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Sua madre gli fece il terzo grado per sapere quanto fosse ricca la mitica zia Aurelia, e se avesse accennato a qualcosa che avesse a che fare con testamenti, eredità, cessioni, usufrutti, e tutto ciò che poteva in qualche modo rimpinguare il misero peculio familiare.

Quando le apparve chiaro che la parente non doveva essere ricca sfondata, non aveva accennato ad alcuna eredità, e che comunque Paolo aveva fatto poco caso a questioni del genere, la “Salvatrice” si adirò moltissimo. Possibile che avesse generato un figlio così idiota? A che gli serviva la “proposcide”, se non gli serviva  a captare l’odore dei soldi? Se non fosse stato per lei sarebbero tutti finiti “a pan dimandato”. E perché continuava a guardarla con quella faccia da deficiente? Quella faccia. Basta con quella faccia. Non voleva più vedere quella faccia.

Mai e poi mai Paolo avrebbe trovato il coraggio di difendersi. Mentre sua madre era intenta a rincuorarlo e a renderlo sicuro di sé come soltanto lei sapeva fare, la catastrofe dilagava, all’insaputa di Paolo, che si era illuso di poter trovare rifugio a casa. Alcuni lontani conoscenti dei Donati, per i misteriosi canali del pettegolezzo di provincia, erano venuti a sapere il fatto, debitamente imbellettato delle solite frange. Le insinuazioni più infamanti cominciarono a circolare, in perfetta buona fede, intorno a Paolo.

Dopo il ritorno in città, egli si isolò nella sua disperata solitudine. Gli pareva che tutti gli occhi si appuntassero su di lui, che ovunque si sussurrasse il suo nome. Riprese le abituali lunghe passeggiate, attento a ogni viso noto per cambiare subito strada. Ben presto, quelli che lo conoscevano si accorsero del mutamento.

“Un innocente si comporta così?” dicevano tutti. Allora molti ricordarono le vecchie storie: le “molestie” a Claudia Maltese che, poveretta, era finita malamente, la lite con Seppia per “strappargli” un libro pornografico, l’“aggressione” a Gabriella. Ora si aggiungeva quest’ultima. Quel Paolo. Che individuo abietto.

A chi affacciava qualche dubbio, veniva risposto:

“Perché scappa, allora?”

Uscire dal guscio? Certo, Paolo capiva benissimo quanto fosse necessario. Ma da che parte cominciare?

Poter dimostrare la propria innocenza. Mille volte al giorno di sorprendeva a rivivere nei minimi dettagli il banalissimo episodio. Ecco il piatto volto senza espressione della bambina, le facce ostili, gelide, di tutti contro di lui. Certi momenti era invaso da una furia cieca: averli tutti davanti e menar colpi, colpi, colpi, con qualunque cosa gli fosse venuta tra le mani. Ma poi rifletteva che tutto il mondo è così, perché gli altri pensavano e facevano quel che pareva a loro, e lui non aveva alcun modo per far sì che gli dessero retta. Sua madre, il suo primo e più importante punto di riferimento, non gli dava mai retta. Era perfettamente inutile spiegarle o raccontarle qualcosa: tutto passava su di lei come acqua, senza lasciare traccia. Ella funzionava a manie come l’auto va a benzina, e la sua mania principale era salvare la famiglia mediante una difesa del peculio con le unghie e coi denti.

La calunnia non aveva volto. Un serpe mostruoso che avvinghiava ogni cosa, avvelenandola. Le anime buone e timorate che, col capo coperto e il messalino in mano, s’affrettavano alla prima messa, avevano materia da discorrere:

“Ci metterei la mano sul fuoco: l’avevo detto io che covava qualcosa. Gente strana quei Donati… lui, poi, sempre così chiuso…”

“Ma dicono che con le ragazze non sia chiuso per niente… mi spiego?”

“Fosse solo con le ragazze. Ma una bambina, perfino… quel mostro.”

“Secondo me farà una brutta fine.”

Paolo avrebbe dovuto preparare l’esame di anatomia umana normale, digerirsi quei cinque volumi, chiave di volta dell’intero corso di laurea. Ma col passare dei giorni si sentiva sempre più svogliato; la sua mente si perdeva a rimuginare la disgrazia. Delle parti già studiate prima di partire non ricordava nulla. Ogni volume un macigno. Quelle pagine noiose, irte di nomi, sembravano crescere man mano che le voltava. Sentiva un gran vuoto dentro, gli mancava il respiro. La notte non dormiva che poche ore popolate da incubi, e una volta si destò di soprassalto, con la certezza di aver già dato l’esame e d’esser stato bocciato. E chi sedeva dietro la cattedra, a fianco dei professori? La bambina, la terribile bambina dal piatto volto inespressivo.

Ogni giorno Paolo formulava fermissimi propositi d’impegnarsi con tutte le sue forze, ma, quando si trovava di fronte ai libri, il suo pensiero riprendeva a vagare dietro agli angosciosi spettri della calunnia e del disonore. Non faceva che rimuginare sempre più i particolari del disastro, e si torturava pensando: “se avessi agito in quest’altro modo…”, “se la bambina fosse stata un po’ meno sciocca…”, “se avessi avuto un po’ più di coraggio…”, “se quel giorno fosse piovuto…”.

Ma l’urto con la realtà era duro. I fatti non si cancellano. Il mondo non perdona. Quando non riusciva più a resistere, prendeva il libro e usciva, sperando di poter studiare seduto su una panchina, all’aria aperta, ma i suoi fantasmi lo inseguivano ovunque.

Tutto il mondo sembrava schiacciarlo. Egli avrebbe voluto difendersi e —perché no? —vendicarsi. Era la prima volta che gli balenava seriamente una simile idea. Ma poi rifletteva: a che pro allungare la catena delle umiliazioni e delle ingiustizie? In ogni caso i veri colpevoli erano al sicuro. Ma c’erano poi colpevoli e innocenti? O tutti gli esseri umani si trovavano ad essere vittime e carnefici al tempo stesso? Lui era forse certo di non aver mai fatto male a nessuno?

Ed ecco, in una visione febbrile, il mondo umano gli apparve come un gigantesco meccanismo con innumerevoli ingranaggi, ognuno dei quali era un individuo, un’anima dotata di sentimenti, assetata d’amore. Il meccanismo girava, girava, girava; gli ingranaggi si logoravano, erano stritolati, cadevano. Subito una mano misteriosa li sostituiva, perché la macchina non avesse a fermarsi. Anzi, i nuovi ingranaggi erano più di quelli caduti e la macchina, ingigantiva, grondava sangue. Nessuno aveva mai un attimo di tregua. Tutto era ben congegnato affinché ogni rotellina dovesse girare sempre e cadere stritolata dalle altre. In cuor suo sapeva bene che il nemico dell’uomo approfitta dei momenti di depressione per indurre la vittima a disperare, e che immagini del genere non potevano che provenire da quella fonte avvelenata. Ma non riusciva ugualmente a scacciarle.

Nell’atrio dell’università vennero affissi gli appelli degli esami: furtivamente, Paolo si recò a consultare le tabelle, sperando che nessuno badasse a lui. Riprese poi a studiare con impegno: avere delle date precise davanti a sé lo stimolava. A poco a poco quel dedalo di nomi difficili cominciò a divenirgli familiare. Si chiuse in casa, ridusse le ore di riposo, riuscì persino a tormentarsi un po’ meno al ricordo di quel disgustoso incidente.

Alla vigilia del primo appello, fu di nuovo assalito dalle paure. Aveva sentito dire che, per quell’esame, occorrevano sei mesi di preparazione e cominciò a scoprire nella memoria lacune insospettate. Decise di presentarsi al secondo appello, e nelle due settimane d’intervallo non si concesse tregua.

Venne il terribile giorno. Molti furono chiamati prima di lui: tutta la mattina e parte del pomeriggio trascorse in un’attesa sempre più snervante, interrotta solo da una rapida corsa a casa per il pranzo, consumato senza neppure sapere che cosa aveva nel piatto, mentre sua madre era intenta a fare il processo alla sua faccia contratta e preoccupata. Ed ecco finalmente il suo turno.

Dopo un tempo che gli parve infinito, uscì dall’istituto di anatomia con le gambe che gli tremavano e lasciò che la porta automatica lentamente si richiudesse alle sue spalle. Mille idee confuse gli turbinavano nel capo. Come aveva potuto essere? dopo aver faticato tanto?

Il professor “Kon-Tiki” e l’assistente Gaudenzio Frontoni s’erano avvicendati a interrogarlo senza respiro, con vero accanimento: il primo con aria accigliata dietro gli occhiali, che non portava quasi mai, e che gli conferivano un’aria furtiva, quasi fossero una maschera; il secondo con un sorriso di tranquilla condiscendenza.

Tutto gli avevano domandato: dalle inserzioni muscolari del femore alla struttura microscopica dei peduncoli cerebrali, da tutti i casi di sinapsi interneuroniche a tutte le correlazioni del plesso sottomucoso, dalla topografia del cavo ascellare alle anastomosi arteriose della zona del bacino, dai muscoli dell’eminenza tenar alle più insignificanti ramificazioni delle ramificazioni dell’arteria iliaca interna.

Benché egli si difendesse bene, nello scendere ai più minuti particolari c’era stato talvolta un momento in cui la memoria l’aveva tradito. Da principio non si trattava che di attimi di vuoto facilmente colmabili. Ma sembrava che agli esaminatori non facesse piacere che lui si riprendesse. Appena aveva un istante di esitazione, subito i due pericolosi individui dall’altra parte del tavolo davano segni d’impazienza. Temendo d’aver sbagliato, si confondeva: le sue risposte erano sempre meno precise, “Kon-Tiki” e Frontoni sempre più intolleranti. Il terzo membro della commissione, la dottoressa Aléo taceva, e sembrava alquanto perplessa dell’intero modo di procedere dei colleghi.

Da quanto durava ormai? Paolo aveva perduto la nozione del tempo. A un certo punto l’esame era uscito dal programma. Gli avevano domandato quale fosse il pH nella cavità gastrica.

“Circa uno virgola due”, aveva risposto.

Poi avevano preteso la definizione di pH, e infine volevano sapere qual è il “valore normale”.

Paolo era rimasto interdetto. Si trattava di una domanda di fisiologia, non di anatomia. Ma soprattutto era ambigua: “normale” dove? in quale parte dell’organismo? Ma la sua rispettosa richiesta di chiarimenti non ottenne molto successo.

“Kon-Tiki”, grattandosi il cranio pelato, aveva rivolto lo sguardo a Frontoni, e questi s’era sentito in dovere di incalzare:

“Risponda alla domanda.”

Una pausa interminabile, scandita da un’enorme sveglia portata da Frontoni per regolare il tempo degli esami. Era tanto rumorosa che, nonostante fosse avvolta in carta da filtro per attutirne il ticchettìo, dava ugualmente fastidio. In modo particolare metteva a dura prova i nervi di Paolo.

“Sette”, aveva arrischiato, ma si era subito pentito vedendo gli esaminatori fare gesti d’impazienza. Allora aveva cercato di far presente che gli era parso giusto intendere quel “normale” come punto di neutralità, e che comunque l’argomento non gli sembrava tra quelli d’esame. “Kon-Tiki” aveva tagliato corto:

“Direi che questa è una ritirata pietosa. Ad ogni modo stia certo che il suo esame non sarà valutato in base alle sciocchezze che ha detto ora.”

Di solito non facevano così. Davano anche qualche piccolo incoraggiamento, si mostravano meno impazienti. Sembrava che ce l’avessero con lui.

Paolo aveva sentito il sangue pulsargli penosamente nelle arterie, come quando aveva sofferto per l’insolazione. La testa gli doleva.

“Ma se lei… ma se loro… intendevano parlare del valore normale del protoplasma…”, aveva balbettato.

“Kon-Tiki” tranquillamente era passato ad un’altra domanda.

E perché Frontoni aveva scosso il capo quando egli aveva menzionato il grande e il piccolo psoas fra i muscoli dell’addome? e perché quell’aria di scherno? Eppure gli pareva che fossero proprio in quella zona. Ma gli mancava il libro per accertarsene, e se pure lo avesse avuto gli sarebbe mancato il coraggio di aprirlo. E anche con la prova che la sua risposta era esatta, poteva cogliere in fallo un barone universitario? E ritrovarselo poi di fronte alla prossima sessione di esami? Chi, fra i dotti cattedratici, o aspiranti cattedratici, è disposto a perdonare agli altri i propri errori?

Non c’era più nulla di certo: così sembrava a Paolo. Man mano che il suo esame volgeva al peggio, dopo le risposte corrette e precise dell’inizio, le quali più che altro sembravano aver indispettito i due esaminatori, i suoi pensieri si confondevano, e parlava in modo sempre più esitante. A un tratto aveva avuto la netta impressione di un nuovo colpo di sole: ogni cosa si era messa a girargli attorno.

Per un mostruoso attimo gli era parso che anche il cadavere, un miserabile vecchio tutto squarciato, giacente sul tavolo di dissezione, gli ridesse in faccia. Egli stava cercando con le mani tremanti qualcosa in mezzo a quel putridume. Sentiva a stento gli strumenti fra le dita. La vista gli si confondeva: era il pancreas quella cosa bluastra che stava sollevando con le pinze? o la cistifellea?

Le membra abbandonate avevano la rigidezza del legno e un brutto colore rossastro. Il tanfo era soffocante. Gli occhi vitrei immobili sotto le palpebre socchiuse, come se il morto volesse ripararli dalla luce cruda che pioveva dalle lampade. Parve ad un tratto che il cadavere ghignasse.

Un brivido era corso per la schiena di Paolo: gli era balenato il ricordo di Lucia distesa su quel letto. L’accostamento lo faceva inorridire, destava in lui la consapevolezza della morte: pensieri, sentimenti, speranze, tutta la grandezza umana, tutto naufragato in due palmi di terra.

“Be’, questo dotto di Santorini lo trova o no?” proruppe la voce nasale del dottor Frontoni.

“Lasci stare, non importa;” era intervenuto “Kon-Tiki” “mi parli dell’apparato sessuale femminile.”

“Dovevo aspettarmelo”, aveva pensato Paolo, cercando di racimolare qualcosa tra i cocci della sua memoria. Tutti sapevano che “Kon-Tiki” era “fissato” su quella domanda: ben pochi studenti non se l’erano sentita rivolgere. Alle studentesse usava invece chiedere quello maschile, per ascoltarle poi con una specie di sorriso a fior di labbra. Spesso quella era la domanda che decideva dell’esame.

Paolo non era riuscito a spiccicare una sola parola sull’argomento: respirava a fatica, e un sudore gelido gli grondava dalla fronte. Per attimi —o secoli? —l’unico rumore era stato il ronzio delle lampade al neon e l’ossessionante tic-tac della sveglia di Frontoni.

“La sua preparazione è pietosa, lo sa?” aveva detto”Kon-Tiki”.

A capo chino, Paolo taceva. Protestare: “avete fatto di tutto per confondermi?” e poi? L’esame era legalmente valido; e chi può distinguere vero da falso? Anche in una troppo recente occasione, che egli ricordava con angoscia e vergogna, gli era parso di avere tutte le ragioni: gli altri avrebbero dovuto implorare il suo perdono in ginocchio, e invece…

Era lui il colpevole. Gli altri erano a posto: erano tutti uniti. Esiste forse una pietra di paragone per svelare l’innocenza e difendere l’onore? Certo che esiste, ma non è di questo mondo. E, intanto, proprio in questo mondo gli toccava vivere, sul lato sbagliato della realtà, dove non esisteva trasparenza, dove le cose apparivano buie e distorte, dove la luce della verità penetrava a stento.

Le luce materiale, invece, gli feriva gli occhi: li socchiuse e attese in silenzio.

Come in un sogno aveva visto “Kon-Tiki” passare il suo libretto a Frontoni, dopo avergli sussurrato qualche parola. E il dottor Frontoni, seduto al tavolino nell’angolo, aveva scritto sul registro dei verbali, poi sul suo libretto e, dopo averlo chiuso, gliel’aveva messo in mano, come si consegna la lettera di licenziamento al dipendente infedele che deve sloggiare. Nient’altro.

Egli s’era accorto di stringere ancora della sinistra il bisturi e l’aveva deposto vicino al cadavere. Tutti gli strumenti di proprietà dell’istituto di anatomia dovevano essere immediatamente restituiti, pena gravissime sanzioni.

“Riverisco”, aveva mormorato uscendo, senza ottenere risposta.

Paolo si passò una mano tra i capelli: il suo gesto abituale da qualche tempo, come se cercasse di mettere ordine tra i suoi pensieri. Ricordava appena di aver attraversato l’atrio fra l’ansioso interrogare dei compagni, ai quali interessava sapere su che argomenti insistevano gli esaminatori. Aveva risposto a quelle domande? chissà?

E adesso eccolo fuori.

Il sole era basso sulle case davanti a lui, guardò il libretto fra le sue mani, lo aperse, ne voltò le pagine. Ecco il suo esame accuratamente registrato, con una grossa riga nera; c’era anche la firma nella colonna “Segretario della commissione”: Gaudenzio Frontoni, uno scarabocchio quasi leggibile. Tutto in regola.

Il bidello stava osservandolo con curiosità. Richiuse il libretto e s’allontanò in una direzione qualunque. Strano: le gambe lo reggevano ancora.

La strada era percorsa da sciami di biciclette e sfreccianti automobili: a bordo portavano gente che non aveva sul cuore quel peso, forse professionisti “arrivati”, con una solida posizione. Mille pensieri confusi turbinavano nella sua mente. Smarrita la nozione del tempo, cominciò a vagare senza meta.

Le vie del centro. Non vedeva quasi i passanti, ne urtava di tanto in tanto qualcuno che, guardandolo di traverso, masticava amare parole al suo indirizzo. Sentiva la testa in fiamme e gli occhi gli giocavano strani scherzi.

Come tornare a casa? come affrontare sua madre, una così attenta studiosa della sua faccia, che non avrebbe certo mancato di esercitare il suo non comune talento fisionomico sul volto di un figlio così idiota che si faceva bocciare all’esame più importante del corso di laurea —un corso che costava un occhio della testa alle esauste finanze familiari, sempre sul punto di precipitare nell’abisso del “pan dimandato”. Salve di “vita maledetta” e di riferimenti a Gengis Khan, e ad altri personaggi spaventevoli della storia, erano pure assicurati ed inclusi nel contratto familiare di vitto e alloggio.

E cosa avrebbe fatto quella sera? e domani? e i giorni seguenti? Certo, il guaio non era irreparabile, e i largitori di buoni consigli gratuiti si affannano a sottolineare che se un guaio è rimediabile non è il caso di preoccuparsi, mentre se è irrimediabile è parimenti fuori questione preoccuparsi. Per lo più si tratta di gente che non ha mai sofferto mal di denti e non ha mai dovuto sostenere esami di anatomia umana.

Ma com’era possibile che tanto studio, tanta fatica, tanto sacrificio naufragassero così penosamente? Dunque la vita era fatta di trappole senza uscita. Inutile temerla, inutile diffidare e stare in guardia: c’era sempre di che restarne scottati. Gli pareva che il terreno gli fosse mancato sotto i piedi all’improvviso e non si sentiva più la forza di risalire il baratro. Ma chi aveva offeso? perché non poteva avere un po’ di pace?

“Ma forse hanno ragione loro”, pensava sgomento.

Ora percorreva con passo meccanico i viali periferici, adagio adagio, sotto gli alberi la cui ombra si faceva sempre più lunga. Avrebbe voluto avvolgersi in quell’ombra e sfuggire agli sguardi.

“Perché mi guardano? perché?”, si chiedeva con angoscia.

Il sole mandava gli ultimi raggi sui tetti rossi, sulle finestre. Accecanti riflessi balenavano qua e là. Il cielo, sereno tranne qualche rara nube di porpora, era come incendiato. La nebbia stava alzandosi. La città pareva in fiamme nelle vampate del tramonto. Per un attimo Paolo pensò che se l’incendio fosse stato vero, la calamità generale avrebbe assorbito e come annullato la sua disgrazia. Via via che il sole scendeva, la nebbia acquistava consistenza, ovattando ogni cosa. Si sentì più calmo e poté rendersi conto in pieno di ciò che era accaduto. Lacrime gli rigarono il volto, mentre tentava con rabbia di dominarsi.

Aveva visto altri uscire sconfitti da un esame: infuriati, o pieni di umiliazione, o indifferenti. Molti suoi compagni avevano genitori benestanti, e la perdita di un anno era nulla per loro. Alcuni sembravano apatici: l’esito degli studi pareva non li riguardasse. Egli non apparteneva né a questi né a quelli.

“Cosa Ti ho fatto?”, esclamò in un appassionato dialogo interiore “perché mi perseguiti?”

L’Altro non rispondeva.

Il crepuscolo. La nebbia era ormai densa. I bei colori del tramonto rapidamente sbiadivano per lasciare il posto alle tenebre.

L’idea del suicidio si affacciò alla mente di Paolo come unica soluzione. Non riusciva negli studi, né a farsi amare, né ad avere abbastanza fede, né ad ottenere giustizia, né a credere nella giustizia. Fallimento assoluto.

S’accesero a un tratto i lampioni. Egli si riscosse come se quell’improvvisa luce avesse messo a nudo, dinanzi a tutti, i suoi pensieri segreti. Si alzò e riprese a camminare, a caso.

Il suicidio, la morte, esser lontano da tutti, disinteressarsi di qualunque cosa, non essere più esposto ai colpi della sorte, alle umiliazioni, rinunciare a una vita che gli era stata resa intollerabile. Ma poi?

Era ritornato, senza quasi rendersene conto, nel centro della città. Ecco la possente mole romanica della cattedrale. Sentì l’impulso di entrarvi, subito soffocato. Qualcosa di misterioso aveva attratto Alberto Viviani, qualcos’altro allontanò Paolo.

Camminò e camminò. Ecco il torrente: un filo melmoso nell’alveo quasi asciutto, ciuffi d’erba coprivano le sponde, indistinte nel buio. Un banco di sabbia in mezzo alla corrente era stato invaso dalla vegetazione. Tanto tenace è la vita che s’infiltra a forza ovunque, appena possibile.

Troppo poca acqua, rifletté Paolo. Il miglior mezzo era il veleno. Poteva prenderne un poco da uno dei laboratori dell’università. Si riscosse e passò oltre.

Ecco il museo cittadino, a quell’ora chiuso. Un giorno vi si era entusiasmato. Nella prospettiva del presente, quella gli parve un’epoca dorata: tutto sembrava meraviglioso, tutto era una nuova scoperta, tutto sapeva di gioventù. E oggi non era più giovane? a vent’anni? No, troppe cose erano cambiate. Si allontanò anche di lì.

Era come se stesse dando addio a tutti i luoghi dove s’era svolta la sua vita. Il corpo, sfinito, gli faceva pesare ora la sua tirannia: le gambe a malapena lo reggevano. Avrebbe avuto il coraggio di uccidersi? Oppure ci vuole più coraggio a continuare a vivere?

Dentro di sé, avvertiva un insormontabile ostacolo. “… non mi dimenticare, Paolo…”, aveva scritto Lucia. Le sue ultime parole. Non era forse un tradimento abbandonare la memoria di lei? Gli pareva che lei lo chiamasse da qualche remota distanza: “Non farlo, Paolo, ti prego, non farlo”. Capì che non si sarebbe mai ucciso.

Ecco un’altra chiesa, umile e modesta. Chissà perché, era ancora aperta a quell’ora. Sembrava attenderlo. Un lumino rosso rischiarava il tabernacolo. Su quella debole luce si concentrò il suo sguardo. Ecco: la fede era come quella piccola luce. Quasi soffocata dalle tenebre, eppure sufficiente a lasciar intravedere una realtà che altrimenti sarebbe rimasta immersa nel buio. Senza quella piccola luce non restava che il paganesimo: al posto di Dio mettere il proprio povero Io, fare ciò che avevano fatto i Viviani, con i risultati che proprio lui, Paolo, aveva potuto vedere da vicino.

Quella luce era un segno d’amore, portato dal cielo sulla terra a grave costo, per la salvezza degli uomini. Lento passava il tempo. Paolo si inginocchiò e pregò. Lo riscosse il sacrestano: la chiesa chiudeva. Si frugò in tasca e, trovati pochi soldi, li depose nella cassetta delle elemosine. Si segnò e uscì. Era ora di tornare a casa.

Avrebbe raccontato ogni cosa, serenamente. Chissà cosa avrebbe detto sua madre, anche causa del ritardo, ma non poteva continuare a inveire all’infinito. I buoni propositi si affollavano in lui: avrebbe ripreso ad andare regolarmente a messa e ad accostarsi ai sacramenti, si sarebbe rimesso a studiare con tutte le sue forze.

Mentre cercava la più vicina fermata del tram per tornare a casa, persino la catastrofe di odio e incomprensione sofferta nell’unica vacanza della sua vita, gli apparve sotto una luce diversa. Un caso sfortunato, una triste esperienza da superare.

Ecco la fermata, ed ecco la vettura in arrivo. Ma dov’era il denaro? Le sue tasche non contenevano che un fazzoletto, un vecchio biglietto tranviario spiegazzato e il libretto dell’università. Tutti i suoi pochi soldi li aveva lasciati in quella cassetta per le elemosine. Il tram si fermò. Alcuni vi salirono. Era buio, la nebbia dava alle luci un aspetto velato e irreale. I rumori giungevano attutiti e l’atmosfera aveva qualcosa di ultraterreno. A piedi, egli si avviò verso casa. Pazienza: dopo aver percorso tanta strada con la disperazione che lo attanagliava, poteva farne ancora un poco, adesso che cominciava a sentirsi sollevato.

Attraversò in un quarto d’ora gran parte della città e giunse allo scalo merci. La fame gli torceva furiosamente le viscere. Guardò con desiderio al di là delle rotaie, in direzione di casa. Avrebbe dovuto compiere un giro di qualche centinaio di metri verso sinistra, dalla parte della stazione. Non aveva con sé orologio, perché l’unica vecchia patacca che possedeva si era guastata, e il non saper neppure l’ora gli mise addosso una certa ansia.

Guardò con attenzione dentro lo scalo. Un convoglio manovrava pigramente. Facilissimo attraversare senza pericolo, abbreviando il cammino. Non si rendeva conto di come i suoi riflessi e la sua vista fossero indeboliti dalla stanchezza, dal digiuno, dai postumi, non ancora superati, del colpo di sole.

Intorno tutto deserto. Paolo scavalcò la cancellata in laterizio e s’inoltrò nello scalo, attraversando alcuni binari.

Ed ecco la terra vibrò alla sua destra. Si volse, continuando a camminare. Gli parve di vedere due occhi di gatto che ingrandivano fulmineamente nella notte. Avvertì un colpo inferto come da un colossale maglio al suo fianco destro. Nessun dolore. Gli parve di volare e perdette i sensi.

Poco dopo le orecchie dei buoni cittadini furono infastidite dalla lugubre sirena di un’autoambulanza che correva verso la stazione a tutta velocità.

 


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