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LA POESIA GENOVESE NEL SEICENTO

GIANGIACOMO CAVALLI

L’OPERA (SEGUITO)

La seconda parte della “Chittara Zeneize” comprende le “Rime Varie” e cioè “La Corona a Nostra Signora”: sonetti di contemporanei del poeta e risposte di lui a costoro; un sonetto in lode della lingua genovese; sette lunghe canzoni per l’elezione di altrettanti dogi della Repubblica e la canzone bellissima “Invia ra Musa a ro bosco per cantà de armi”.

Nelle prime edizioni “La Corona a N. Signora” si trovava alla fine della prima parte; in quelle successive è invece collocata al principio della seconda.

Essa consta di nove sonetti collegati l’uno all’altro con quell’artificio che i provenzali chiamavano cap-finida, usato anche da Fra Guittone d’Arezzo in una serie di sonetti. Ma qui v’è nulla di artificioso perché quel verso che chiude un sonetto ed apre il successivo, conferisce a tutta la Corona un tono di affettuosa insistenza sommamente efficace. Anche l’invocazione alla Vergine che si ripete con frequenza, non genera noia, ma fa pensare alla tranquilla confidenza dell’amico che chiama l’amico.

Si affaccia alla mente del poeta il pensiero della morte e non ne prova sgomento, ma quel senso di misterioso timore che invade chiunque al di là della morte non vede il nulla tenebroso e profondo, ma l’infallibile giudizio di Dio. Egli ricorda però che la Vergine non gli ha mai negato la sua protezione e con fede sicura la prega di venirgli in aiuto quando dovrà passare la soglia dell’eternità. Questo è il pensiero dominante che apre il primo sonetto e conclude l’ultimo:

Sciù l’ora estremma, che no so ro quando

Quando, reduto all’urtimo partio,

Questo Mondo per mi sarà finìo,

Vergine cara, me v’arrecomando.

Quella Grazia, ond’avei tanto comando,

Che m’avei tante votte compartìo.

Perché in fin ro favò reste compìo,

Vergine, fin ch’ho sciòu ve ra domando.

Vorrebbe poter cantare a Maria le sue lodi, ma la vena si è esaurita nei canti, negli amori profani onde l’anima si è smarrita e gravata così che se Ella non interviene a fargli da guida, non riuscirà a compiere felicemente il viaggio:

Donca a fin ro resto do viaggio

Onde l’annima indaerno s’ascramanna,

Per uscì da lè sola de travaggio,

Per fàme Voì che poei ra stradda cianna,

Incaminaeme con ro vostro raggio

Voì che sei ra mae stella tramontanna.

Se, guidato dal suo lume divino, potrà giungere al Paradiso, tutti gli spazi infiniti ed eterni di quel regno beato echeggeranno di lodi, di grazie a Maria: un duplice coro di Muse e di Angeli, narrerà le misericordie da Lei ovunque largite ai morti e ai viventi. Allora Dio:

Quello Sò, che ro Çe tutto innamora

Che dapertutto in luxe se comparte,

Tutto in ro tutto e tutto in ogni parte,

Adoroù, non capìo fin’a quest’ora.

mostrerà il nome di Genova gradito e in modo speciale ricordato lassù. Stupiranno gli stranieri a tanto favore e commossi, devoti, volgeranno il cuore alla Vergine; uno più devoto e più commosso degli altri, fisserà in Lei lo sguardo riconoscente: quello che sarà Gian Giacomo Cavalli, che

De lascivie di versi sospirando,

Souza (o dixe) Signora, ogni mae fallo

Sciù l’ura estremma, che no so ro quando.

Così questo pensiero dell’ora estrema, che è come la nota dominante, l’idea centrale, apre e chiude la Corona sacra che viene ad acquistare perciò quell’ordine, quell’armonia che è propria delle cose interamente compiute.

Le canzoni composte per l’elezione dei dogi sono disposte secondo l’ordine cronologico della composizione. La prima è quella che ha per titolo: “Ballin Ambasciòu di Pescoei a ro Serenissimo Zorzo Centurion, Duxe da Republica de Zena”. Fu composta certamente nel Giugno 1623 perché Giorgio Centurione fu eletto doge il 25 giugno di quell’anno. Ma costui non volle accettare, per eccessiva modestia o perché la Repubblica era minacciata da bufere che il nuovo doge non si sentiva di affrontare: l’onorifico ufficio fu quindi offerto e accettato da Federici de Franchi, figlio e padre di dogi. Alla canzone che, secondo il costume, il poeta stesso avrebbe recitata nella festa dell’incoronazione, venne così a mancare lo scopo per cui era stata composta. Ciò non toglie per altro che delle sette canzoni destinate ai dogi, questa sia la più bella: armoniosa nella forma, sobria ed elevata nei concetti, umile pur non cessando di essere dignitosa e composta. Grande ammirazione essa destò anche fra i letterati del tempo, uno dei quali, il P. Tomaso Ceva, della Compagnia di Gesù la preferiva al Panegirico di Plinio a Traiano. In effetti queste agili strofe non hanno la pesante ridondanza del panegirico pliniano come vi è estranea l’adulazione e il servilismo in cui, pur protestando che non intende adulare il principe, Plinio si lascia andare. Dopo un breve esordio ispirato ad un vivo sentimento della natura, il poeta si rivolge al doge semplicemente così:

Parlo in nomme de tutti, son ben çerto,

Gran Duxe, che parrò troppo arrogansa,

Per no dì confiansa,

L’ardì mi mora d’arrivà tant’erto:

Che ri Scettri e Coronne

Non se confan con povere personne.

Ma noì, che apenna d’in Levante uscìo

Ro Sò veghemmo in fronte

A ra ciazza, o ro monte

Indeferentemente compartìo,

Pà che agemmo a certessa

In ra maesma bassessa,

Che ra mesma raxon milite a voere

Con noi de chi sei So, de chi sei poaere.

È un elogio più umile e insieme lontano da ogni bassezza, spontaneo e doveroso riconoscimento dell’altrui grandezza, ma al tempo stesso un monito severo, che richiama a quella giustizia verso la quale chi regge le sorti di un popolo deve sempre tenere fisso lo sguardo. Ma non pare che il paragone fra la canzone del genovese e il panegirico del latino si sia presentato alla mente di Padre Ceva per caso, ma piuttosto per certe rassomiglianze da cui si deduce che il Cavalli non doveva ignorare l’orazione di Plinio. Infatti, accennando alle lodi che tutti fanno a Giorgio Centurione, dice:

Chi ve prica per ommo de gran pieto

Chi per un Marte valoroso e forte;

Repubblichista a morte;

Chi per un Salomon savio e discreto;

Chi per raero Scritò;

Chi per eloquentissimo Oratò.

pare che ricordi le parole dirette a Traiano: “Et populs quidem Romanus dilectum principum servat, quantoque paulo ante concentu formosum alium, hunc fortissimum personat: quibusque aliquando clamoribus, gestium alterius et vocem; huius pietatem, abstinentiam, mansuetudinem laudat.” E allorché, pochi versi dopo, il poeta genovese aggiunge:

Atri van ciù avanti, incomençando

Fin quando eri figgeû,

Con dì ch’ei mostroù ceù

Sempre d’esse nasciùo pe ro comando

In fin tra lò s’accorda

Tutti uniti a unna corda,

Che da vostra virtù ciù degno impiego

Ra Coronna sarae d’un Mondo intrego.

Non rievoca ancora una volta l’orazione all’imperatore quando dice: “unum ex omnibus patrio more, patria virtute laetari et sine aemulo ac sine exemplo secum certare, secum contendere ac sicut imperat solus, solum ita esse qui debeat imperare”?

Senonché il poeta a un certo punto si lascia prendere la mano dalla fantasia e fa un salto nel favoloso: egli narra le feste, i concilii, i tripudi di tutti i pesci in lode e in onore del doge. Tuttavia la canzone può piacere anche per questo: sebbene il Cavalli narri cose non vere e nemmeno verosimili, lo fa con tale ingenua semplicità, con grazia così fanciullesca, che il lettore sorride di quello spirito bizzarro che non si sa bene se parli sul serio quando aggiunge:

Come in somma, Signor, che se aora odisse

Mi maesmo quarc’un’atro raccontàre.

Tremerae d’ascoltàre

No che de craere, solo se re visse:

Dirae che tra Poeti

Dirae s’usan per fòre e diti consueti.

La canzone si chiude con una breve stanza di commiato in cui è racchiuso un ultimo saluto e un augurio per il doge.

Segue la canzone dedicata a Leonardo Dalla Torre, incoronato il 30 Giugno 1631. È una poesia ricca di pregi e difetti, di questi il primo è la sproporzione. Dopo l’invocazione alla Musa che si prolunga per tre intere strofe, il suo pensiero si innalza a volo audace e sublime affrontando i più ardui problemi di filosofia etica e politica. Considera lo spirito e la materia, la lotta fra il bene ed il male: la stoltezza dell’uomo che, dimentico del suo vero fine, si smarrisce in ridicole vanità e nella sua penosa piccolezza, così tracotante da alzare il capo contro il Cielo dichiarandogli ribellione e guerra. Tutto questo condensa in un’unica stanza di una potenza singolare:

De Torre in sciù re çimme

Muza, da ti rapiù

Aquilan m’aerzerò fin a re stelle.

Là ra re coaze primme

L’intelletto spedìo

Barançereà queste sostanse e quelle.

De fumi e bagatelle

Vità pasceze un terra

L’ommo a ro Çe nasciùo,

E mèuve ingrato e cruûo

Contra ra maesmo Çe contrasto e guerra,

Superbo, rebellante,

Pigmeo pretensò d’esse gigante.

Nella stanza successiva sfiora altri problemi non meno preoccupanti e tormentosi per l’umanità, come le cause e gli accidenti; il fondamento dei governi e degli stati; dove sia e in che consista la felicità dei popoli. E qui il pensiero del cancelliere genovese si accosta talmente dal pensiero di Platone che quasi lo riflette. Infatti, là dove dice:

Mirerà comme in spegio

De raggi trasparenti

Scrite in re carte di Decreti eterni,

Do ben nostro e do megio

Re caoze e ri aççidenti,

Ri fondamenti e ri segretti interni;

Che ri Imperii e Governi

De questo Mondo chie,

Onde ognun tanto aspira,

Chi ben dentro ri mira,

Tanto son veri Imperii e Monarchie,

In quanto de lasciùe

Han reixe e fondamento e ninte ciùe.

Ricorda le parole che Platone fa pronunciare da Socrate nel libro della Repubblica Peccato che a questi argomenti il poeta accenni fuggevolmente e subito passi oltre; così la canzone che si annunziava vigorosa e profonda, si esaurisce e declina. Esce a questo punto dal Paradiso una donna di aspetto regale:

Che a l’un di fianchi appeizo

Stocco in oro luxeente

Per pompa o per usanza,

Che in ma ten ra baransa,

Con ra quà, per n’udii chi ciù lamente,

Streita in arme a cavallo,

A l’andà in Çe per abità de stallo.

Questa donna dal piede di neve, che lascia, ove passa, impronta di latte, che percorre giardini lastricati di perle e diamanti ove fiorisce primavera perenne, è “la Giustizia”, la quale coglie i fiori più rari e ne intreccia una vaga, prestigiosa corona che il poeta è incaricato di portare al nuovo doge. L’idea non è nuova, ma avrebbe potuto offrir lo spunto a divagazioni ingegnose, a voli di potente lirismo; invece il poeta si smarrisce in descrizioni minute, in una esagerata ricerca dei particolari e questo frantumare, spezzettare gli argomenti indica mancanza di ispirazione. Allora non si riesce più ad innalzare l’umano alle proporzioni del divino, ma ciò che è divino si abbassa fino a toccare i confini della povera umanità. È appunto ciò che fa il Cavalli quando alla Giustizia che gli affida la corona destinata al doge fa dire così:

A quello gran Leonardo

Portara chi ha in governo

De Zena e da Liguria aora ro Stato;

Che con provido sguardo

Con conseggio paterno

Sèze aora Duxe in quello gran Senato:

D’intelletto tanto àto,

De bontae così raere,

De virtù così sode,

Degne de tanta lode,

Eletto con re balle a çentenaere

Primma in Çe che a ro mondo,

Da ro Çe, chi no vosse esse secondo.

Pensare che l’elezione di Leonardo Dalla Torre fosse avvenuta in Cielo prima che sulla terra è poetico e cristiano; ma immaginare che i Beati del Cielo la effettuassero con mezzi così prosaici come le elezioni nostre e per di più affrettandosi per “non esser secondi” agli uomini, è ridicolo. Il tono si rialza alquanto allorché la Giustizia raccomanda di riferire al doge:

Che intrepido o sostegne

Con ceù libero e franco

Ro peizo do Governo e do Comando:

Che incorrotta o mantegne

Pe ra ciù, pe ro manco

Ra Giustizia, che in Lè se sta spegiando.

Ma siamo oramai alla fine: l’assicurazione che Dio proteggerà sempre Genova, la canzone finisce.

Il 9 luglio 1633 cingeva la corona dogale Gian Stefano Doria. Non difficile compito era il celebrare l’elezione di questo cittadino, insigne per l’antica nobiltà del nome, per le imprese degli antenati, per le sue virtù personali. Egli era infatti colui che nel 1625, dovendo in Senato giudicare i traditori, corrotti dal Duca di Savoia, che avevano congiurato ai danni della Repubblica, fu di parere che si dovessero condannare a morte. Né la sua sentenza mutò per le proteste del Duca di far subire la stessa sorte ai patrizi genovesi suoi prigionieri di guerra, né per il fatto che tra questi si trovava un suo figlio. Eppure il poeta dura fatica a trovare la vena e delle nove stanze che compongono la canzone, ben quattro ne spende a invocare ora le Muse, ora Apollo, che rispondono fiaccamente. Entra finalmente in argomento con rapidissimo accenno alle imprese compiute dai Doria sulle spiagge dell’Africa e dell’Asia contro i corsari e i barbareschi; di Oberto Doria, vincitore alla Meloria, di Lamba vincitore a Curzola, di Pagano, di Pietro non meno valorosi in guerra che prudenti in pace, si contenta di ricordare i nomi; del grande Andrea Doria non dice che poche parole; al Doge stesso, nobile e forte figura di romano antico, non dedica che pochi versi freddi e scialbi che potrebbero indifferentemente adattarsi a qualsiasi altro:

Onde ro So, che da foì Adam e Eva,

In queste ò in atre bande

Ommo non vì per cortesi ciù grande:

De dentro armòu de caritae divinna,

Tra ri grandi grandissimo; e in so stato

Basso, quanto ciù àto,

Quanto ciù ricco come ra marinna:

Bon, giusto, pio, da tutti ben vosciùo,

A l’imperio no faeto, ma nasciùo.

L’impressione generale che si ricava da questa canzone è che il Cavalli l’abbia composta in brevissimo tempo per compiacere qualche amico o addirittura per eseguire un ordine: vi si sente la fatica di chi sopporta un peso e la fretta di deporlo.

Non certo più bella è la canzone quarta composta in onore di Agostino Pallavicino. Dotato di grande virtù e di abilità politica non comune, costui aveva eseguito per conto della Repubblica, importanti ambascerie ed era giunto alla carica suprema di Doge dopo aver percorso onorevolmente tutti i gradi della magistratura: era quindi ben giusto che le virtù dell’uomo e le benemerenze del cittadino il poeta nei suoi versi esaltasse, ma egli lo fa con tale groviglio di frasi vuote e inutili, che le poche idee e concrete si oscurano, e si arriva alla fine della lunga canzone, senza avere un’idea esatta del Doge che la Repubblica si è scelto il 13 luglio 1637.

Alquanto migliore di questa, non foss’altro per una certa scioltezza e vivacità di forme, è la canzone al Serenissimo Giambattista Durazzo: 28 luglio 1639. È scritta in un metro più agile e vario, in stanze di sei versi rimati a coppia, e vi si riesce anche a trovare qualche concetto felice come quello sulla Divina Provvidenza. Ma sono esempi solitari che occorre cercare pazientemente fra giri di frasi tortuosi come questi per dire che Giambattista Durazzo è gentile, virtuoso, giusto:

Quelle grazie chi s’onoran

Sempre tanto d’abitàro

Quelle parte che a miràro

Innamoran.

Chi ro mostran per strafòra

Dentro e fèura tutto d’oro.

Quello cèu, cascia e minera

De virtù tutte a baransa

De Giustisia e Temperansa;

Quella cera,

Che in fa grazie e porge aggiutti

Pà nasciùa tutta per tutti.

Queste tante, che narrare

No porreiva un anno intrego,

Che Oratò Latin in Grego

Per laodàre

A bastansa manco in somma

No averiva Atene o Romma.

Le ultime due canzoni sono lunghissime: una è intitolata: “Applauso de Zena e tempomegio do Parnazo per l’elesion do Serenissimo Girèummo De Franchi Duxe”, 8 Settembre 1652, e comprende trenta lunghe stanze; l’altra è di cinquanta stanze e venne composta in onore di Alessandro Spinola, eletto Doge il 9 ottobre 1654.

Gian Giacomo Cavalli aveva già raggiunto, o stava per raggiungere i settant’anni: il suo corpo era stanco, lo spirito affaticato; aveva cessato di essere poeta, ma non aveva ancora rinunciato alla piacevole abitudine di dire parole in rima e, sollecitato dagli amici, si lasciava tentare. Nessuna meraviglia se le due canzoni riescono due povere cose scialbe. Idee ormai trite, concetti ripetuti e cantati in tutti i toni, sono ripresi e ricantati ancora in una forma scabra e monotona.


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