo fare quando temeva tanto che gli altri ridessero di lui. Ma Giulia non si offese. Anzi, scoppiò a ridere anche lei. Nella mente di Paolo cominciava a farsi strada l’idea che stare in compagnia non è poi tanto spiacevole.

“Quella parola che hai detto prima, com’è?”

“Ah, gulp? Ma non leggi Topolino?”

“No.”

“Oh, ma in che mondo vivi?” Giulia rideva. Paolo non sapeva cosa rispondere. “È una vergogna: alla tua età non conoscere Topolino, che è così ‘fiero’… Te ne presterò qualcuno, ma guarda di restituirmelo, sai? E, se tanto mi dà tanto, immagino che non saprai nemmeno nuotare.”

Paolo fu costretto ad ammettere che era proprio così. Giulia allora si mise a raccontargli come avesse imparato a nuotare “per disperazione”, dato che le capitava sempre di finire in acqua: una volta ce la buttava qualcuno per scherzo; un’altra volta, nel bel mezzo di un gita in barca, lo scafo si rovesciava e la ripescavano semiasfissiata, oppure ‘partiva’ il tappo dal fondo. Il modo di raccontare della ragazza era così spiritoso e simpatico, che Paolo si abituò subito alle bizzarre espressioni di lei: ai “gulp”, “sigh”, “gasp”, “sgnac”. Non s’era mai trovato così a suo agio con una coetanea.

Al momento del bagno, il marchese Isidoro s’alzò, si stirò pigramente, si adattò le pinne e la maschera, caricò il fucile subacqueo sulla spiaggia, incurante del rischio per i bambini che giocavano tutt’intorno, poi si allontanò senza una parola. Gli altri entrarono insieme nell’acqua e Paolo li seguì.

Giulia promise:

“Ora ti faccio vedere;” si tuffò e diede quattro bracciate “vieni camminando fin dove l’acqua ti arriva al collo, poi prova a tornare a nuoto verso terra. Non aver paura. No, non così: dove vuoi nuotare a quel modo? sulla sabbia? Doppio ulp.”

Paolo, riluttante, cercò di allontanarsi un po’ di più dalla riva. La faccenda non gli andava proprio a genio. A un tratto un movimento sbagliato: andò con la testa sotto. Riemerse subito puntando i piedi sul fondo perché in mezzo metro d’acqua. Il fastidio della salsedine in gola, nel naso, negli occhi, gli parve intollerabile. Uscì fuori soffiando come un delfino.

“Non credevo che tu fossi salame fino a questo punto”, gli gridò dietro Giulia.

Egli arrossì, corse a tuffarsi, e con folle ardire s’immerse fino a un metro abbondante.

“Ora va quasi bene. Rilassati e prova di nuovo.”

Gli altri erano ormai lontani, ma una delle amiche stava tornando a grandi bracciate, e Giulia la chiamò di rinforzo:

“Gemma, tu sei campionessa: prova un po’ tu.”

Le due ragazze si diedero da fare per mostrare a Paolo come doveva rilassarsi in acqua, ma non ottennero un gran che.

“Hai una fifa dannata;” si lamentò Gemma “lo vuoi capire che se non distendi i muscoli non galleggerai mai?”

“La prossima volta andrà meglio; oggi è stato solo il primo contatto”, lo incoraggiò Giulia.

Non si stancarono di occuparsi di lui, né l’una né l’altra. Ogni giorno Paolo compiva un piccolo progresso: arrivò a percorrere ben cinque metri nuotando parallelamente alla spiaggia nell’acqua profonda quasi un metro e mezzo. Assai di più progredì la sua amicizia con Giulia. Lessero insieme Topolino, ed ella gli spiegò “come si combattono i complessi del figlio unico”, di cui lei pure aveva esperienza diretta. Quanto l’avrebbe odiata la “Salvatrice”, se avesse potuto sentirla, quanto avrebbe odiato l’“estranea” che “corrompeva” il “suo” bambino, facendogli intravedere una vita normale.

I genitori di lei vollero Paolo a pranzo per aver modo di conoscerlo. Erano gente tranquilla e ospitale. Soltanto la madre aveva fama di essere un po’ severa. Fu lei stessa a confessarlo a Paolo, e aggiunse:

“Coi tempi che corrono, e forse in ogni tempo, le precauzioni non bastano mai. Lei è giovane e non può capire. Ma vedrà di cosa è capace il prossimo.”

Suonava un poco iettatorio, ma Paolo non vi fece caso. E comunque, sì, la signora doveva aver ragione: egli aveva infatti già qualche idea di che cosa sia capace il prossimo.

Quella sera, dopo cena, Giulia e Paolo s’incontrarono al solito posto sulla passeggiata, dove abitualmente a quell’ora si radunava il gruppo. Ma non c’era nessuno.

“Dove saranno?” si domandò lui.

“Forse qui intorno, pronti a combinarci uno scherzo.”

Conclusero che era meglio allontanarsi.

Fu una bella passeggiata: un esperienza unica per lui, abituato da sempre ad aggirarsi da solo, e per le medesime strade, con l’incubo del ritorno a casa e di cosa avrebbe detto sua madre. Prima di separarsi, egli colse un fiore e l’offerse a Giulia, che lo accettò commossa, sussurrando:

“Tu non sei come gli altri.”

Quelle parole andarono dritte al cuore di Paolo. Tornò a casa della zia a grandi passi, felice. Si volse un istante verso il mare: l’immensa distesa appariva nera, tranne la striscia d’argento del riflesso lunare. L’aria era tranquilla, profumata. Gli parve che l’abisso lo chiamasse: si sentì come assorbito in un’immensità senza confini, in uno struggente anelito d’infinito. Amava tutto il mondo e avrebbe voluto che gli fosse concessa l’occasione di far del bene, perché la sua esistenza non fosse vana.

La mattina dopo, alla spiaggia, ancora immerso nel ricordo del giorno precedente, guardava sorridendo la gente intorno a sé. Quanto desiderava la presenza di Giulia. Ma lei non c’era. Seppe da uno del gruppo che un piccolo infortunio capitato alla madre durante i lavori di casa avevano costretto la ragazza a sostituirla.

Il tempo passava lento. Paolo provò a fare una nuotata: i risultati non furono gran che brillanti, ma gli piaceva stare in acqua così, immerso fino alla vita, sentendo il fondo solido e rassicurante sotto i piedi. Vide lo stabilimento balneare vuotarsi a poco a poco. Il gruppo, cui s’erano aggiunti altri giovani, allegri, rumorosi, ad un certo punto si mosse ed egli si affrettò a raggiungerlo. Andarono a sud, nella parte più solitaria della spiaggia. Il marchesino Isidoro voleva organizzare una partita di calcio.

“Ma non sarebbe ora…”, arrischiò Paolo, senza che nessuno gli prestasse attenzione. Era sul punto di andarsene quando lo chiamarono: mancava un difensore a una squadra. Accettò malvolentieri.

Il gioco durò circa mezz’ora, tra clamori e spruzzi di sabbia, con le porte segnate da grosse pietre, due di qua e due di là. Il conto delle reti si perdette. Accaldati, tornarono verso la parte più centrale della spiaggia, per cercare riparo sotto gli ombrelloni. Ad un tratto si intrufolò in mezzo a loro una bambina di circa dieci anni, piuttosto florida, il volto piatto e inespressivo, con un costume da bagno troppo largo che doveva essere appartenuto a qualche sorella maggiore. Era figlia di gente del posto. Cominciò a guardarsi intorno curiosa, e tutto il gruppo non poté fare a meno di notarla. Qualcuno che la conosceva, la invitò a giocare. La bambina arrossì e si volse per fuggire. Tutti le gridarono di fermarsi. Alcuni finsero, ridendo, di volerla afferrare. Paolo, scaldato dal gioco, la inseguì per pochi metri. Lei gli faceva smorfie, gridando a cantilena:

“Non mi prendi, non mi prendi.”

Svoltarono un angolo di un blocco di cabine, uscendo dalla visuale degli altri. La bambina corse su per una scala a pioli che conduceva ad una piattaforma rialzata, da dove i bagnini sorvegliavano la situazione. In quel momento non c’era nessuno. Paolo raggiunse la bambina mentre si arrampicava e l’afferrò un attimo per le caviglie:

“Ci sei.”

Lei si mise a strillare forte, come fosse stata percossa. Egli la lasciò subito, e stette a guardarla ridendo, mentre fuggiva. Poi raggiunse gli altri.

Era tardi, e il gruppo si stava finalmente sciogliendo per andare a pranzo.

Quel pomeriggio, Paolo notò che qualcuno della gente del posto lo sfuggiva o lo guardava senza salutarlo. Nonostante il movimento estivo dei turisti, era pur sempre un piccolo paese, e chi vi giungeva per la prima volta, dopo qualche giorno, era conosciuto da tutti e salutato da molti. Egli si sentì un po’ offeso, e fu sul punto di chiedere spiegazioni, ma la timidezza fu più forte di lui, e si disse che doveva essersi sbagliato. Poi, mentre si avvicinava allo stabilimento balneare, un uomo lo guardò torvo, e gli parve di vedere, con la coda dell’occhio, una donna che lo segnava a dito. Non sapendo più cosa pensarne, s’affrettò a ritirare la chiave della cabina. Anche la guardiana dei bagni non era stata gentile come al solito, o sbagliava?

Indossato il costume, si unì al gruppo, che lo accolse in modo del tutto naturale. Ne ebbe un gran sollievo: certo aveva preso un abbaglio. Stette un poco in compagnia, ma si annoiava. Giulia non c’era, ed egli ne sentiva la mancanza.

Andò a tuffarsi e percorse qualche metro a nuoto. Ma fu subito stanco, perché non aveva acquisito la qualità essenziale del nuotatore: la capacità di rilassarsi in acqua. Si era spinto un poco al largo e volle appoggiare i piedi al fondo. Sprofondò. Il cielo divenne una massa verdastra chiusa sul suo capo. L’acqua salsa gli penetrò ovunque, gonfiandogli lo stomaco. Una prigione cedevole, viscida, implacabile come una piovra.

“È la fine”, pensò.

Di colpo fu sostenuto e trascinato via. Sentì confusamente delle voci. Poi l’acqua scomparve. Si trovò disteso sulla spiaggia. Aprì a fatica gli occhi e vide un pezzetto di cielo, ma il bruciore era tale che li richiuse subito. Soltanto a poco a poco il mondo ridivenne normale. Trenta persone più del necessario s’affannavano a portargli soccorso.

“Perché non l’hai lasciato annegare?”

Era la voce di un uomo alle sue spalle. Si sentì gelare. Appena riuscì a reggersi, corse a rivestirsi e tornò a casa della zia senza guardare in faccia nessuno.

“Come mai così presto?” domandò la gentile vecchietta. Egli le disse tutto, eccetto lo strano atteggiamento ostile di molti verso di lui.

A cena mangiò pochissimo, e poi subito a letto.

“Bravo,” commentò la zia” così devi fare. Sei un ragazzo giudizioso.”

Egli dormì ben poco. Gran parte della notte trascorse in angosciosi esami di coscienza: “Che posso aver fatto? o detto? cos’è successo? perché mi odiano?”.

Il mattino dopo era affranto. Adesso aveva veramente paura a uscire, ma la zia lo sollecitò tanto che dovette decidersi. Appena fuori, non ebbe più dubbi: tutti lo schivavano. Una madre chiamò a sé i bambini vedendolo passare. Disprezzo in tutti gli sguardi. Nessun saluto. Nessun sorriso su tutti quei volti che lo guardavano rigidi, ostili. Non giunse neppure allo stabilimento balneare: incontrò il solito gruppetto di ragazzi e, sollevato, si diresse verso di loro. Voleva domandare consiglio, chiedere aiuto, perché lo aiutassero a capire e a contrastare quell’inspiegabile voltafaccia. Orrore: cambiarono strada tutti insieme, come ubbidendo all’ordine di un invisibile comandante. Solo il marchesino Isidoro s’attardò un istante a gettargli un’occhiata curiosa e beffarda.

Col cuore che gli martellava in gola, Paolo fuggì. Dovette fermarsi a riprendere fiato dopo la lunga corsa sotto il sole. Era giunto davanti al cancello della villetta di Giulia, chiusa e silenziosa.

Si staccò di là e prese la via dei campi, vagando senza meta. A un tratto scorse la figuretta bruna della ragazza che, con un secchiello in mano, camminava anche lei per il medesimo sentiero, dirigendosi verso casa. La chiamò per nome e si mise a correre in direzione di lei.

“Cosa vuoi?” domandò Giulia in fretta, guardandosi intorno.

“Devo sapere cos’è successo.”

“Non lo sai?”

“No.”

La ragazza si fermò.

“Non posso parlare con te.”

“Perché?”

“Mia madre…”

“Ma cos’ha tua madre? cos’hanno tutti contro di me? Cosa ho fatto ?”

Giulia cominciò a riferirgli le voci che circolavano sul conto di lui. Con crescente angoscia, egli l’ascoltava.

“È vero che hai messo le mani addosso alla figlia di quei Sanguinazzi? Ho sentito delle cose terribili sul tuo conto. Pare che la bambina, tornata a casa, si sia messa a piangere e abbia detto: ‘Uno dei signorini di fuori mi è saltato addosso, mi ha presa per le gambe, voleva portarmi via’. I genitori l’hanno capita al peggio. Si sono fatti indicare dalla piccola il ‘rapitore’, e poi hanno avvertito tutti. Le voci qui girano in un lampo.”

Giulia tacque, sperando di sentire da lui urla di indignazione, ma Paolo, sconvolto, riuscì solo a mormorare:

“Ma perché? perché?”

“È difficile persuadere questa gente quando si ficca una cosa in testa. Vedi, Paolo, l’anno scorso, proprio qui, c’è stato un caso simile, solo che allora… era vero. Ne hanno perfino parlato i giornali. Può darsi che qualcuno dubiti, ma, se è così, ti sta lontano anche lui per paura degli altri. Mia madre se l’è presa con me per averti introdotto in casa. M’ha fatto giurare di non rivolgerti più la parola. E speriamo che nessuno vada a riferirle…”

Paolo sedette, o meglio si accasciò, su una pietra.

“… ma ora devo andare. Mi hanno mandato a prendere il latte dal contadino laggiù, con l’ordine di tornare subito.”

Fece qualche passo, poi si voltò indietro e:

“Grazie, Paolo, grazie di tutto, grazie per le belle ore passate insieme. Io lo so che sei innocente.”

S’allontanò di corsa, versando nella fretta un po’ di latte.

Il giovane, immobile, non disse nulla. Si limitò a seguirla con lo sguardo. Dentro di lui s’era scatenato l’inferno: difendersi dall’accusa immonda, affrontare gli accusatori… Avrebbe messo il paese a ferro e fuoco. Si sarebbe gettato in ginocchio a implorare perdono per quel che non s’era mai neppure sognato di commettere… purché cessassero di trattarlo come un lebbroso. Immaginava di perorare la propria causa: giustizia voleva, non insipiente indulgenza. Se avevano prove contro di lui le mostrassero: non potevano che essere false. E ripeteva tra sé: “Nessuna punizione pari alla colpa, se fossi colpevole, ma sono innocente… innocente… Esigo luce e riparazione completa”. Ma nessun tribunale lo ascoltava. E comunque, cosa ci si può aspettare dalla giustizia umana?

Il sole ardeva, le pietre scottavano. A stento riusciva a tenere gli occhi aperti.

Che fare?

Fermare qualcuno a caso… obbligarlo a spiegarsi. Non poteva difendersi finché non lo si accusava apertamente. Grande è il vantaggio dell’accusa in un bel processo in piazza.

Ma a chi rivolgersi? Come prendere di petto quella muraglia di ostilità, disprezzo, rancore, nella quale si mescolava anche diffidenza e latente odio verso i “signorini di città”?

Strano: aveva vergogna, si sentiva oppresso da un rimorso indefinibile. Ma perché?

La zia. Dire tutto a lei. Ma come toccare certi argomenti? Con quale nome chiamare certe cose? La zia era stata così buona e gentile… diceva sempre che gli uomini sono le creature più false del mondo… e per questo non s’era sposata. Ma questo non cambiava molto le cose… “… vedrà di cosa è capace il prossimo…”. Stava proprio vedendolo… chi aveva pronunciato quella frase? Le parole ronzavano nella sua testa in tumulto. Alla zia piacevano i cani, diceva che sono più fidati degli uomini… Ma questo che c’entrava?

Il sole martellava sempre più forte. Come si doveva star bene sulla spiaggia. Paolo aveva la testa in fiamme. Nell’agitazione aveva dimenticato il berretto, che sarebbe stato a malapena sufficiente ad evitargli guai. I suoi pensieri vagavano ormai nel vuoto. Una sola idea gli si fissò in mente: quel posto era odioso.

Fuggire. Tornare a casa. Rifugiarsi nel solito ambiente, fra le cose familiari, le cui spine erano ben note.

Si alzò barcollando. La testa gli girava, macchie colorate danzavano dinanzi ai suoi occhi.

Lentamente s’incamminò verso la casa della zia: ripassando dinanzi alla villetta di Giulia, si volse dall’altra parte. Per un tratto si vide seguito da un vecchio sporco e lacero, e probabilmente ubriaco di Sangiovese, che farfugliava oscenità al suo indirizzo.

Di nuovo la zia si stupì di vederlo tornare così presto.

“Mi dava fastidio il sole”, egli spiegò. Fece uno sforzo per trovare le parole adatte a quel che voleva dire. Ma che cosa voleva dire? Il ronzio nel capo lo stordiva. Si ritirò in camera e prese a passeggiare avanti e indietro.

“A quanti avrò fatto io del male?” si chiedeva “perché dovrei aspettarmi aiuto da qualcuno? chi ho mai aiutato io? Lucia, forse?”.

La danza delle macchie colorate si faceva sempre più frenetica, sentiva un vuoto pauroso nello stomaco e una crescente nausea. Gli pareva quasi di poter toccare quel muro di ostilità; ostilità ottusa, cieca, che fermentava e s’inaspriva lì fuori.

Dovette sedersi. Ma si sentiva soffocare e subito si alzò per aprire la finestra. Barcollando, riuscì ad arrivarci, poi gli mancarono le forze e scivolò a terra. Il sangue gli pulsava pesantemente nelle arterie. Quanto tempo rimase là?

Dopo averlo chiamato a lungo per il pranzo, la zia venne a cercarlo e lo trovò così, disteso a terra, immerso in una specie di sopore, col viso arrossato, bruciante. Allarmatissima, lo fece stendere sul letto, con l’aiuto della vecchia donna di servizio. Gli mise impacchi d’acqua fredda sulle tempie e chiamò subito il medico.

Nel martellante pulsare del sangue, pareva a Paolo di rivivere il terrore dei bombardamenti della guerra: il rombo dei motori, l’esplosione delle bombe, tutte le bombe che gli cadevano addosso, una dopo l’altra. Volti, volti, volti, turbinavano intorno a lui: tutti quelli che aveva conosciuto, e, fra gli altri, uno ne emerse, pallido come cera, che lo fissava muto, implorando un soccorso per il quale era ormai troppo tardi. E a quello sguardo egli avrebbe voluto sprofondare sotto terra.

Per due giorni stette veramente male, un marasma angoscioso e continuo che non lasciava requie. Poi l’insolazione cominciò a regredire. La brava gente si chiedeva dove fosse finito “quell’animale”, e, quando si seppe del colpo di sole, i più sorrisero con l’aria di chi la sa lunga. Insolazione? eh, eh, comodo, vero?

La zia intanto non riusciva a capacitarsi del perché nessuno si facesse vivo per avere notizie di Paolo. Quando cominciò a star meglio, volle sapere se per caso aveva litigato con qualcuno. Egli rispose di no, ma, premuto dall’insistenza di lei, finì per assentire e dovette, con rincrescimento, inventare la storia di un litigio. Fu solo con grandi sforzi che riuscì a persuaderla che non era il caso di andare a fondo nella faccenda.

Ormai non desiderava che la fuga. Troppo tempo era trascorso per tentare di giungere ad una spiegazione dell’atroce equivoco. Anche se avesse trovato il coraggio di affrontare l’intero paese, non c’era più nulla da fare. La macchia era ormai indelebile. Chiese il permesso di tornarsene a casa, ma la zia si oppose. Cercò di farle credere che tutto il suo divertimento era sfumato da quando aveva corso il rischio di annegare e non osava più avvicinarsi ai bagni. Le era infinitamente grato per la sua gentilezza e promise, nell’assoluta certezza che non avrebbe mantenuto, di tornare l’anno venturo.

La signora Aurelia brontolò a lungo: i tuoi non ti lasceranno più venire; di certo non ti sei trovato bene: dimmi cosa c’è; si vede che non riesco simpatica neppure a mio nipote; ma perché non resti ancora un po’; sempre sola mi tocca stare; tutti pensano a sé, eccetera, eccetera.

Quella serqua di inutili lamentele non migliorò certo lo stato d’animo di Paolo. Finalmente ottenne il permesso. Tra l’altro, neppure per un attimo gli venne in mente che non aveva bisogno di chiedere alcun permesso. Scelse il treno che partiva in piena calura meridiana, per evitare gli incontri nel breve tragitto fino alla stazione. Salutò la zia imbronciata e si avviò sbirciando a destra e a sinistra. Due contadini che oziavano al caffè di fronte alla stazione si diedero di gomito:

“Guarda il signorino.”

“Zoca e manéra ci vorrebbe con quelli lì.”

“Zoca e manéra”, come prima della civile invenzione della ghigliottina, il blocco e la scure. È così che si trattano i delinquenti, i “signorini”.

Finalmente la stazione. Il ferroviere alla biglietteria non lo guardò con odio. Era già un conforto. Poi il treno in arrivo, il fischio del capostazione, la partenza, il sollievo di vedere l’intollerabile paesucolo dileguare all’orizzonte.

Soltanto allora si affacciò alla mente di Paolo il dubbio d’aver commesso un errore madornale, di essersi lasciato sopraffare dalle circostanze, dando corpo, con quella fuga, alle voci più maligne.

Qualcuno, quietatosi il primo farnetichìo di chiacchiere, aveva già cominciato ad avanzare dubbi su quanto raccontavano con dovizia di particolari i Sanguinazzi, gente non particolarmente rinomata per equilibrio e affidabilità. E la zia? Con ogni probabilità lo avrebbe sostenuto a spada tratta, se avesse saputo da lui quanto era realmente avvenuto, cioè praticamente nulla. Ma, prima o poi, la storia le sarebbe giunta alle orecchie da parte di qualcun altro, e forse ella avrebbe pensato di avere un nipote pervertito (la parola “pedofilo” non era ancora di moda nel 1954).

Comunque, la gioia di trovarsi lontano da quei luoghi era più forte d’ogni dubbio. Inoltre lo confortava il pensiero che Giulia non aveva creduto a quell’infamia. Ma era una ben misera consolazione. Se per caso vi era stata la possibilità che tra loro nascesse qualcosa, ormai era finita prima di cominciare. Non l’avrebbe rivista mai più.

 


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