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DAL ROMANZO “IL PRATO ALTO”,

STORIA ROMANZATA DELL’AUSTRIA DALLA PREISTORIA AI TEMPI NOSTRI,

DI EMILIO E MARIA ANTONIETTA BIAGINI

Acquistabile e /o ordinabile presso le Librerie San Paolo e altre librerie nazionali

 

60 a.C.

Ma era tutt’altro che finita. I confini settentrionali erano sempre pericolosi, e gli amici romani non avevano truppe sufficienti da impegnare in loro aiuto. Frattanto continuavano i miglioramenti tecnici, non senza conseguenze per la difesa. Da almeno un cinquantennio si produceva acciaio in forni ventilati con mantici, e si costruirono molte nuove strutture del genere, producendo spade di migliore qualità e in numero sempre maggiore.

Un nipote di Silvius, Valerius, possedeva uno di questi forni, alla periferia di Dolmynnydd, e fabbricava gladii che venivano venduti ad ottimi prezzi in tutta la vallata, dove si erano costituite unità ausiliarie di difesa mobili, che utilizzavano i migliori cavalli allevati sul posto.

I celti boi profughi, minacciati dai germani, si rifugiarono nella zona del clan Aiken, il cui nome celtico, insieme agli usi e ai costumi tradizionali, cominciava a romanizzarsi in Aicaenius. Sempre più si vedevano in giro uomini con i capelli tagliati alla romana, invece che lunghi in treccine; e indossanti la toga; sempre più i nomi che venivano imposti ai bambini erano latini. Sempre più si parlava latino, sia pure soltanto sermo rusticus, tanto che i profughi boi a stento si riconoscevano nei loro affini celtici del Norico.

Il druido Krom, giunse in quell’anno, con la sua famiglia, insieme ad altri sradicati dei boi, a Dolmynnydd, che qualcuno cominciava a chiamare Dolminius, anche se quella forma romana non prese mai il sopravvento sul nome celtico. La romanità restava pur sempre una mano di vernice superficiale, sotto la quale riaffiorava costantemente la rude superficie dell’arcaica, ma straordinariamente vitale, civiltà celtica.

Il caso volle che Krom, gallo per niente romanizzato, avesse una figlia, e che questa figlia, quattordicenne, di nome Klin, fosse una vera bellezza, con una folta e lunga chioma rossa e abbondanza di curve e mosse seducenti. Martius Aicaenius, figlio di Valerius, che aveva sedici anni, i capelli biondi tagliati alla romana e un bel portamento, se ne innamorò a prima vista.

I due cominciarono a lanciarsi occhiate, poi passarono alle parole (rigorosamente in celtico, perché lei non sapeva una parola di latino, neanche “rusticus”), poi ai fatti, nascosti dietro ogni possibile ostacolo, siepi, alberi, mucche e tutto ciò che poteva celare due corpi intenti ad esplorarsi a vicenda. Non arrivarono alla consumazione completa, per il momento, anche se ci andarono molto vicini.

Il problema era il solito dei matrimoni contrastati: i padri erano decisamente contrari da ambedue le parti. Il druido vide i due che si baciavano e si palpeggiavano e andò su tutte le furie.

Non aveva una spada, ma non l’avrebbe usata comunque. Aveva metodi più sottili. Era un druido di quelli più cattivi, ossia dei gradi più elevati dell’iniziazione segreta che, come tutti i segreti iniziatici, veniva dalla medesima fonte dai molteplici nomi: Doo, Baal, ed altri ancor meno piacevoli. Krom non si contentava di evocare spiriti e confezionare pozioni amorose o veleni, ma aveva compiuto sacrifici umani. La figlia “disonorata” poteva benissimo servire da vittima olocausta, ed egli, senza lasciar trasparire nulla, preparò la sua trappola. Radunò i boi e li arringò, con voce misurata e grande autorità:

— Figli di Tutates, ho avuto una rivelazione dal dio. Egli è irato con noi e ci ha scatenato contro i germani. Il perché ancora mi è oscuro, ma vi invito intanto a scrutare nei vostri cuori e a scrutarvi l’un l’altro, per scoprire se vi è fra noi qualche vittima che egli desideri gli sia offerta, perché gli dei talvolta hanno sete e noi dobbiamo placarli. —

Questo serviva a scatenare la caccia alle streghe all’interno della tribù, in modo che si accusassero l’un l’altro, “annusandosi” a vicenda, ossia cercando “segni” dimostranti che un membro, maschile o femminile, di essa, aveva recato offesa agli dei, o comunque era da loro desiderato come vittima. Perché questo era il lato oscuro del paganesimo: una fede in dei capricciosi, che a volte si comportavano con giustizia, altre volte infierivano senza un apparente motivo. Infatti, menti ancora primitive non riuscivano a distinguere il Bene supremo, dal quale avevano ricevuto la morale naturale, e che dava loro l’aspirazione alla giustizia e alla protezione del debole, dagli impulsi che provenivano da tutt’altra fonte.

All’atto pratico, le persone “annusate” erano — chissà perché? — quelle che davano ombra a qualcuno: le donne mature che stavano sfiorendo cercavano di inguaiare qualche bella giovane, il seduttore di rovinare il marito della propria amante per levarlo di mezzo, o il marito cercava di liquidare moglie e amante (più raffinato vederli bruciare vivi invece di un semplice e quasi indolore sbudellamento), il pastore che aveva bestie brutte e malate se la prendeva con quello che aveva greggi e armenti migliori.

E quando, a forza di guardarsi con sospetto l’un l’altro, fossero stati tutti coi nervi a fior di pelle, pronti ad estrarre la spada l’uno contro l’altro, il druido poteva finalmente annunciare che il dio gli aveva “rivelato” che la tale persona era per qualche motivo “desiderata” dal dio, così che poteva far fuori chi voleva. Non era bene che il padre dimostrasse di accorgersi che la figlia si dava a uno straniero, invece di aspettare che lui le si scegliesse un marito. Non era tanto la lussuria, ma la disobbedienza a costituire motivo di scandalo. Ma se fossero stati gli dei stessi a pronunciarsi, l’onta della figlia poteva lavarsi in modo impersonale e distaccato, senza perdere la faccia. La moglie avrebbe pianto un po’ per la perdita della sua creatura: era inevitabile, ma agli dei non si poteva dire di no.

Ma quale trionfo, quale potere gli offriva quell’occasione: al popolo avrebbe mostrato che la sua devozione religiosa era tale da non esitare perfino davanti al sacrificio dell’“adorata figlia”, mentre al cospetto dell’essere oscuro che serviva avrebbe acquisito un “merito” enorme. Un druido che aveva sacrificato un proprio figlio, aveva ottenuto il potere di uccidere col pensiero, ed egli sperava di riuscirci a sua volta. L’essere oscuro, lo scimiottatore di Dio, l’angelo caduto, andava pazzo per i sacrifici dei figli, dopo che, in Oriente, Abramo aveva condotto il figlio Isacco al sacrificio, ma naturalmente un angelo aveva fermato la mano del patriarca, perché il vero Dio non voleva sacrifici del genere.

I romani, pur essendo pagani, odiavano in sommo grado i sacrifici umani, e per questo li repressero sempre con estrema durezza ogni volta che capitò loro di incontrarli fra molte tribù celtiche, in particolare nelle profondamente barbariche isole britanniche e, nel Mediterraneo, tra i Fenici. La tutela della vita era maggiore, nella Roma pagana, come in Grecia, di quanto non sia oggi. Il giuramento di Ippocrate conteneva una formula contro l’aborto, che il digrignante neopaganesimo odierno, peggiore del vecchio paganesimo, ha abolito. Il diritto romano, nel primo secolo avanti Cristo, aveva da tempo elaborato il civilissimo principio conceptus pro nato habeto (il concepito sia considerato come già nato). I celti già romanizzati del Norico, e che neppure prima avevano mai pensato che gli dei potessero volere sacrifici umani rituali e formali (al massimo la Morrigan poteva accecarli nella furia dell’uccisione a caldo durante una battaglia), stavano per entrare in contatto con la realtà oscura del peggior paganesimo dei loro confratelli boi della remota Gallia.

Avanzava l’autunno, e si avvicinava il giorno dei sacrifici, quello che dopo l’effetto umanizzante del Cristianesimo si sarebbe ridotto a un semplice giorno di treat or trick (dolcetto o scherzetto) dei bambini: Halloween, che oggi non è che una festicciola idiota. A quell’epoca il significato di un simile giorno, che si chiamava Samhain, era ben diverso.

Klin non immaginava ancora la minaccia sospesa sulla sua testa, e tanto meno ne aveva idea Martius, sul quale, invece, la tempesta, per quanto assai più mite, era già scoppiata. L’avevano visto “in azione” con Klin, e il solito “qualcuno” ne aveva riferito a suo padre, che gli fece una lavata di capo. Anche qui la “colpa” non era la lussuria, anzi (le prove di virilità erano sempre ben viste), quanto piuttosto quella di danneggiare la famiglia mescolandosi a una tizia di quella congerie di cenciosi individui come i boi.

Per Ercole! Martius era “di buona famiglia”, con eccellenti prospettive di matrimonio, e quello stupido non si limitava a spassarsela, ma dichiarava chiaro e tondo che senza Klin non poteva vivere, e che l’avrebbe sposata a tutti i costi. Allora suo padre che, all’inizio del colloquio, era piuttosto divertito che adirato, divenne furibondo. La lussuria andava benissimo, l’amore no, perché si scontrava con la prevaricazione familiare, l’ipocrisia, l’interesse e il satanismo druidico.

Nessuno dei due ragazzi sospettava quanto stava per accadere. Mancavano due giorni al momento fatale. Pioveva a dirotto, e questo era un bene, perché i roghi non bruciano bene sotto la pioggia. Martius non aveva incontrato Klin quel giorno, perché suo padre, senza dare minimamente segno di quello che stava tramando, aveva caricato la figlia di tante piccole incombenze da non darle tempo di incontrare il ragazzo, e infine l’aveva mandata ad attingere ad un lontanissimo ruscello, con la scusa che l’acqua lì era migliore. Martius andò a letto col cuore stretto. Prima di addormentarsi, in preda ad una profonda nostalgia, pregò caldamente Giove Ottimo Massimo di fargliela almeno vedere in sogno.

Si svegliò verso l’alba, cioè all’ora che molti popoli antichi ritenevano fosse riservata ai sogni veritieri e premonitori. Era coperto di sudore, angosciato, terrorizzato. Ricordava in ogni dettaglio l’incubo orrendo appena sofferto. Aveva visto un demone spaventoso curvo su Klin addormentata, con le fauci grondanti sangue, e aveva sentito che era preda di una terribile droga che non le avrebbe permesso di fuggire o difendersi. Per un attimo il demone aveva assunto le sembianze, mostruosamente distorte, del padre di lei. Poi afferrava la vittima con gli artigli e la portava verso un orrendo rogo. Investita dalle fiamme, lei si dibatteva, spalancava gli occhi e guardava verso di lui, supplicando aiuto, e lui non poteva muoversi, come inchiodato al suolo. Si rivolgeva a suo padre, implorando il suo intervento, e quello rideva. E intorno al rogo ballavano e ululavano innumerevoli mostri e mostriciattoli di forme mai viste, tutti zanne insanguinate e artigli.

Si alzò, indossò la toga e mise ai piedi i calzari. Stava ancora piovendo e non aveva alcun riparo, ma uscì ugualmente di casa di soppiatto e si diresse verso l’accampamento dei boi. Una luce livida cominciava a filtrare tra le nubi a oriente. Tutti dormivano. Trovò a tastoni, o forse guidato da un Dio, la tenda di lei. Improvvisamente, come se il medesimo Dio la guidasse, lei fece capolino dalla tenda, Era stravolta. Vicino a lei, padre e madre dormivano, russando.

— Ah, grazie a Tutates, sei tu — bisbigliò lei.

— Vieni fuori, devo dirti una cosa. —

— Anch’io. —

Si allontanarono insieme, in tutta fretta, camminando a caso. Si fermarono sotto una quercia che li riparava un po’ dalla pioggia.

— Ho avuto un incubo spaventoso … — cominciò lui.

— Anch’ io — ripeté lei.

Martius allora le raccontò quello che aveva sognato. E lei raccontò l’identico sogno, visto dalla parte di lei. Non poteva muoversi, e un mostro orrendo era curvo su di lei, e così via. Tutto identico.

— Klin, non può essere un caso. Ricordo di aver pregato Giove Ottimo Massimo perché potessi vederti almeno in sogno, e questo è il risultato. —

— E io ho pregato Tutates. —

— Tuo padre fa sacrifici umani? —

— Li ha fatti, ma credo che gli dei lo vogliano. —

— Ma quali dei? Non possono essere che demoni. —

— Cosa facciamo? —

— Fuggiamo. —

— Ma come? dove? — Tre millenni erano trascorsi dall’epoca di Kijr e Alin, quando una coppia poteva svignarsela nei boschi e, vivendo di caccia, attraversare mezza Europa. Martius, giovane civilizzato con la toga e i calzari di lusso, e la sua Klin, non sarebbero sopravvissuti. Egli se ne rendeva conto benissimo. Boschi e selvaggina ce n’era ancora a iosa, ma erano l’addestramento e la resistenza che mancavano.

— Mio padre è nostro nemico — constatò sconsolato Martius.

— E anche il mio, se il sogno non ci ha ingannato. —

— C’è una debole speranza. Qui vicino c’è la villa di mio zio Marcus, una grande villa, con le terme. è un uomo autorevole, fratello maggiore di mio padre. A volte è stato in contrasto con lui, non so perché. è l’unica nostra speranza. —

— Ci caccerà. Perché dovrebbe aiutarci? Voi norici odiate noi boi. Ci odiate e ci disprezzate. —

— Gli racconteremo del sogno. Crede nei presagi. E odia i sacrifici umani, come tutta la gente civile. Non li fanno i romani, non li fanno i greci. —

— Va bene, proviamo. —

Era metà mattinata quando giunsero alla villa di Marcus, l’edificio più importante di tutta la zona. Alla gente del posto sembrava uno spettacolare monumento, ma di fronte alle vere ville romane del sud avrebbe fatto una magra figura. Lo schiavo portinaio riconobbe Martius e condusse i due ragazzi nel peristilio, dove, seduto davanti ad un tavolo, stava lo zio. Aveva un rotolo di papiro davanti e stava leggendo, arrotolandolo lentamente con una mano dalla parte superiore e srotolandolo da quella inferiore. Si trattava del De agricultura di Catone.

— Vale, Martie, quid novi? Quis est pulchra puella ista? — Lo zio era l’unico uomo della regione a parlare un latino che non avrebbe fatto troppo sbellicare dal ridere i veri romani.

In un “sermo rusticus” appena un po’ incivilito, Martius raccontò tutto. Tremava di paura e di freddo, e la ragazza più di lui.

— Quod dicis valde horrendum est — commentò lo zio.

— Horrendum sed verum; — riprese Martius — pater puellae druidus est. Humana holocausta iam multa fecit. —

— Horrendum hoc est, — ripeté lo zio — nefas apud Jovem Optimum Maximum. —

— Quid agimus? —

— Nonne me quaeris quid facere? —

— Rogo te ut aliquid agas. —

Ma non era semplice decidere. Il Norico era stretto alleato di Roma, amicus Populi romani, tuttavia non era ancora provincia dell’impero. Se lo fosse stato, si sarebbe potuto avvertire il magistrato locale, che avrebbe istruito un processo, non per quello che intendeva fare, ovviamente, ma per i sacrifici già compiuti. Crimini del genere comportavano la pena di morte. Infine lo zio decise di agire con i propri mezzi. Era abbastanza importante da poterlo fare, senza che alcuno osasse chiedergliene conto. Mandò un servo a prendere vestiti asciutti per i due ragazzi, un altro ad avvertire il fratello che Martius era presso di lui e doveva restarvi. Poi ordinò di radunare il reparto di cavalleria territoriale che era sotto il suo comando. In tutto sessanta uomini, che furono in sella e armati già nel primo pomeriggio.

Martius e Klin rimasero nella grande villa, sotto la protezione dell’imponente matrona, moglie dello zio, con contorno di fedeli schiavi armati, nel timore che i boi venissero a sapere dove si trovava la figlia del druido e facessero qualche colpo di testa. Stranamente, i ragazzi sembrarono gradire poco di essere sorvegliati a vista. Infatti si appartarono in una stanza e si dedicarono a conoscersi meglio. E la matrona, sentendo quello stavano facendo, si domandava, con un po’ d’invidia, come mai suo marito non fosse mai arrivato a farla gemere così.

Lo zio, dopo un breve pranzo, si era messo alla testa dei cavalieri e si diresse verso l’accampamento dei profughi boi. Lo trovò in subbuglio. Il druido aveva parlato alla folla, blaterando che un grave sacrilegio era stato perpetrato. La vittima olocausta indicata dagli dei, era stata rapita da una mano sacrilega, e bisognava cercarla. Intanto aveva smesso di piovere, e il rogo avrebbe potuto venire benissimo, illuminando piacevolmente la serata.

Ma i boi, che erano diverse centinaia, riluttavano a muoversi. Era ospiti mal tollerati, fra gente forte che sapeva difendersi. Il druido era furioso e stava nuovamente arringando la folla. Gli dei erano gli dei, per Tutates, e non si poteva deluderli o resistere alla loro volontà, gli dei avrebbero senz’altro punito chi tardava a fare la loro volontà, che si rivelava solo ai druidi. Nel bel mezzo del suo comizio, arrivarono i soldati. Marcus a cavallo gli si fece incontro e lo affrontò. Parlando in celtico, lo accusò di fronte alla folla senza mezzi termini, mentre i sessanta cavalieri stavano rigidi e tesi, in doppia linea, dietro di lui, con le lance spianate.

— Siete venuti a cercare rifugio fra noi e vi abbiamo accolto come fratelli. Ma voi pretendete di portare qui le vostre usanze barbare che suscitano l’ira degli dei. Tu, druido, sei bandito per aver compiuto sacrifici umani, dei quali siamo ben informati. Chi vuole può seguirti, chi preferisce restare può restare, ma tu ripasserai il dio Danuvius e mai più, a nessun patto, rimetterai piede in queste terre, pena la morte. —

La faccia del druido si contrasse in un’espressione di furore che lo fece somigliare in modo straordinario al mostro dell’incubo di Martius e di Klin.

— Uomo, tu non puoi vincere gli dei — ruggì.

— I miei dei non sono i tuoi. I miei dei sono dei di popoli civili, e odiano i sacrifici umani. Nel caso che tu rifiuti di obbedire o che ritorni qui, sarai immediatamente messo a morte, e gli dei, i miei dei, approveranno. Muoviti. —

E il druido si mosse, maledicendo tutti. Con la moglie e le sue poche cose, scortato da una pattuglia, si avviò verso il settentrione. Dei boi non lo seguì nessuno. I cavalieri lo scortarono fino al Danuvius e lo obbligarono a passarlo su una piccola barca abbandonata e mezza marcia che trovarono nei pressi. Restarono a guardare il druido e la moglie che faticosamente remavano verso la riva settentrionale, tenendoli sotto mira con gli archi. Una grossa banda di germani bivaccava nei pressi. I barbari furono molto interessati a quella strana coppia celtica e il capo interrogò i due, ma visto che non capiva un’acca di quello che rispondevano, lasciò che i suoi si divertissero un po’ con loro, solleticandoli e tagliuzzandoli con le spade, prima di farli decapitare e di infilare le loro teste su dei pali lungo la riva.

L’incontro fra il padre di Martius e l’autorevole zio fu tempestoso, ma quest’ultimo ebbe la meglio. La conservazione e l’accrescimento della ricchezza che tanto stava a cuore al fratello minore, non era un bene assoluto, spiegò. Essere appagati nella vita significava ben altro, e chi è appagato e sereno starà meglio anche dal lato materiale.

Frattanto si annunciò un nipotino, perché Martius e Klin, che aveva deciso di mutare il suo nome in Livia e di imparare al più presto il latino, si erano dati parecchio da fare, e questo finì per rasserenare l’atmosfera, e il padre permise al figlio di tornare a casa. I due ragazzi si sposarono con la confarreatio, il rito solenne romano, che rendeva il matrimonio indissolubile. Era per la prima volta che lo si celebrava nel Norico. Fu un matrimonio fecondo e felice, nei molti anni che Giove Ottimo Massimo, o piuttosto l’unico vero Dio che stava per incarnarsi, concesse loro.


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