IS GOD EEN MOLOCH?
ANTOLOGIA DELLA POESIA NEDERLANDESE E AFRIKAANS
Il curatore di questa antologia, Emilio Biagini, è autore di romanzi, racconti ed opere teatrali e confessa, non senza vergogna, di essere anche professore universitario, e cioè di essere riuscito ad entrare, grazie ai propri avvocati, nella politicamente corretta casta di Cattedropoli, che è in gran parte marcia di relativismo morale e di grottesco (e contraddittorio) nichilismo, ma che offre l’inestimabile vantaggio di fornire un’inesauribile fonte di ispirazione per la satira.
Al Sudafrica ha dedicato un ampio studio scientifico (Sudafrica al bivio, sviluppo e conflitto, pubblicato da Franco Angeli, Milano), ha soggiornato per anni in tale paese, soprattutto all’università di Città del Capo, e poi nei Paesi Bassi, ed ha così avuto occasione di familiarizzarsi con le lingue nederlandese e afrikaans e con le relative letterature. Dall’esperienza sudafricana è pure scaturito il romanzo “La nuova terra”, in stampa presso le Edizioni Fede & Cultura di Verona.
Questa è una selezione di alcune fra le più significative opere poetiche nederlandesi e afrikaans, con traduzione italiana. Ciascuna poesia è seguita da un breve commento, che mette soprattutto in rilievo i contenuti. Anche nello svolgersi storico della poesia di questi paesi appare evidente come il Cristianesimo sia stato l’ispiratore più alto e più fecondo, e come l’erosione delle radici cristiane abbia spalancato una voragine di sfacelo, non solo letteraria. La poesia cristiana era carica di significato e di insegnamenti, era “logos” umano che si avvicinava al “logos” divino. Perduto il “logos”, resta il balbettare deforme del politicamente corretto, lo sfacelo del senso della realtà e dell’esistenza, lo sprofondare nel nichilismo, nella bestemmia, nella cultura della morte, nell’insegnamento universitario che corrompe e tradisce gli studenti.
INTRODUZIONE
Questa antologia non è opera di uno specialista di filologia o di linguistica, per cui si cercherà invano in essa un’analisi scientifica, che l’autore, avente competenze accademiche in tutt’altri campi, non si è neppure sognato di poter fornire, mentre si è concentrato sui contenuti dei componimenti poetici scelti. Ha ritenuto importante porre in rilievo ciò che è universale nella poesia, ciò che tocca tutti gli esseri umani, di qualunque epoca e cultura, indipendentemente dalla forma e dalle ripartizioni per scuole. E naturalmente, per definizione, nessuna antologia può essere esauriente, ed anche questa certamente trascura non pochi autori importanti.
Riguardo al metodo scelto per la traduzione, esistevano varie possibilità, come ad esempio tentare di riprodurre la “magia” poetica con una traduzione che si sforzasse di essere altrettanto poetica, col rischio di tradire il significato originario, o limitarsi a una modesta traduzione in prosa che si limiti ad informare il lettore sul significato letterale della poesia. L’autore, conscio dei propri limiti, si è limitato a seguire questa, e più facile, soluzione.
IL QUADRO LINGUISTICO
IL NEDERLANDESE
La lingua nederlandese, parlata da circa ventidue milioni di persone tra Paesi Bassi, Brabante belga e Fiandre (ossia la metà settentrionale del Belgio), Surinam (ex Guiana olandese) e alcune isole delle Antille, è la terza lingua germanica per importanza, dopo l’inglese e il tedesco. È caratterizzata da cospicue differenze dialettali e da influenze inglesi a nord e francesi a sud. Ad esempio, “appartamento” si dice flat in nord-nederlandese (olandese) e apartement in sud-nederlandese (fiammingo), una persona rigidamente noiosa è hark nel nord e reek nel sud, mentre la nebbia è damp in olandese e nevel in fiammingo.
Il nome nederlands deriva da Nederland, terra bassa. Nel Medioevo la lingua veniva chiamata dietse nelle Fiandre e duutsc nel Brabante, da diet, popolo (equivalente all’antico alto tedesco diot), per indicare che si trattava della lingua popolare, in contrapposizione al latino, lingua della cultura. In modo analogo, il tedesco, nell’alto medioevo, veniva chiamato diutisk. Tali termini arcaici derivano tutti dal protogermanico theudo, che significa “popolo”.
Dal sec. XV si usò il termine nederduits (basso tedesco). Dopo la pace di Vestfalia del 1648, i Paesi Bassi cessarono di appartenere al Sacro Romano Impero, ciò che favorì il loro sganciamento, anche linguistico, dall’area dei dialetti tedeschi settentrionali, con i quali mantengono tuttora in comune l’aver evitato il secondo scivolamento consonantico (zweite Lautverschiebung) dell’alto tedesco, realizzatosi tra il V sec. d.C. e la prima metà del VIII sec. (Tab. 1).
DIALETTI GERMANICI PRIMA DEL SECONDO SCIVOLAMENTO CONSONANTICO E LINGUA NEDERLANDESE STANDARD ODIERNA |
DIALETTI GERMANICI DOPO IL SECONDO SCIVOLAMENTO CONSONANTICO |
ITALIANO |
maken |
machen |
fare |
dorp |
dorf |
villaggio |
dat |
das |
quello |
appel |
apfel |
mela |
pund |
pfund |
libbra |
Tab. 1. – Esempi del secondo scivolamento consonantico.
Dall’inizio del sec. XIX, sotto la spinta di un’orgogliosa affermazione di identità, in contrapposizione alla Germania, la denominazione ufficiale divenne nederlands. Analogamente ad altre lingue germaniche, i filologi hanno individuato, nello sviluppo del nederlandese, tre fasi principali: antica (oudnederlands), media (middelnederlands) e nuova (nieuwnederlands), significativamente diverse sul piano lessicale (Tab. 2) e grammaticale.
OUD NEDERLANDS |
MIDDEL NEDERLANDS |
NIEUW NEDERLANDS |
|
ANTICO NEDERLANDESE |
MEDIO NEDERLANDESE |
NEO NEDERLANDESE |
ITALIANO |
ca.500-ca.1150 |
ca.1150-ca.1500 |
ca.1500 in poi |
|
suno |
sone |
zoon |
figlio |
vogala |
vogele |
vogeln |
uccelli |
dagola |
daghe |
dagen |
giorni |
brecan |
breken |
breken |
rompere |
gescrivona |
gheschreven |
geschreven |
scritto (part. pass.) |
Tab. 2. – Esempi delle trasformazioni lessicali del nederlandese.
L’ANTICO NEDERLANDESE
L’antico nederlandese nasce dall’antico germanico occidentale nella seconda metà del I millennio d.C. Ne sopravvivono documenti molto limitati: (1) parole isolate, toponimi e nomi personali in testi latini, (2) i voti battesimali di Utrecht fatti pronunciare da San Wynfrith (San Bonifacio) (742), (3) la traduzione dei salmi detti “salmi carolingi” o “salmi di Wachtendonck” (ca. 950), (4) la famosa poesia “Hebban olla vogala” (ca. 1050), contenuta nella presente antologia.
La frase più antica risale al sec. VI ed è contenuta nella Legge salica (sec. VI). Si tratta della formula di liberazione di uno schiavo: “Maltho thi afrio lito”, ossia, in nederlandese moderno, letteralmente, “[ik] meld: [ik] bevreije je, laat”, e in lingua più sciolta. “ik meld: ik laat je bevreijen”, in italiano: “rendo noto che ti lascio libero”.
“Gelobistu in Got alamehtigan Fadaer”, è un esempio della lingua nei voti battesimali di San Bonifacio, l’eroico missionario nato in Inghilterra da una prospera famiglia della zona di Exeter (ca. 675-ca.755), evangelizzatore di ampie regioni della Germania, della quale nazione divenne metropolita. Fu martirizzato dai Frisi pagani, presso i quali si era recato, all’età di ottant’anni, in un’ennesima missione evangelizzatrice. I dialetti germanici formavano, all’epoca, un complesso mutuamente comprensibile, dal quale solo a poco a poco vennero emergendo i diversi idiomi nazionali. Le analoghe formule del catechismo dello stesso S. Bonifacio per i sassoni continentali (es.: Domanda: Forsachistu diobolae? Risposta: Ec forsacho diobolae. D. End allum diobolgelde? R. End ec forsacho allum diobolgelde. Traduzione: “Rinunci al diavolo? Rinuncio al diavolo. – E a tutta l’adorazione dei diavoli (idolatria)? E rinuncio a qualunque idolatria.”) erano con ogni probabilità comprensibili, all’epoca, agli anglo-sassoni come ai nederlandesi, ai tedeschi del nord e pure a quelli del sud.
L’areale odierno della lingua nederlandese era, dal punto di vista linguistico, un mosaico di dialetti lievemente differenti l’uno dall’altro. I dialetti occidentali erano ingveoni o d’influsso ingveone (olandese, fiammingo occidentale), mentre dialetti frisoni si parlavano in Frisia, nella regione di Groninga e lungo la costa olandese. Ad est (Achterhoek, Overijssel, Drenthe) si parlava sassone. La fascia di confine con la Francia, inclusa Dunkerque, era, all’epoca, di lingua nederlandese, ma la Francia, nella sua costante politica espansionistica e di assimilazione, anche in questa regione ha spostato verso oriente i confini.
I principali caratteri dell’antico nederlandese erano: (1) vocali sonore, (2) abbondanti desinenze, (3) libero ordine dei vocaboli. Col tempo, il nederlandese venne differenziandosi dai dialetti vicini. Rispetto al frisone il suono au germanico si trasformò in a lunga: ad esempio l’attuale toponimo Akersloot suonava, in antico frisone, Ekerslat. Rispetto all’antico alto tedesco, il secondo scivolamento vocalico non ebbe luogo. Rispetto all’antico basso tedesco, i verbi al plurale mantennero desinenze diverse, l’õ lungo divenne il dittongo oo, la desinenza dei sostantivi plurali divenne uniformemente a, mentre nel basso tedesco permanevano desinenze diverse; infine ebbe luogo la trasformazione di vocali da sonore in mute alla fine di ogni parola (Auslautverhärtung): ad esempio, weh, di contro all’antico basso tedesco wege (cammino, sentiero); divenne muto il suono h all’inizio (es. hring divenne ring, anello) e nel corpo delle parole (es. dihan divenne thion, vedere); le spirali [f] ed [s] all’inizio delle parole divennero sonore.
IL MEDIO NEDERLANDESE
In epoca medio nederlandese si moltiplicarono i documenti scritti, in seguito ad un lavoro letterario che vede all’opera l’aristocrazia, piuttosto che la Chiesa, la quale continuava ad usare in prevalenza il latino, sebbene cominciasse anch’essa ad usare il diets per l’evangelizzazione del popolo.
Nel sec. XII si distinguevano diversi dialetti basso-franconi occidentali: limburghese, fiammingo, brabantino, olandese, con diffusi influssi sassoni e frisoni.
Le tendenze del medio nederlandese furono: (1) progressiva deflessione, e quindi perdita delle declinazioni; (2) prosecuzione dell’indebolimento delle vocali sonore; (3) scrittura fonetica, per cui land (terra) veniva scritta lant, come pronunciata; (4) il gruppo ij veniva pronunciato come ui, mentre solo più tardi, nel nederlandese moderno, diverrà dittongo; (5) l’inclinazione per proclisi (una parola breve si attaccava a quella seguente, con relativa contrazione, come ad esempio tlant a significare het lant, la terra) oppure enclisi (la stessa cosa per la parola seguente, come gaedi, derivante da gaet ghi, seconda persona singolare di gaen, andare); (6); la sincope (le vocali divenivano mute all’interno di una parola: sinere trasformata in sine, suo); (7) l’apocope (lo stesso alla fine di una parola: nacht divenuta nach, dopo); (8) la caduta di ge nel participio passato dei verbi, come nel caso di venire, con gekomen trasformato in komen); (9) la doppia negazione (es.: hi ne mocht niet ontgaen, che in nederlandese moderno suona invece hij kon niet ontsnappen, in italiano “egli non poté fuggire”); (10) il verbo mogen (avere il permesso, la possibilità di …….) era quasi sempre equivalente a kunnen (potere).
Il più antico dialetto scritto è quello limburghese (regione di Maastricht, dal latino trajectus ad Mosam, passaggio o guado del fiume Mosa), e limburghese è appunto il primo poeta di cui si conosca il nome: Hendrijk van Veldeke, noto anche come Hendrik von Veldeke, per la sua incerta posizione di frontiera, geografica e linguistica, fra nederlandese e tedesco.
Ben presto raggiunsero grande importanza economica e culturale le Fiandre, meglio favorite sotto il profilo ambientale, perché meno bisognose di bonifiche. A partire dal Mille vi si svilupparono importanti Comuni come Brugge/Bruges e Gent/Gand, sede di intensi scambi commerciali e di manifatture laniere. Il dialetto fiammingo acquistò quindi un prestigio ed un predominio che durarono fino alla fine del sec. XV: nel suo ambito fiorì il primo grande poeta nederlandese, Jacob van Maerlant, e, più tardi, un altro grande: Anthonis de Roveere.
Nei secc. XIV e XV si ebbe, con Anversa, la grande ascesa politica ed economica del ducato del Brabante, dove la monaca Hadewijch si rivelò una delle poetesse più toccanti dell’area nederlandese, e il brabantino soppiantò il fiammingo come dialetto di maggior prestigio.
L’Olanda, per affermarsi, dovette invece attendere il sec. XVI.
IL NUOVO NEDERLANDESE
A differenza degli ambienti fisici relativamente favorevoli del Limburgo, delle Fiandre e del Brabante, l’Olanda nel Medioevo era una distesa di lidi sabbiosi e paludi salmastre, in cui la popolazione viveva spesso in modo precario su banchi di sabbia detti terpen: la regione cominciò ad essere faticosamente bonificata, a partire dal sec. XIII, mediante piccole dighe e pompe azionate da mulini a vento, e cioè solo quando lo sviluppo tecnologico rese possibili interventi sul territorio, dapprima limitati e, a partire dal sec. XVI, sempre più incisivi, quando un’improvvisa ondata di ricchezza investì le coste meridionali del Mare del Nord, in seguito ad un imprevisto fattore climatico.
Le aringhe prediligono temperature dell’acqua fra i 3 e i 13°C e, in seguito al periodo freddo della seconda metà del sec. XVI, i banchi di tali pesci abbandonarono le acque scandinave e migrarono in massa nella zona sudoccidentale del Mare del Nord, facendo la fortuna dei pescatori inglesi e olandesi. Fu questa appunto l’origine della prosperità dell’Olanda, permettendo crescenti investimenti nelle bonifiche e in altre opere pubbliche e private.
Già prima della costruzione del proprio impero coloniale, all’inizio del sec. XVII, l’Olanda era seconda per reddito pro capite al mondo, dopo l’Inghilterra. La ricchezza, tradottasi in potenza economica e tecnologica, rese possibili le imprese coloniali, soprattutto nelle isole delle spezie in Indonesia, e diede luogo all’imperialismo. Al contrario di quanto solitamente si afferma, la ricchezza favorì l’imperialismo, e non il contrario.
Si ebbe quindi un graduale spostamento dell’epicentro economico e culturale dell’area culturale nederlandese dal sud verso il nord. Un proverbio olandese recita: “De nederlandse taal is in Flanderen geboren, in Brabant opgegruid en in Holland volwassen geworden”: “La lingua nederlandese è nata nelle Fiandre, è cresciuta nel Brabante ed è divenuta adulta in Olanda”. Sotto il profilo linguistico, l’Olanda, divenuta ormai più dinamica, divenne l’area dei più intensi cambiamenti anche sul piano linguistico.
A partire dal sec. XVI si ebbe la caduta di molte sillabe non accentate e la completa scomparsa delle declinazioni. Altre modifiche furono la dittonghizzazione di ij (es. tijt, ossia “tempo”, pronunciato in medio nederlandese come tiet, venne pronunciato teit e scritto tijd) e u (es. huus, casa, divenne huis), scomparsa della doppia negazione e del congiuntivo, e caduta dell’e finale nei verbi (il medio nederlandese ic neme, “io prendo”, divenne ik neem).
Il principale effetto linguistico della “riforma” protestante fu, come per le altre lingue germaniche, una crescente standardizzazione in seguito, alle numerose traduzioni della Bibbia, fino alla Staten Bijbel pubblicata nel 1637 per ordine degli Stati Generali[1]. Tale spinta alla standardizzazione produsse le prime opere linguistiche, le quali a loro volta contribuirono a rafforzare la medesima tendenza unificante: del 1581 è il trattato di ortografia Nederduitse Ortographie di Pontus de Heuiter, del 1584 la prima grammatica Twe-spraeck di H.L. Spiegel, e i primi vocabolari (Plantijn, Kiliaan).
Il lungo periodo di sviluppo dinamico dell’Olanda — politico, economico e culturale — oltre a stabilire il primato linguistico di questa, lasciò “indietro”, specie nel parlato, il fiammingo, il brabantino e il limburghese. Specialmente il primo ha conservato diversi caratteri del medio nederlandese, ed assomiglia all’afrikaans più dell’olandese.
La “riforma” protestante rappresentò, sotto molti punti di vista, per l’area culturale nederlandese (come per quella di lingua tedesca), una tragica epoca di frattura e divisione. Nel nord, dove già imperversava un isterico pietismo di marca neognostica, si fece strada il protestantesimo calvinista, che una minoranza violenta impose, massacrando e cacciando il clero cattolico.
La Spagna, minacciata da più parti, riuscì a difendere, e quindi a conservare alla Fede cattolica, solo il Limburgo, le Fiandre e, in gran parte, il Brabante, ma impoveriti dall’emigrazione di molti protestanti verso l’Olanda e dal blocco del porto di Anversa messo in atto dai protestanti olandesi: una circostanza questa solitamente scarsamente sottolineata dalla politicamente corretta storiografia laicista, che tende sempre ad attribuire ogni recessione in aree cattoliche alla scarsa capacità dei cattolici stessi, secondo la superata teoria di Weber, che tenta di collegare l’“etica protestante” con lo “spirito del capitalismo”.
Altra circostanza parimenti poco nota, e per i medesimi motivi di correttezza politica, è che non furono risparmiati sforzi, da parte dei mercanti protestanti olandesi (come pure da quelli inglesi) per distruggere le comunità cattoliche ovunque possibile[2].
A partire dal Seicento, mentre le Fiandre erano ormai eclissate e il Brabante e il Limburgo seriamente compromessi, l’Olanda andava facendosi sempre più potente, e cominciarono a produrvisi importanti opere letterarie. Il Seicento è noto come “de goldene eeuw”, “il secolo d’oro” dell’Olanda. Amsterdam, divenuta un importante centro finanziario, conobbe vertici assoluti nella pittura, mentre nella poesia vi operarono Hooft e Bredero, oltre a Vondel, creatore del dramma classico nederlandese.
Nell’Olanda protestante, al fanatismo calvinista iniziale succedette una rapida secolarizzazione, sfociante ben presto nel deismo (generica fede in un Dio che non si interesserebbe delle cose umane) e nell’ateismo. Di conseguenza, il razionalista Settecento è un secolo di notevole aridità spirituale e poetica, mentre l’Ottocento è l’ultima grande stagione della poesia nederlandese, legata al rinascere dell’interesse per il Medioevo e le radici cristiane, e in particolare da una rivitalizzazione del fiammingo, che vide risplendere il genio poetico di Guido Gezelle.
La poesia del Novecento rispecchia invece la perdita delle certezze e il tragico smarrimento contemporaneo. Poiché il centro dell’uomo è naturalmente Dio, perduto (o rifiutato) che sia questo centro, l’uomo non fa che avvitarsi sterilmente su se stesso. Voltate le spalle alle radici cristiane, la civiltà europea mostra, anche nell’area linguistico-culturale nederlandese, di aver perduto ogni punto di riferimento ed ogni motivo di speranza. La cultura della vita, che l’aveva più o meno sostenuta fino a quel momento, cede il posto, nel secolo XX, alla cultura della morte. È il secolo che nega l’esistenza del diavolo perché non può vederlo, avendolo dentro. È il secolo più violento mai visto, nel quale sono stati massacrati quarantacinque milioni di martiri cristiani: il doppio di quelli morti nei diciannove secoli precedenti: naturalmente un olocausto dimenticato, e del quale è politicamente scorretto parlare. Perciò, e a maggior ragione, occorre parlarne, come pure è indispensabile parlare di molte altre scomode verità.
***
L’AFRIKAANS
L’afrikaans, parlato in Sud Africa da oltre sei milioni di persone (all’incirca metà bianchi e metà di colore), è la conseguenza della colonizzazione al Capo di Buona Speranza, avviata nel 1652 dalla Compagnia Olandese delle Indie Orientali, al fine di approvvigionare di carne e verdure fresche gli equipaggi delle navi che battevano la rotta tra i porti olandesi e l’Indonesia.
Vi permangono forti caratteri medio nederlandesi, inclusa la doppia negazione. Peraltro la grammatica è estremamente semplificata, a causa dell’isolamento e del generale analfabetismo dei coloni insediati al Capo di Buona Speranza.
Nel 1806, quando la Colonia fu occupata per la seconda, e definitiva, volta dal potente Impero britannico, i coloni erano nederlandesi solo per circa la metà, con notevole apporto tedesco (per un quarto) e francese (circa un sesto), più modesti apporti di quasi tutte le altre nazionalità europee.
La presenza tedesca era dovuta alla concessione di terre nella colonia, da parte della Compagnia a propri impiegati, appunto tedeschi, per lo più di levatura modesta. L’apporto francese costituì invece un caso di immigrazione di qualità, essendo rappresentato da calvinisti ugonotti, giunti alla fine del sec. XVII, e portatori di tecniche agricole avanzate, che migliorarono in modo decisivo la produzione sudafricana di vino. Molti dei personaggi di maggior rilievo della storia, anche letteraria, sudafricana, portano cognomi francesi. Tuttavia, sotto il profilo linguistico, tali apporti non nederlandesi non hanno lasciato tracce rilevanti.
Al contrario, forti influssi lessicali sono penetrati nell’afrikaans da lingue non europee, come il giavanese (per i numerosi schiavi importati dall’impero olandese in Indonesia, e per il fatto che i bambini bianchi trascorrevano molto del loro tempo con balie giavanesi), dal khoikhoi (lingua “ottentotta”), dalle lingue bantu (specie dal xhosa e dallo zulu), oltre che dall’inglese, dal portoghese e da altre lingue. L’afrikaans, nato in ambiente tipicamente coloniale e geograficamente molto isolato, a contatto con popolazioni non europee preponderanti per numero, ha quindi assunto i caratteri tipici di una lingua, anche se non proprio creola, largamente creolizzata.
L’ascesa dell’afrikaans a lingua colta ebbe inizio verso la fine del sec. XIX, quando cominciò la serie delle fondazioni culturali specificamente mirate alla promozione della lingua, vista come essenziale fattore di identità per una popolazione minacciata da una parte dal massiccio predominio britannico e dall’altra dalle numerose popolazioni non europee, portatrici di culture profondamente diverse.
Nel 1875 nacque infatti, a Paarl, presso Città del Capo, la Genootskap van Regte Afrikaanders (Società dei giusti Afrikaners). Da notare che la parola Afrikaner, in nederlandese significa “africano”, ma la medesima parola (inizialmente scritta, come si vede sopra, nella forma Afrikaanders) in afrikaans è stata appropriata dai coloni europei (in passato chiamati “boeri”, da boer, contadino), per indicare se stessi. Di conseguenza, l’afrikaans manca, paradossalmente, di una parola per indicare l’abitante del continente africano, e deve ricorrere alla circonlocuzione inwoner van Afrika (abitante dell’Africa).
La guerra anglo-boera del 1899-1902 portò all’unificazione del paese e alla formazione, nel 1910, dell’Unione Sudafricana, costituita dalle due colonie britanniche (Capo e Natal) e dalle due ex repubbliche boere (Orange e Transvaal). Reagendo alla maggior pressione del potere imperiale britannico e della lingua inglese, gli intellettuali afrikaner delle ex repubbliche boere fondarono a Pretoria, nel 1905, la Afrikaanse Taalgenootskap (Società della lingua afrikaans). L’anno successivo si ebbe la fondazione, a Città del Capo, per iniziativa degli intellettuali Afrikaner della Colonia del Capo, della Afrikaanse Taalvereniging (Unione linguistica afrikaans).
Nel 1909, con la fondazione della Suid-Afrikaanse Akademie, nacque un’unica organizzazione centralizzata per la promozione delle cultura e della letteratura afrikaans. Nell’ambito dell’Accademia si svolsero, tra il 1917 e il 1937, i lavori decisivi per la fissazione dell’ortografia della lingua, uscita ormai da tempo da una primitiva cultura di tipo esclusivamente orale. L’ortografia adottata segue in larga misura quella nederlandese, e per taluni aspetti aderisce alla tradizione medio nederlandese, come per l’adozione della lettera y per esprimere il dittongo [ei], al posto della forma neo nederlandese ij.
La causa venne ripresa dalla società segreta di tipo massonico Broederbond (Lega fraterna), fondata a Johannesburg nel 1918, e riservata ai soli uomini bianchi di indubbia discendenza Afrikaner, che giunse ad infiltrarsi in tutti i gangli della vita nazionale, sostenendo costantemente il partito nazionalista, e riuscendo quindi ad ottenere, nel 1925, il riconoscimento dell’afrikaans come lingua ufficiale dell’Unione Sudafricana, a fianco dell’inglese. La Lega fraterna pilotò la forte affermazione del medesimo partito nazionalista nelle elezioni del 1948 e quindi l’avvento del sistema dell’apartheid.
La medesima Lega guidò pure lo smantellamento dell’apartheid negli anni Ottanta del secolo scorso, quando, sotto la pressione congiunta dello squilibrio demografico nei confronti della gente di colore, delle esigenze economiche e delle pressioni internazionali, apparve evidente che il sistema non era più sostenibile. In campo linguistico e letterario la Broederbond fu attivissima: diresse ed organizzò tutte le società culturali Afrikaner, coordinandole attraverso la propria organizzazione di facciata Federasie van Afrikaanse Kultuurvereniging (Federazione delle associazioni culturali Afrikaner), fondata nel 1929. Nel 1933, dopo lunghi anni di lavoro, fu pubblicata la versione definitiva di Die Bybel, la traduzione afrikaans della Bibbia.
Fino all’eliminazione dell’apartheid, avvenuta ormai oltre vent’anni fa, l’afrikaans era fortemente segnato da atteggiamenti discriminatori non solo nei confronti della gente di colore, ma anche dei cattolici, degli ebrei e del “nemico inglese”, atteggiamenti che stanno diminuendo, almeno ufficialmente.
Pur essendo una lingua recentissima, che emerge solo nel tardo Ottocento, e perciò di gran lunga la più giovane fra le lingue germaniche, l’afrikaans ha una letteratura di tutto rispetto, e in particolare un grande poeta (oltre che grande naturalista) come Jan Marais. Costui fu vergognosamente plagiato dal belga Maurice Maeterlinck (Maeterlinck ebbe il premio Nobel, Marais solo delusioni, ma così va spesso il mondo, specie nelle rarefatte atmosfere dove si elargiscono premi Nobel agli amici degli amici).
In questa cultura di origine europea, trapiantata oltremare, come del resto in molte altre culture, non solo europee, l’elemento portante è il sentimento della caducità di ogni cosa terrena, unito all’invincibile aspirazione all’eternità che solo Cristo può soddisfare.
POESIA NEDERLANDESE
Onbekend 11de eeuw
(Anonimo del sec. XI)
(West Vlaanderen/Fiandre occidentali ca. 1050-1075)
Hebban olla vogala nestas bigunnan
hinase hic enda thu. Wat unbidan we nu?
Tutti gli uccelli hanno cominciato i loro nidi,
eccetto io e te. Che mai aspettiamo?
Scritta in dialetto delle Fiandre occidentali (dintorni di Brugge/Bruges), ossia antico basso francone occidentale con influenze ingveoni, questa è una delle primissime manifestazioni della poesia germanica. Trattasi di una quasi-glossa interlineare scoperta da Kenneth Sisam su un manoscritto proveniente dall’abbazia di Rochester, nel Kent (distrutta dagli sgherri del re scismatico Enrico VIII). I dati del manoscritto sono: Oxford, Bodleian Library, ms. 340, fol. 169 v. Tradotta in nederlandese odierno, la poesia suona: “Hebben alle vogels nesten begonnen, behalve ik en iji. Waarop wachten we nu?”.
Secondo un’ipotesi formulata da Luc de Grauwe, dell’università di Gent, si tratterebbe invece di antico inglese del Kent. De Grauwe dà pure una diversa traduzione in nederlandese moderno, rispetto a quella comunemente accettata: “Laten nu nog alle vogels nesten gebouwd hebben, behalve ik en iji, wat verwachten jullie nu?”, ossia: “Ora che tutti gli uccelli hanno costruito i nidi, eccetto io e te, che aspettate voi adesso?”, traduzione che francamente lascia molto perplessi, anche perché il testo originale è parte di un più ampio scritto in latino non proprio classico (“……. quid expectamus nunc? Abent omnes volucres nidos inceptos nisi ego et tu ……. Rectar celi nos exuadi ut dignare nos salvare”) che fornisce una chiarissima traduzione nel senso tradizionale, nonostante le stranezze ortografiche (“abent” invece di “habent”, “exuadi” di “exaudi”).
Sul significato del testo che, come tutti quelli brevi, è naturalmente più enigmatico, e richiede maggior impegno di interpretazione, esistono diverse ipotesi:
1) lirica d’amore terreno, di un laico che desiderava formare una famiglia,
2) lirica di amore spirituale, forse di aspirante monaco che aspirava ad essere ammesso nel monastero,
3) gioco di parole.
Il testo sembra comunque scritto da mano maschile, probabilmente da un monaco che provava una penna nuova, copiando un testo lirico preesistente di una donna: si tratta in effetti di un motivo della poesia spagnola contemporanea.
Hendrijk van Veldeke
(Limburgo, ca. 1145/50 – 1190/1200)
So wé der minnen is so vroet
So wé der minnen is so vroet
dat hé der minnen dienen kan,
ende hé dore minne pine doet,
dé is ein vele minnesalech man.
Van minnen komet allet goet,
die minne maket reinen moet,
wat solde ich ane minne dan?
Die scone minne ich ane wanc,
ich weit wale here minne is claer.
Of mine minne iet velsche ein cranc,
so ne wirt ouch nimmer minne waer.
Ich segge here miner minne danc,
bi here minnen steit miin sanc.
Hé is domp deme minne dunket swaer.
Chi così bene comprende l’amore
Chi così bene comprende l’amore da esser disposto a mettersi al suo servizio, e a servizio dell’amore pone tutte le sue forze, colui è un uomo santificato. Dall’amore proviene tutto ciò che è buono, l’amore addolcisce il cuore, che farei dunque senza l’amore?
La bella donna io amo senza alcun tentennamento, io so per certo che il suo amore è dolce. Se il mio amore dovesse in qualunque modo appannarsi, allora più non sarebbe il caso di parlare di vero amore. Io la ringrazio dell’amore che ha per me, grazie al suo amore nasce il mio canto. Privo di comprendonio è chi considera l’amore un grave peso.
Veldeke è il primo poeta nederlandese del quale si conosca il nome. Era originario da una famiglia aristocratica del Limburgo, con residenza e possedimenti nei pressi di Maastricht (il romano Trajectus ad Mosam). Fu autore anche di vite di santi. È conosciuto anche come Hendrik von Veldeke nella letteratura tedesca. Questa poesia di semplice impianto, ma piuttosto artificiosa, si collega alla tradizione dell’amor cortese.
Calfstaf & Noydekijn
(prima metà del sec. XIII)
Wolf ende lam
Een wolf ende .i. lam goedertieren
quamen trinken tere rivieren.
Si ghinghen drinken in .ij. steden:
die wolf dranc boven, dlam beneden.
Doe zeide de wolf: “Du bewulst mi al
dwater dat ic drinken sal”.
“Ay here”, sprac dlam, “wat segdi?
Dwater comt van u te mi”.
“Ja”, seide de wolf, “vloestu mi toe?”
dlam antworde: “here, in doe”.
“Du doest”, sprach hi, “dus dede dijn vater
wilen eer ende dijn geslachte algader”.
Dlam sprach: “in was doe niet gheboren:
twi soudicker af hebben toren?”
“Noch”, seide die wolf, “horic di spreken?
ic wane wel ic sales mi wreken”.
Die wolf sloech te sticken ende scoert;
dlam nochtan hads niet verboert.
Dus vint .i. quaet occusoen,
als hi den goeden quaet wille doen.
Il lupo e l’agnello
Un lupo e un paziente agnello andarono a bere ad un ruscello. In due luoghi diversi bevevano: il lupo di sopra, l’agnello di sotto. Ma disse il lupo: “Tu m’intorbidi tutta l’acqua che bevo”. “Ma signore”, disse l’agnello, “che dici? L’acqua scorre da te verso di me”. “Sì”, disse il lupo, “mi prendi in giro?” Rispose l’agnello: “No, signore”. “Invece sì”, disse l’altro, “così faceva tuo padre e prima ancora tutta quanta la tua gente”. L’agnello disse: “Allora non ero ancora nato: perché dovrei io soffrirne?” “Ma perché”, disse il lupo, “ti sto ancora a sentire? penso che senz’altro mi vendicherò”. Il lupo lo sbranò e lo divorò; sebbene l’agnello non l’avesse meritato. Così un malvagio trova sempre una scusa, quando ai buoni vuol far del male.
Calfstaf e Noydekijn sono due autori di cui è noto pochissimo. Si ignorano perfino i loro cognomi e patronimici. Il grande Jacob van Maerlant, nella sua opera storica Spieghel Historiael, afferma che di loro è rimasto solo un volumetto di sessantasette favole derivato a Esopo. L’unico manoscritto è conservato alla Biblioteca universitaria di Leida. Le comuni radici dell’Europa si vedono anche nelle molteplici rielaborazioni delle favole di Esopo, le quali, facendo parlare gli animali, fustigano la malvagità, la stupidità, le incongruenze degli uomini. Fin dalle prime origini della letteratura, la satira rappresenta la salutare reazione al male. Come disse C. S. Lewis in The Screwtape letters, non c’è nulla che il diavolo odi maggiormente che essere preso in giro.
Hadewijch
(Antwerp/Anversa, vissuta fino al 1265)
Lied X
Die voghele hebben langhe ghesweghen
die blide waren hier te voren:
hare blijdschap es gheleghen,
dies si den somer hebben verloren.
Si souden herde saen gheseghen,
hadden sine weder ghecreghen:
want si hebenne vore al vercoren,
ende daer toe worden si gheboren:
dat machmen dan an hen wel horen.
Ic swighe vander voghele claghe
— hare vroude, hare pine, es saen vergaen —
ende claghe dat dat mi meer meshaghe:
die minne, daer wij na souden staen,
dat ons verwehet hare edele wage
ende nemen vremde naghelaghe.
Sone mach ons minne niet ontfaen.
Ay, wat ons nederheit heeft ghedaen!
Wie sal ons die ontrouwe verslaen?
Die moghende metter sterker handt,
op hen verlatic mi noch sere,
die altoes werken in minnen bandt
ende en ontsien pine noch leet noch kere,
sine willen dorevaren al dat lant
dat minne met minnen in minne ye vant.
Hare fine herte es so ghehere:
die weten wat minne met minnen lere
ende hoe minne die minne met minnen ere.
Waeromme soude dan ieman sparen,
ochtemen minne met minnen verwinnen mach,
hine soude met niede in storme dorevaren
op toeverlaat van minnen sach
ende minnen ambacht achterwaren?
Sou soude hem die edelheit openbaren.
Ay, daer verclaert der minnen dach,
daer men vore minne nie pine en ontsach
noch van minnen nie pine en verwach.
Dicke roepic hulpe alse die onverloeste!
Lief, wanner ghi comen selt,
so noepti mi met nuwen troeste,
so ridic minen hoghet telt
ende pleghe mijns liefs als allervroeste,
ochte die van norden, van suden, van oesten,
van westen al ware in mijnre ghewelt! …….
so werdic saen te voete ghevelt.
Ay, wat holpe mijn ellende vertelt!
Decimo canto
Lungamente gli uccelli, che prima qui cinguettavano, hanno taciuto: la loro letizia s’era addormentata, dopo che l’estate li aveva lasciati. Di nuovo cantano lieti, al ritorno della loro stagione: poiché è quella da loro preferita, ed eccoli rinati, come dal loro canto ben si può udire.
Io taccio dei lamenti degli uccelli — le loro gioie, le loro pene sono passate — e lamento ciò che più mi addolora: l’amore per il quale dobbiamo lottare che troppo pesa col suo nobile impegno, mentre di cose estranee ci preoccupiamo. Così non si alimenta il nostro amore. Ahi, cosa ci ha fatto la bassa vita mondana! Come ci colpirà l’infedeltà?
La forza dell’amore opera potentemente, ad essa ancora mi affido, costantemente stringe in legami d’amore e non teme sofferenze, né dolore, né delusione, ma percorre l’intero spazio dell’amore, poiché l’anima amante è sempre al servizio dell’amore. Di così elevata nobiltà è il suo cuore: che sa come insegnare con amore all’amata e come amare l’amata con amorevole onore.
Perché qualcuno allora dovremmo trattenerci, se l’amore si conquista con l’amore, pronti con slancio ad affrontare la tempesta, fiduciosi nell’amore, anelanti solo a servire l’amore? Così in esso si manifesta la nobiltà dell’animo. Ahi, qui appare il pungolo dell’amore, poiché per causa dell’amore non ci si sottrae alla sofferenza né la sofferenza dell’amore è mai stata troppo pesante.
Spesso chiamo aiuto come disperata! Amore, quando verrai, risvegliami con nuova consolazione, come un cavaliere dopo la vittoria al torneo godi il mio amore con la più alta voluttà, che tu venga da nord, da sud, da est, da ovest, come se tutto il mondo fosse in mio potere! ……. Così lo metterei ai tuoi piedi. Ahi, che giova esprimere a parole la mia infelicità!
Hadewijch è quasi sconosciuta come persona, ad eccezione dei rari accenni contenuti nelle sue poesie. Si ritiene che fosse una monaca beghina. Le espressioni d’amore di questa donna medioevale traboccano con una sovrabbondanza che ricorda la poesia dell’età barocca. Tali espressioni vanno intese in senso spirituale. L’amore a cui la poetessa aspira non è altri che Cristo. È considerata un precursore del grande mistico e teologo fiammingo Jan van Ruusbroec (Brussel/Bruxelles 1293-1381), canonizzato dal grande Papa Pio X nel 1903.
Jacob van Maerlant
(Burgse Vrye ca. 1225/1235-ca.1293/1300)
Van den lande van oversee
Kersten man, wats di geschiet?
Slaepstu? hoe ne dienstu niet
Ihesum Christum dinen here?
Peins, doghedi dor di enich verdriet,
doe hi hem vanghen ende crucen liet,
int herte steken metten spere?
Tlant daer Hi sijn bloed in sciet,
gaet al te quiste, als men siet.
Lacy, daer en is ghene were:
daer houdt dat sarracijnsche diet
die kerke onder sinen spiet
daerneder ende doet haer groot onnere,
ende di en dunkets min no mere!
Die kerke is van haren lene
ontervet: dijn herte is van stene,
Kerstijn, en gaet het di na.
Si is dijn moeder, die ic mene,
die di suiver maect ende rene
alsmen di in die vonte dwa.
Satanas kinder alghemene
hebben dit mammorie alleene
beset op dat di toebesta.
Nu roept die kerke met grote wene:
“Jesus kerst van Nazarene,
men rovet dat erve dat di toega!
Pugna pro patria!”
Omne scat so gaepstu wide
elc is op adren vol van nide,
ende dinen God heefstu vergeten.
Die door di ontdede sine side,
roept “help!” op di desen tide
ende claghet: des wiltu niet weten!
Hoe moghestuut laten dus ter lide,
dat dat volc vermaledide
so verre ghepaelt heeft ende ghemeten?
God proevet di in desen stride:
Hi doghet dat menne te halse ride
voor di, ende di bist vast gheseten,
sughende an der weelde reten!
In weelden sitstu hier versmoort,
so dat met di is onghehoort
Gods lachter ende sine scande.
Dune peins niet om de moort
die tot akers in die poort
wrochten die Gods viande.
Daar is Gods dienste ghescoort,
cloostre ende huse sijn testoort,
tvolc verbeten van wrede tanden.
Kerstijn man, twi en trecstu voort?
Waerom sistu hier verdoort?
Du sout hemelrike panden
op Gode, wilt dien lachter anden!
Ihesus Christus van Nazarene
gaf van Akers der porten ene
name die was “vermaledijt”.
daer voorsprac hi van de wene
die opt kerstine volc ghemene
ghevallen is in corter tijt.
Te diere porten, alse ic mene,
waren ierst uutghetrect die stene
ende een inganc ghemaect so wijt,
dat die sarracine onrene
alle ingoten, groot ende clene;
ende daar becochten si den strijt
die op Gode hadden ghelijt.
Men ginc daer houwen ende slaen.
Die kerstine worden seer ondaen:
hem mochte gheen weren ontfaen
si moesten alle die doot ontfaen
— Dar jeghen mocht niet ontstaen —
die niet ontsprongen in schepen.
Men sach daer laten meneghen traen:
kerstijnheit wart sonder waen
so jamerlijc int vel ghenepen.
Men mach jamer hierin verstaen:
die predicare dede men vaen,
ende alsijt Crucifix ghegrepen,
si dadent achter straten slepen.
Joncfrouwen van religioene,
suver ende van heiligen doene,
onsuverden die sarrasine.
Wiemen hoorde die was soo coene
die Ihesus noemde, Mariën soene,
men dede hem torment ende pine:
men briet sulken ghelijc den hoene.
Sulc wart onthalst bi den caproene,
sulc ghescout ghelijc den swine.
Ghi heren, ghi princen, ghi baroene,
hoe coomt dat hem elc niet vermoene
met live, met goede ghereet te sine,
te suverne tlant van de venine?
Kerke van Romen, trec dijn swaert,
dat di van Gode ghelaten waert:
kerstijnheit hevet te doene heden!
Besie oft vlegghe hevet of scaert
ant einde of daer middenwaert;
ende oftuut overwaer vinds versneden,
so spoet di danne metter vaert
ende doe al onghespaert
een van betren snede smeden!
Qualike is het gheachterwaert:
diere cardinale aert,
die is van alsulken seden,
hi strect na scat met allen leden.
Alse thooft gulselike ontfaet
den wijn, die sine kele doorgaet,
het ontkeert alle die lede.
Die mont hi roept; hi slaet, hi vaet,
hi verset dat waele staet;
bene faelieren ende voete mede.
Die kerke van Romen is dusdaen vraet:
si is dronken ende al sonder raet
die hovet is van kerstijnhede.
Sine heeft gheen lit al dat haer bestaet,
keiser, coninc noch prelaet,
het en is mids der ghierichede
ontkeert van goeden seden.
Hoort, ghi heren, ghi baroene,
wes die kerke u vermoene.
Si seit, si hevet tiende ghegheven
daer si noit of te haren doene
profijt ghecreech van ene betoene,
dat sijt weet of heeft beseven.
Wat dadi in tunes, in arrogoene?
Jeghen wien waerdi daer coene?
Wat eren hebdi daer beweven?
Waert dat u die duvel niet op spoene,
ghi naemt met u te uwen verdoene
van uwen rechten goede beneven,
ende hulpt der kerken, daer si moet beven.
Wat scatte hiesch Ihesus die,
doe hi liet met naglen drie
aent cruce naghelen sine lede?
Hen doghede man die anxte nie
die hi doghede, ghelovets mie,
om di te brenghene ter hoochede.
Wie is hi nu, wie is hi, wie,
die hem volghet na, daer hie
ghinc om onse salichede?
Mi dunct dat elc ommesie,
wat hi begrijpt, offer af plie
ghemac te comen ende weeldichede:
eis nie, hi blivet mat op die stede.
Alse vallen prelatiën
in kerken ende in canosiën,
daerwaert spoedet metter vaert.
Deen gaet smeken, dander vriën:
daer siet men de simoniën
sere toghen haren aert.
Wie sijn si die daer tvette af siën?
Die therte hebben maer reinardiën
van binnen bewist ende wel bewaert.
Met hevet wat doen van clergiën:
met loosheden, met scalkerniën
machmen comen in Gods wijngaert.
Dus blivet tfruut al onbewaert!
Daermen Gods leden mede soude voeden
ende queken in hare armoeden,
dat hebben al gheblaet die ghiere.
In sal niet scamen doen die goeden,
maer hem mochte therte bloeden
die houden die amiën fiere!
Ay mi, of si te hope stoeden
endese alle alle die divele loeden,
ic waenre niet ontginghen viere,
sine souden alle ter helscher gloeden
wel neder onder der duwele roden:
ic sie den hoop so putertiere
ende die doghet in hem so diere!
Scalcheit heeft die provende groot,
diviniteit gaet om haer broot:
dit sietmen nu alle daghe.
Kerke, clagh! du heves noot,
dune vinds in desen wederstoot
niewer ghenen vrient noch mage.
Elc ondoet wel sinen scoot
jeghen dijn rente, maar si sijn bloot
te wederstane die slaghe.
Al storte Ihesus Sijn bloet root
noch neerwerf, daer hijt wilen goot,
die doghet is overal so traghe,
men vonde cume die daerwaart saghe.
Coninghen, graven ende hertoghen,
die op andren orloghen
ende om eene clene dinc verraden,
peinst wat Ihesus wilde doghen
om u te brenghene ten hoghen
rike, daer altoos is ghenaden.
Sijn huus, sijn lant staet doorvloghen
ende verwoest, alsmen mach toghen,
ende u en dunct niet siere scaden?
Ghi hebt hem sijn bloet ontsoghen:
twi ontkeerdi hem u oghen?
Ghi hebt enen andren last gheladen
ende laet uwen God versmaden.
Nu weert tijt, datmen soude
den schilt van sabel ende van goude
toghen ende van lasuren.
Die niet voor tredt alse die boude
ende wreect sire moeder daer hi af houde
sine kerstenheit, hi salt verburen.
Twi wil elc leven met groter vroude,
sonder hitte ende sonder coude,
recht na sijn ghevoech ter curen?
Het moet al sterven, jonc ende oude!
Peinst wat Ihesus ghedoghen woude
dor uwen wille ende besuren,
eer overgaen u tijt ende uren.
Neemt den schilt vermilioene
dien Ihesus droech omtrent noene
op den goden vridach,
doe hi den camp vacht alse die coene,
daer hi verdinc maecte ende soene
ons jeghen hem diet al vermach.
Vonde men prencen ende baroene
alsmen hier vormaels plach te doene,
die kerke en dade niet sulc gheclach.
Want si was des onghewoene
bi godefoits tiden van bulgoene
ende bi Carle, die node sach
dat si stoot ontfinc of slach!
Wat vaerdi in desen daghen
met valken bersen ende jaghen,
ghi lantsheren, ghi civeteine!
Hoordi niet die kerke claghen?
Of ghi sijt van haren maghen,
openbaer liëts int pleine!
dordi uwes kerstijnheits ghewaghen,
so moeti den selven schilt dragen
dien God veruwede met roder greine.
Hine liet hem niet versaghen
ons te loossene uter plaghen
die vloeiet uter hellen fonteine
ghemanc met torment ende met weine.
Ghi heren, dit is Iacobs vont.
Houdt dit kimmijn in den mont,
vant an desen breidel cuwen:
later u mede sijn ghewont
binnen in uwer herten gront.
Vant die weelde hier verspuwen!
het is ene redene bont:
hier masseeren so menich pont
ende dat aerme volc verduwen.
God make ons allen so ghesont
met rechten ghelove ter lester stont,
dat der sielen te min mach gruwen
van sathanase, den fellen ruwen!
Delle terre d’oltremare
Uomo cristiano, che ti accadde? Dormi tu? Perché non servi Gesù Cristo tuo Signore? Medita: per chi se non per te Egli soffrì, fu arrestato e inchiodato alla croce, e dalla lancia fu trafitto al cuore? La terra dove Egli versò il Suo sangue va del tutto perduta, come ben si vede. Ahimé, non vi è alcuna resistenza: laggiù i saraceni tengono la Chiesa sotto il tallone, e le fanno gravissima offesa, e tu non ti muovi affatto!
La Chiesa dei suoi beni è orbata: il tuo cuore è di pietra, o cristiano, se ciò non ti tocca. Ella è tua madre, questo io intendo, ella ti rende libero e puro come appena emerso dal fonte battesimale. Figli di satana d’ogni specie hanno radicato l’idolatria maomettana nella terra che di diritto ti appartiene. Ecco che grida la Chiesa con grande pianto: “Gesù, germoglio di Nazareth, ti derubano dell’eredità che ti appartiene! Pugna pro patria!”
Con la bocca spalancata tu concupisci ogni tesoro, tutti son pieni d’invidia l’uno per l’altro, e di servire Dio ti sei dimenticato. La desolata tremante, chiama “aiuto!” per la sventura l’ha colpita e si lamenta: ma di ciò non ne vuoi sapere! Come puoi tu sopportare una simile sventura, che quel popolo maledetto abbia esteso tanto lontano i suoi confini? Dio ti mette alla prova in questa lotta. Egli permette che essi Lo opprimano per causa tua, e tu stai comodamente seduto, succhiando il miele che offre il mondo!
Qui nel mondo tu sei sprofondato, così che nulla ti importa dell’offesa fatta a Dio e dello scandalo. Tu non pensi alla strage a San Giovanni d’Acri, all’interno della città, compiuto dai nemici di Dio. Là l’ufficio divino è annientato, chiostri e case sono devastati, il popolo azzannato da malvagie zanne. Uomo cristiano, perché non vai in guerra? Perché stai qui come un demente? In pegno tu avresti il Regno dei Cieli da Dio, se vendicassi questa infamia!
Gesù Cristo Nazareno diede ad una delle porte di Acri il nome di “maledetta”. Attraverso essa si compì il misero destino dell’umile popolo cristiano, in breve tempo caduto. A quella porta che io dico furono dapprima divelte le pietre e fatta una così ampia breccia, i saraceni impuri tutti entrarono, capi e gregari; e là si compì la sconfitta degli adoratori del vero Dio.
Per il filo delle scimitarre e le uccisioni i cristiani molto soffrirono: non valse loro alcuna difesa, tutti soggiacquero alla morte — nessuno di loro sopravvisse — eccetto quelli fuggiti sulle navi. Molte lacrime si versarono: i Cristiani veramente senza illusioni così duramente soffrirono sulla propria pelle. Infinite crudeltà vi furono: vana ogni supplica, afferrati e crocifissi, furono massacrati nelle strade.
Vergini religiose, dolci e santamente vissute, oltraggiarono i saraceni. Si è udito che furono così ardite da invocare Gesù, figlio di Maria. Tormenti e atrocità soffrirono: alcune come pollastri furono arrostite, alcune come topi furono decapitate, alcune bollite vive come maiali. Voi signori, voi principi, voi baroni, com’è che non decidete con la vita, con i beni, di dedicarvi, a mondare la terra dal veleno?
Chiesa di Roma, sguaina la spada, altrimenti da Dio sei abbandonata: o Cristianità, oggi è necessario! La vecchia spada taglia male o è intaccata alla punta o al mezzo; e se la trovi troppo spuntata, affrettati, e fanne senza indugio temperare una di miglior taglio! Doloroso è ciò che appare: la natura dei cardinali, è tutta di quel genere che si protende con ogni forza ad accumulare tesori.
Si abbandona alle gozzoviglie: il vino che scorre nella sua gola, mette in disordine tutte le membra. Dalla bocca emette grida; si agita, si agita, cerca di tenersi in piedi, sovverte l’intero equilibrio; le gambe cedono e pure i piedi. La Chiesa di Roma si ingozza: ubriaca e abbrutita dall’ubriachezza è lo scandalo della Cristianità. Non ha alcun membro che la sostenga, imperatore, re o prelato, e dai propri stessi chierici è estraniata dai buoni costumi.
Udite, voi signori, voi baroni, siano vostro ammonimento le vicende della Chiesa. Essa manda ambascerie, ha concesso decime per le quali riguardo a se stessa non trae alcun profitto palese o nascosto. Perché andare a Tunisi in armi? Quale vantaggio ne poteva venire? Che cosa avete laggiù ottenuto? Dal diavolo siete stati ingannati, dovreste rendervi conto della rovina incombente su di voi e i vostri beni. Dovete aiutate la Chiesa, facendo sì che tremi.
Quali tesori possedeva Gesù, quando lasciò con tre chiodi inchiodare alla croce le Sue membra? Nessuno, io credo, mai soffrì i dolori che egli soffrì per condurre noi alle vette del paradiso. Chi è adesso, chi è, chi segue Colui che a tanto giunse per condurci alla nostra beatitudine celeste? Mi pare che ciascuno, timoroso, non faccia che tirarsi indietro e finirà per preferire le cose mondane, e resterà a dormire in città.
Come si rendono disponibili delle prelature nelle chiese e nelle canoniche, lì si precipitano a lucrarle. Ivi si adula, e adulando si cerca di ottenere: e si palesano simonie e i falsi lasciano apparire la loro vera natura. Come liberarsi di questi mali? Quelli han nel cuore basse astuzie, radicate e ben acuminate. Ogni genere ancora di indegnità si commette nelle cose della Chiesa: con inganni, con atti indegni molti entrano nella vigna del Signore. Così mal custodito resta tutto il frutto!
Quello con cui avrebbero dovuto nutrire i poveri, che stanno in comunione con Dio, per sostentarli nella loro miseria, quello gli avidi hanno tutto divorato. Io mi astengo dal giudizio, ma il cuore dovrebbe sanguinare a coloro che mantengono altezzose amanti! Ahimé, quelli diguazzano nel loro orgoglio, e alla fine se li porteranno via i demoni. Cessate di far festa immersi nelle vostre vanità, o tutti sarete gettati nella fornace infernale, nel profondo degli abissi, sotto i rossi demoni: così meschina è la loro alterigia e così preziosa la valutano!
La cialtroneria ha grasse prebende, la santità è costretta a mendicare: ciò lo si vede tutti i giorni. O Chiesa, ti lamenti! ne hai ben d’onde, ma non trovi in questa tua sciagura mai sostegno di amico o di parente. Tutti allargano la borsa a più non posso per intascare le tue prebende, ma sono vili quando si tratta di resistere alle prove. Se pure Gesù versasse il Suo sangue nuovamente, come già prima lo versò, ovunque vi è un tale torpore, che a stento qualcuno sarebbe capace di farvi attenzione.
Re, conti e duchi, che guerreggiate l’uno contro l’altro, e per una piccolezza aggredite a tradimento, pensate che cosa Gesù volle sopportare per sollevarvi al cielo, lassù, dove regna la misericordia. La Sua casa, la Sua terra è invasa, rasa al suolo dal fuoco e devastata, sotto gli occhi di tutti, e voi non vi curate dell’offesa perpetrata contro di Lui? Vi siete abbeverati del Suo sangue: perché distogliete da Lui gli occhi? Vi siete l’un l’altro caricati di peccati e lasciate che il vostro Dio venga offeso.
Sarebbe tempo di esibire lo scudo color sabbia e oro e azzurro. Esso non esce mai in campo senza incutere paura, può vendicare vostra madre per quello che le hanno fatto, esso sarebbe testimonio di conversione. Vivrà ciascuno con grande gioia, senza soffrire caldo né freddo, proprio come gli piace e secondo i propri desideri? Giovani e vecchi dobbiamo tutti morire! Pensate a ciò che Gesù vuole da voi, imbrigliate la vostra volontà e i vostri desideri, prima che sia trascorso il vostro tempo e venuta la vostra ora.
Impugnate lo scudo vermiglio che Gesù portò verso l’ora nona del Venerdì Santo, quando Egli valorosamente combatté la Sua lotta, quando ci acquistò perdono e riconciliazione, conducendoci verso di Lui alla gioia. Se principi e baroni fossero come in passato sono stati, la Chiesa non ne avrebbe motivo di pianto. Perché così non era abituata al tempo di Goffredo di Buglione e di Carlo Magno, che la soccorsero nel bisogno in cui era prostrata!
Che andate in giro in questi giorni a cacciare con falchi e cani, voi signori, voi capitani! Non sentite la Chiesa lamentarsi? Se preferite il vostro stomaco, ditelo chiaro e apertamente! Se osate manifestare il vostro cristianesimo, dovete portare lo stesso scudo che Dio col suo sangue ha colorato. Egli non ha temuto di portarlo per salvarci dall’orrore che scaturisce dalla fonte infernale, portando tormento e pianto.
O voi signori, questa è la fonte di Giacobbe. Tenete in bocca questo morso, sottomettetevi a questa briglia: fate sì che divenga vostra abitudine fino al fondo del vostro cuore. Affrettatevi dunque ad uscire in campo! Ecco una cosa insensata: ammassare ricchezze sulla terra e lasciare che i poveri soffrano. Dio risani tutti noi con la Santa Fede fino all’ultimo respiro, così che l’anima non debba temere i demoni, gli orrendi mostri!
Maerlant (“più terra”) si trova sull’isola di Voorne (Zelanda), dove il grande poeta Jacob van Maerlant trascorse parte della sua vita come sacrestano. Salutato come “padre di tutti i poeti in lingua nederlandese”, Jacob scrisse opere enciclopediche di scienze naturali e di storia (Spieghel Historiael). Van den lande van oversee è il suo canto del cigno. “Lande van oversee” (terre d’oltremare, “terres d’outremer” in francese) era il termine corrente allora usato per indicare i territori dei Crociati in Terrasanta, dove i Cristiani avevano ripreso possesso dei luoghi santi dopo la prima crociata (1095-1099).
Nel trattare di questa poesia di perfetto equilibrio formale, in diciannove strofe di tredici versi l’una, la critica politicamente corretta tende a mettere in ombra il dolore del poeta per la sconfitta dei crociati e a glissare del tutto sulle atrocità islamiche, mentre sottolinea eccessivamente le critiche alla corruzione degli uomini di Chiesa, cercando di far passare van Maerlant per antesignano della “riforma” protestante, come del resto si è cercato di fare anche con Dante con Dante, e perfino con Santa Caterina da Genova (autrice del “Trattato del Purgatorio”), il che dimostra quanto potente sia l’alleanza tra ignoranza e malafede.
In realtà, il poeta, uno dei massimi della Grande Età della Fede Cristiana, impropriamente detta “medioevo”, depreca con amarezza la perdita della Terra Santa. Si tratta di poesia quanto mai “politicamente scorretta”, in un’epoca di marasma “postmoderno” come la nostra: un’epoca che ha rinunciato alla Verità, che non è un’idea astratta ma una Persona, ossia Cristo.
Si tratta di poesia estremamente attuale e quanto mai “politicamente scorretta”, in un’epoca di marasma “postmoderno” come la nostra. La testimonianza di questo sommo poeta, composta negli ultimi anni della sua vita, ci ricorda come già verso la fine del medioevo la maggioranza dei cristiani fosse tiepida e distratta, più attenta al guadagno, ai vizi, agli onori, alle sirene del mondo, che alla giustizia e alla verità, mentre chierici, vescovi e cardinali per primi davano il cattivo esempio.
Contro i prelati ben pasciuti e pieni di sé si scaglia anche il quasi contemporaneo Dante (Firenze 1265 – Ravenna 1321): “Or voglion quinci e quindi chi i rincalzi / li moderni pastori, e chi li meni / (tanto son gravi!), e chi diretro li alzi. / Cuopron de’ manti lor i palafreni, / sì che due bestie van sott’una pelle: / Oh pazïenza, che tanto sostieni!” (Paradiso, XXI, 130-135). Ma proprio qui sta la prova dell’origine divina e della divina Presenza nella Chiesa: se fosse solo per certi uomini che la rappresentano (ad esempio, per gli ineffabili prelati che si permettono di dissentire pubblicamente dal Papa su questioni fondamentali come la difesa della famiglia naturale), da un pezzo sarebbe andata in rovina.
Per quanto riguarda i riferimenti storici di cui la poesia è intessuta, vanno ricordati i fatti seguenti. La conquista musulmana di Acri, che pose fine alla presenza dei Crociati in Terra Santa, con tutte le atrocità islamiche efficacemente descritte dal poeta, ebbe luogo il 18 maggio 1291. La “porta maledetta” di Acri era così chiamata perché associata, in qualche modo, non del tutto chiaro, alle trenta monete largite dal Sinedrio ebraico a Giuda come prezzo del tradimento.
L’accenno all’insensata spedizione di Tunisi e alla scandalosa politica della curia romana si riferisce alla seconda crociata di Luigi IX di Francia che, invece di dirigersi verso la Terra Santa, attaccò appunto Tunisi senza successo, e lo stesso re vi perdette la vita.
A nulla servirono, per la riconquista della Palestina, le decime alle quali il papa Clemente IV aveva rinunciato per dieci anni, cedendole a Luigi IX, in modo da permettere a quest’ultimo di organizzare la crociata. Il suo successore Filippo il Bello utilizzò invece, nel 1285, l’ingente somma di denaro per organizzare, con il consenso della curia romana, un attacco in Spagna contro il cristiano Pietro III d’Aragona, mentre la penisola iberica era ancora in parte sotto il dominio musulmano: un dominio che la storiografia politicamente corretta e corrotta dei vari Rigoberto Ocone si è spasmodicamente sforzata di presentare come altamente civile e tollerante.
L’allusione allo scudo ed ai colori di questo (sabbia, oro e azzurro) si riferisce globalmente agli stemmi delle Fiandre (leone color sabbia in campo dorato), del Brabante (leone dorato in campo color sabbia) e della Francia (gigli dorati in campo azzurro), e rappresenta una calda esortazione ad impugnare le armi per la riconquista della Terra Santa e per difendere l’onore della Chiesa. La successiva menzione dello scudo vermiglio allude alla Passione di Cristo.
Un punto non sufficientemente sottolineato, riguardo alla Grande Età della Fede Cristiana, è l’estrema libertà di parola: se la Chiesa, col suo potere temporale, fosse stata quella tirannide che i suoi nemici hanno cercato ossessivamente di dipingere, né Dante né Jacob van Maerlant né altri avrebbero potuto impunemente esercitare in modo così violento il proprio diritto di critica contro le più alte autorità religiose e civili. Ben pochi stati moderni giungono a concedere tanta libertà. Si può dire, invece, che oggi, la libertà di parola tenda piuttosto a restringersi che ad ampliarsi, mentre dilaga il conformismo laicista.
Difficilmente lo scrittore non allineato trova editori importanti e recensori favorevoli sui grandi giornali laicisti. Pericoloso è scrivere qualcosa sull’invadenza islamica, l’imperialismo islamico, l’oppressione islamica, lo schiavismo islamico. Si calcola vi siano tuttora varie decine di milioni di veri e propri schiavi nel mondo islamico, dall’Arabia Saudita, al Sudan e alle regioni islamizzate dell’Africa sub-sahariana, senza contare la condizione penosamente sottomessa delle donne in quasi tutti i paesi islamici. Con l’aumento della presenza musulmana nei paesi (ancora per quanto?) nominalmente cristiani, ciò diventerà impossibile. Preparatevi a mettere il burka, compagne femministe e paladine della “multiculturalità” politicamente corretta.
Hertog Jan I van Brabant
(Duca Giovanni I di Brabante)
(Brussel/Bruxelles 1251 – Antwerp/Anversa 1294)
Eenes meienmorghens vroe
Eenes meienmorghens vroe
was ic opghestaen,
in een schon boomgardekijn
soudic spelen gaen.
Daer want ic drie joncvrouwen staen,
die een sanc voor, die ander nâ:
harbalorifâ, harbaharbalorifâ, harbalorifâ.
Doe ic vorsah dat schoone cruut
in der boomgaerdekijn,
end ic voorhoorde tsoete gheluut,
van der maedchen fijn,
doe vorblijde therte mijn,
dat ic singhen moeste nâ:
harbalorifâ, harbaharbalorifâ, harbalorifâ.
Doe groettic dalreschoonsten
die daer onder stont,
ic liet mijn aerm al omme gaen
doe ter selber stont;
ic woudes cussen haer harn mont.
Si sprac: „”laet staen, laet staen, laet stâ!“.
Harbalorifâ, harbaharbalorifâ, harbalorifâ.
Un mattino di maggio di buon tempo
Un mattino di maggio di buon tempo mi alzai per andare a giocare in un frutteto. Lì trovai tre fanciulle, che alternandosi cantavano: “harbalorifâ, harbaharbalorifâ, harbalorifâ”.
Quando vidi la bella erba nel frutteto e udii il dolce canto delle belle fanciulle, il cuor mio si rallegrò, così che insieme a loro dovetti cantare: “harbalorifâ, harbaharbalorifâ, harbalorifâ”.
Quindi salutai la più bella fra loro, e al tempo stesso la cinsi col mio braccio; Volevo baciarla sulla bocca. Ella disse: “lascia stare, lascia stare, lascia sta’”. Harbalorifâ, harbaharbalorifâ, harbalorifâ.
Jan I (Giovanni I), duca del Brabante fu un potente signore, che ebbe grande successo nell’ampliare i suoi domini. Amante della caccia, dei tornei, delle feste, della musica e della buona birra, autore di popolari canti come appunto Eenes meienmorghens vroe.
Morì per un incidente in un torneo, vittima della sua stessa passione per le imprese virili. Il nome della popolare birra belga “Gambrinus” sembra sia una corruzione popolare del titolo latino del duca: “Jan Primus”.
Questo canto è stato ritradotto in nederlandese da Hoffmann von Fallersleben, 1798-1874, poiché il testo è giunto soltanto in una traduzione in alto tedesco.
Onbekend 15de eeuw
(Anonimo del sec. XV)
(metà sec. XV)
Nu zijt wellekomen, Jesu lieven heer
Nu zijt wellekomen, Jesu lieven heer,
ghy komt van also hooghe, van also veer,
nu zijt wellekome van den hooghen hemel neer,
hier al in dit aerdtrijck zijt ghy ghesien noyt meer.
Kyriëleys!
Christe Kyriëleyson laet ons singhen bly,
daer meed oock onse leysen beghinnen vry
Jesus is ghebooren op den heylighen kersnacht,
van een maghet reyne die hoogh moet zijn gheacht.
Kyriëleys!
D’herders op den velde hoorden een nieuw liedt,
dat Jesus was ghebooren, sy wisten ’t niet:
“Gaet aen gheender straten en ghy sult hem vinden klaer.
Bethlem is de stede daer ’t is gheschiedt voorwaer.”
Kyriëleys!
D’heylighe drie koon’ghen uyt soo verren landt,
sy sochten onsen Heere met offerandt.
S’offerden oytmoedelijck myrrh, wieroock ende goudt
T’eeren van de kinde dat alle ding behoudt.
Kyriëleys!
Sii ora benvenuto, Gesù, Signore benedetto
Sii ora benvenuto, Gesù, Signore benedetto, tu vieni da così in alto, da così lontano, sii ora benvenuto quaggiù dall’altissimo cielo, qui sulla terra dove prima non eri tu apparso. Kyrie eleyson!
Christe eleyson, Kyrie eleyson cantiamo lietamente, e diamo quietamente inizio ai nostri canti: nasce Gesù nella santa notte, da una Vergine Regina degna del più alto onore. Kyrie eleyson!
I pastori nei campi udirono un nuovo canto, che Gesù fosse nato, nulla ne sapevano: “Andate per quella strada e certo lo troverete. Betlemme è la città dove ciò è avvenuto.” Kyrie eleyson!
I tre santi re da una remota terra, cercavano Nostro Signore recando doni. Offrivano in atto sottomesso mirra, incenso e oro per onorare il Bambino ha in custodia tutte le cose. Kyrie eleyson!
Questo umile canto popolare natalizio di autore anonimo ci ricorda la profonda e capillare diffusione della Fede cristiana cattolica in mezzo alla gente comune. Ci vollero le elucubrazioni di intellettuali presuntuosi e lo scandalo dato alla gente semplice da uomini di Chiesa più intenti al proprio orgoglio, al proprio interesse, al proprio desiderio di farsi un comodo nido nel mondo per erodere gradualmente questo tesoro di Fede.
Suster Bertken (Bertha Jacobs)
(Utrecht 1426/1427-1514)
Een Lyedeken
Ic was in mijn hoofdkijn om eruit gegaen,
Ic en vanter niet dan distel ende doorn staen.
Den distel ende den doorn die werp ic uut;
Ic soude gaerne planten ander cruyt.
Nu heb ic een ghevonden die gaerden can:
Hi wil dye sorghe gheerne nemen aen.
Een boom was hooch gewassen in corter tijt:
Den condic uyter eerden ghebrenghen niet.
Dat hinder vanden bome mercte hi wael:
Hi toochten uyter eerden altemael.
Nu moet ic hem wesen onderdaen,
Of hi en wil dat gaerden niet bestaen.
Mijn hoofken moet ic wien tot alre tijt;
Nochtans en can icks claer ghehouden nyet.
Hier in soe moet ic zaeyen lelyen saet:
Dit moet ic vroech beghinnen inder dageraet.
Als hi daer op laet dauwen, die minne mijn,
So sal dit zaeyken schier becleven zijn.
Die lelyen siet hi gheerne, die minre mijn,
Als si te rechte bloeyen ende suver zijn.
Als die rode rosen daer onder staen,
So laet hi sinen sueten dau daer over gaen.
Als hi daer op laet schinen der sonnen schijn,
So verbliden alle die crachten der sielen mijn.
Jhesus is zijn name, die minre mijn:
Ic wil hem eewelic dienen ende zijn eyghen zijn.
Sijn min heeft mi gegeven so hogen moet,
Dat ic niet meer en achte dit eertsche goet.
Un piccolo canto
Ero andata nel mio orticello a cercare erbe aromatiche, e null’altro vi ho trovato se non ortiche e piante spinose.
Ortica e spina io le sradico; volentieri seminerei piante ben diverse.
Ora ho trovato chi può coltivarmi l’orticello: è ben disposto ad occuparsene.
Un albero ha fatto crescere alto in breve tempo, quale non avrei mai potuto far germogliare dalla terra.
Ciò che all’albero impediva di crescere egli l’ha ben notato: così lo ha perfettamente fatto germogliare.
Ora devo stargli sottomessa, altrimenti più non si curerà del mio giardino.
Il mio orticello devo continuamente falciarlo; altrimenti non posso mantenerlo puro.
Qui sulle zolle devo seminare gigli: devo cominciare presto, al primo albeggiare.
Quando il mio amore vi lascia cadere la rugiada quei semi mettono presto radici.
I gigli piacciono al mio amore, quando giustamente fioriscono e sono puri.
Quando le rose rosse fioriscono, lascia gocciolare su di esse la sua dolce rugiada.
Quando Egli vi fa risplendere il sole si allietano tutte le forze della mia anima.
Gesù è il Suo Nome, ed Egli mi ama: in eterno Lo voglio servire ed essere sua.
Dal Suo amore ho attinto così grande coraggio che più nulla mi importa dei beni terreni.
Bertha Jacobs fu monaca di clausura e trascorse cinquantasette anni della sua vita in una cella di neppure sedici metri quadrati di superficie, rivestita di una tonaca semplicissima, nutrendosi nel modo più semplice e modesto e sottoponendosi a dure penitenze. Ci ha lasciato due libri devozionali, dei quali uno contiene otto liriche. Quest otto poesie la pongono tra i maggiori poeti nederlandesi. Diversamente dalla sofferta esperienza mistica di Sorella Gansoirde, Sorella Bertken esprime, in questa delicata lirica, la confidenza gioiosa dell’anima che si abbandona all’Amore divino. Da un inizio simbolico, in cui si parla di piante e di giardinaggio, si rivela il significato profondo: la scoperta di Gesù Redentore.
Anthonis de Roovere (Brugge/Bruges ca. 1430-1482)
Vander mollenfeeste
Hoort, ghy goede lieden al ghemeyne,
edele, onedele, aerme ende rijcke,
ghy zijt ontboden, groote ende cleyne,
te trecken in een ander wijcke!
Hy is uytghesonden met zijnder pijcke,
des opperste Prinche messagier.
Maecht u ghereedt ale ghelijcke:
ghy en muecht niet langer blijven hier!
Al in dat lantschap vanden mollen
moetdy trecken sonder waen:
al wildy daer teghen strijen of grollen,
ten mach u helpen niet een spaen!
Als de bode coempt, tis ghedaen,
hoe ionck, hoe schoone, hoe vroom, hoe wijs:
als dopperste ghebiedt, soe moet ghy gaen
trecken int landt van mollengijs.
Der mollen Heere, dopperste prins,
die de mol schiep, de blinde beeste,
heeft ontboden haer en gins
onder tvolck, minste ende meeste,
dat sy commen ter mollen feeste,
daer sy hof houden onder deerde.
Als dlichaem sal scheeden van den gheeste,
salmen elck dienen naer zijn weerde.
De Paus ende zijn cardenalen
moeten alle tdeser feesten sijn;
legaten, bisschoppen, dekens, officialen,
prochiepape, predicare, jacopijn,
freerminueren, vrouenbruers ende augustijn,
priesters, clercken ende meester wijs:
dese moeten alle binnen corten termijn
trecken ter feesten te mollengijs.
Saertroosen, monnicken, regulieren,
bogaerden, lollaerden ende cluysenaren,
fratres, wilt u ghereeden schiere!
Nonnen, baghijnen, wilt mede waren!
clopsusters, susters bedelaren
ende alle die leven nae den gheeste,
maeckt u bereedt sonder sparen:
ghy moet al trecken ter mollen feeste!
Keysers, coninghen, hertoghen, graven,
baenrotsen, ridders ende jonckheeren,
ende voort alle rijcke van haven,
wilt u tallen duechden keeren,
want den wech die moetty leeren
ter feesten te commene te mollengijs.
Maeckt u ghereet, dat ghy met eeren
daer muecht ontfanghen lof ende prijs!
Cancelliers, bailious ende souvereyns,
schouthetens, amptmans ende dienaren,
schepenen, meyers ende castelleyns,
ontfanghers, rentmeesters ende wisselaren,
hoofmeesters die de salen bewaren,
portiers, cocx, smaeckt wel ten keeste!
Ende die edele zeeman moet varen
met zijnen schepen ter mollenfeeste!
Ghy machtighe poorters ende bourgoys,
ghy rijcke pachters ende rentieren,
al zijn u solders vol corens, vol hoys,
u kisten vol ghelts ende u fortchieren,
ghy rijcke cooplieden ende drapenieren,
al zyn u kisten vol meerssen, vol wollen,
ghy sult oock moeten trecken logieren
in dat lantschap vanden mollen.
De coninck der mollen heeft doen ontbieden
met zijnen bode, stijf ende sterck,
al teenemale de ambachts lieden,
dat sy oock moeten laten werck.
Dus rade ick elcken dat hy neme merck
om goede herberghe ende logijs:
want, claer gheseyt, ghy moet int perck
ter feesten commen van mollengijs.
Der mollen coninck heeft doen vermanen
alle ionghe ghesellen fijn
met corte keerels, met lange palanen
aen haer schoen ende aen haer pattijn.
Voort alle stortstekers, wie sy zijn,
legt af u sweerden, u walsche dollen,
wants ghy moet eer lanck termijn
trecken int landtschap vanden mollen!
Selden is volmaect de feeste
daer vrouwen ghebreken ofte ionckvrouwen:
dies zijnse ontboden, minste ende meeste,
ter mollen feeste in goeder trouwen.
Langhe sleypsteerten ofte bonte mouwen
noch tuyten en dorven sy hebben twint:
de mollen die daer haer feeste houwen,
sy en soudent niet sien: sy sijn al blindt.
Dese meyskens zijn alle gedaecht,
die te vastenavonde pijpers hueren,
eest dienstbode, voestre oft maecht.
die haer voeten te dansene rueren:
dese moeten wech in corter uren!
Hoe ionck sy sijn, hoe blijde van gheeste,
dit dansen, dit reyen mach hier niet dueren:
ghy moeten ghaen dansen ter mollen feeste!
Della festa delle talpe
Udite, voi tutti, buona gente, nobili e umili, poveri e ricchi, vi si ordina, grandi e piccoli, di migrare in un altro luogo! È stato inviato con la sua falce, il messaggero del supremo Principe. Preparatevi tutti in ugual modo: non vi è più permesso restare qui!
Tutti nella terra delle talpe dovete senza dubbio migrare: se contro ciò lotterete e protesterete, ciò non vi aiuterà per un fico secco! Come giunge il messaggero, è fatta, per quanto giovani, belli, pii, saggi: per ordine supremo dovete andare ed emigrare nella terra del re delle talpe.
Il signore delle talpe, valoroso principe, che governa le cieche bestie, ha ordinato che senza indugio la gente tutta, umile e grande, accorra alla festa delle talpe, sottoterra, dove tiene corte. Quando l’anima si separerà dal corpo, ognuno riceverà secondo i suoi meriti.
Il Papa e i suoi cardinali dovranno tutti essere a questa festa; legati, vescovi, decani, avvocati di curia, prevosti, predicatori, domenicani, minoriti, carmelitani e agostiniani, preti, chierici e saggi teologi: tutti questi devono in breve tempo migrare alla festa del re delle talpe.
Certosini, monaci, regolari, bogardi, lollardi e cluniacensi, fratelli laici, preparatevi in fretta! Monache, beghine, anch’esse andranno! Sorelle di clausura, sorelle mendicanti, e tutti quelli dediti alla vita spirituale, preparatevi senza indugio: dovete tutti andare alla festa delle talpe!
Imperatori, re, duchi, conti, alfieri, cavalieri e junker, e per giunta ricchi di beni, andrete tutti quanti per giri viziosi, perché la via dovete imparare per andare alla festa presso il re delle talpe. Preparatevi così che con onore possiate ottenere lode e premio!
Cancellieri, baili e supervisori, sorveglianti, giudici e segretari, soprintendenti municipali, agenti delle imposte e guardiani di manieri, gabellieri, amministratori e cambiavalute, ciambellani delle grandi dimore, portinai, cuochi, assaggiate questo fino in fondo! E il nobile navigatore deve andare con le sue navi alla festa delle talpe!
Voi potenti cittadini e borghesi, voi ricchi agricoltori e detentori di rendite, per quanto pieni di grano e di fieno siano i vostri granai, le vostre casse piene di denaro e i vostri forzieri, voi ricchi mercanti e drappieri, sebbene siano le vostre casse piene merci, piene di lana, anche voi dovete andare ad abitare nella terra delle talpe.
Il re delle talpe ha fatto sapere col suo messo, rigido e severo, senza eccezione a tutti coloro che non amano operare, che anch’essi devono mettersi al lavoro. Così consiglio a ciascuno di fare attenzione a prepararsi buon albergo e alloggio: perché, com’è chiaro, dovete andare in quel luogo dove festeggia il re delle talpe.
Il re delle talpe ha mandato inviti a tutti i bei giovanotti con corti mantelli, con lunghe spirali in punta alle scarpe e ai sandali. Via tutte le armi, comunque siano, posate le spade, i vostri pugnali francesi, perché dovete tra non molto migrare nella terra delle talpe!
Di rado è completa la festa dove mancano donne e fanciulle: quindi esse pure sono invitate, umili e aristocratiche, alla festa delle talpe con ogni cortesia. Di lunghe vesti o variopinti corsetti o cuffie possono ben farne a meno: le talpe che laggiù fanno festa, non vedrebbero nulla: sono tutte cieche.
Queste fanciulle sono tutte allegre, e la sera scorsa arruolavano suonatori, serventi, cuoche e serve, e i loro piedi fremono per danzare: ma in breve tempo se ne dovranno andare! Per quanto giovani siate, per quanto di spirito allegro, questa danza, questo ballo in tondo non può qui durare: voi dovete andare a ballare alla festa delle talpe!
Il fiammingo Anthonis de Roovere è noto per le sue opere a “refrain” (ritornello). La lirica qui riportata è una tipica danza macabra quattrocentesca, sul piano formale, quindi storicamente datata. Questo però non deve far dimenticare — come si vorrebbe nel regnante marasma storicista e relativista “postmoderno” — che la realtà qui raffigurata ha valore universale, per ogni paese ed ogni epoca.
Roemer Pieterszoon Visscher
(Amsterdam? 1547 – 1620)
Graf-schrift
Hier onder leydt
een jonge Meyt,
die plach te zijn
vrolich van praet,
eerlijck van daedt,
schoon van aenschijn.
Met hare vreught
heeft sy verheugt
groot ende kleyn:
maer haer verdriet
klaeghde sy niet
dan God alleyn.
Den wegh ter doodt
deur lijden groot
is sy getreden:
met Lazaro bloot
in Abrahams schoot.
Rust sy in vreden. Amen
Iscrizione funebre
Qui sotto giace una giovane fanciulla, che sempre era allegra nel discorso, onorevole nel comportamento, bella d’aspetto.
Con la sua gioia rallegrava giovani e vecchi: ma della sua angoscia non si lamentava che di fronte a Dio.
Poi con la morte attraverso una lunga sofferenza se n’è andata: con Lazzaro senza dubbio nel seno di Abramo. Riposi in pace. Amen
Non molto si sa della vita di questo poeta idealista e umanista, uno dei protagonisti dell’incipiente “secolo d’oro” olandese. Il tema trattato in questa poesia è uno di quelli assolutamente universali.
“Poiché tutta la carne è come erba, e tutto lo splendore dell’uomo è simile ai fiori dell’erba”, come dice la Scrittura, la poesia funebre è infatti una delle espressioni più calzanti della condizione umana. Ne abbiamo un altro esempio in Vander mollenfeeste di Anthonis de Roovere e in altre liriche di questo stesso volume. Anche la poesia tedesca abbonda di esempi. Basti pensare a Sehnsucht nach dem Tode, “Nostalgia della morte” di Novalis e Denk es, o Seele, “Pensaci, o anima”. di Eduard Mörike.
Non è proprio il caso di fare scongiuri, perché, come sempre per chi ha fede, “aeterna in caelis habitatio comparatur”, e anche questa poesia testimonia della consolante e certa fede cristiana.
Suster van Gansoirde (Amsterdam ca. 1450-1500)
Och, nu mach ic wel troeren
Och, nu mach ic wel troeren:
My dunct ic heb verloren
Ihesum, mijn zuete lieff!
Ic waend hem syn vercoren,
Ic sprac: “en wilt niet troeren”.
Tis al een ander brieff!
Myn hert end all myn sinnen
Syn seer beswaert van binnen,
In my is groot verdriet.
Ic waende staen ter mynnen:
My dunct, zijs te beghinnen,
Myn lief en acht my niet.
Och, wie sel my nu leren,
Aan wien sel ic my keren,
Daer ic mach troest ontfaen:
Ihesus is myn begheren:
Van row sal ic verteren,
Wil hiis my dus afgaen.
Tis noet, ic will my keren
Aen haer, end troest begeren,
Die moeder is end maecht.
Ic hoep, tot synre eren
Sel si my visiteren
End maken onversaecht.
Maria, coninghinne,
Myns herten troesterinne,
Och, hoe ist dus gesciet!
Ic waend in u kynts mynne
Te staen, mit hert, mit sinne:
Nu dunct my, tis so niet.
Nu noch in ghenen tiden
En can ic my verbliden:
Tis niet mit my alst pleech.
Ic merct an allen siiden:
Wat ic verneem, tis liden,
U soen die staet my leech.
Ic waen van daech te daghe:
Nu sel ic hen behagen,
Hi sel mi comen bi.
Mer lacy, nae myn clagen
Dunct my hen weynich vragen:
Hi blijft te mael van mi.
Och, dus is scarp te striden:
Te kennen syn verbliden
End droevich syn altiit!
Een wyl tiits moch ment liden:
Mer och, tot allen tiden,
Tis my te scerpen striit.
Nu, maecht, wilt myns ontfarmen:
Myn wenen end myns karmen
Laet niet verloren syn!
Ik bid, helpt mi te barnen
Mit myin i u kynts armen:
Troest my uut dese pyn!
Oh, ora è ben tempo ch’io pianga
Oh, ora è ben tempo ch’io pianga: mi avvedo di aver perduto Gesù, mio dolce amore! Ho visto che Egli era l’Eletto, e mi son detta: “Con lui non piangerò”. Ma tutt’altra è la verità!
Il mio cuore e tutti i miei pensieri sono nell’intimo assai gravati, in me è grande disperazione. Avevo creduto d’essermi data all’amore spirituale: mi pare però di dover ancora cominciare, il mio amore non si cura di me.
Oh, chi mi guiderà, a chi mi rivolgerò, dove otterrò consolazione? Gesù è il mio desiderio: in lutto mi consumerò, finché Egli mi lascerà nella mia angoscia.
È necessario che io mi rivolga a Lei, e chieda consolazione, alla Madre che tanto può. Spero che, in onore di Lui, Ella mi visiterà e mi toglierà dai miei timori.
Maria, Regina, consolatrice del mio cuore, oh, com’è potuto avvenire! Io mi sono illusa dell’amore per Tuo Figlio di stare salda, col cuore, con la ragione: ora mi pare che così non sia.
Non vi è mai motivo per me di rallegrarmi: la mia vita non è come dovrebbe essere. Lo noto da ogni parte: ciò che vedo è dolore, il Tuo Figlio non si cura di me.
Di giorno in giorno mi illudo: ora godrò con Lui, Egli mi verrà vicino. Ma ahimé, ai miei lamenti sembra che Egli non presti ascolto: Egli resta troppo lontano da me.
Oh, così è doloroso lottare: sapere ciò che potrà soddisfarti e ciononostante esserne privi! per breve tempo lo si potrà sopportare: ma oh, per sempre, è per me una lotta troppo dura.
Ora, o potente, abbi pietà di me: il mio pianto e i miei singhiozzi, fa che non vadano perduti! Ti prego, aiutami a bruciare con amore fra le braccia del tuo Figlio: consolami di questo dolore!
Questa poetessa, monaca nel convento di Gansoirde, ad Amsterdam, è autrice di poesie contenute in due manoscritti provenienti da quel convento. Sussiste qualche dubbio se si tratti di opere tutte attribuibili alla stessa persona, ma non bisogna dimenticare che lo stile di un autore può modificarsi considerevolmente nel corso dell’esistenza.
Lo stato d’animo che permea questa toccante lirica è ben noto nell’esperienza mistica. Si tratta dell’aridità che prima o poi colpisce tutte le anime spiritualmente unite a Cristo. Sembra, in quei lunghi periodi, che ogni consolazione sia svanita, che Dio sia lontano e muto, che sia adirato contro l’anima che Lo ama. Tanto più meritorio, in questi casi, è lo sforzo, compiuto ugualmente e nonostante tutto, per restarGli fedele.
È proprio in quel periodo di prova che Egli ama di più l’anima, perché maggiore è il merito che essa acquista obbedendo e pregando pur nella desolazione in cui si trova. La via seguita da questa monaca è la “via regia” per superare la prova: in modo esemplare ella si rivolge alla Madre di Dio per averne conforto ed avvicinarsi al Figlio di Lei.
Non deve stupire il linguaggio a tratti decisamente erotico. Le espressioni dell’amore sono le stesse nell’amore terreno e in quello spirituale, entrambi graditi a Dio: si tratta di due diverse sfere di emozione che usano un linguaggio simile. È tipico che il tema amoroso sia più frequentemente trattato dalle poetesse piuttosto che dai poeti: a pari dignità e uguaglianza di diritti fra i sessi (negare questo sarebbe sprofondare nella barbarie) corrisponde però una netta differenza di sensibilità. Il sesso, che è un dono divino, non è qualcosa che uno possa decidere da sé, a dispetto delle ambigue chiacchiere “postmoderne” sui cosiddetti “generi”.
Anna Bijns
(Antwerp/Anversa 1493 – 1575)
Refrein (O doot, door u memorie)
Heere, alst my al afgaet, wilt my dan bystaen
O doot, door u memorie ic vereyse!
Weer ic voorwaert ga oft achterwaert deyse,
ic en mach niet ontvlien, dit doet my beven.
Ic moet wech, ic en weet waer leyt de reyse,
weer ter hellen oft ten hemelschen paleyse.
Maer tis seker, al dat ontfaen heeft leven,
moet sterven: tvonnis is so ghegeven,
hier tegen en is ook gheen appellatie.
Mijn dagen zijn ghetelt, mijn iaren zijn geschreven,
alle uren werde ick ter doot ghedreven,
ick en weet hoe oft waer, tijt oft spatie.
Mijn sonden sijn vele sonder comparatie,
en svyants tentatie sal my dan bevechten.
Dus mach ic arm sondaer wel roepen om gratie,
want sou my God naer mijn verdiensten rechten,
ic werde ghelevert den helschen knechten.
O bermhertige Jesu, dus roepe ic dy aen:
Heere, als my al afgaet, wilt my dan bystaen!
Als siecte mij quelt, niet om te verstrangen,
als den neuse scherpt en de blosende wangen
veerblecken, de lipkens bestaen te blauwene,
alsmen roept om biechte, alsment Cruys gaet langen,
als diveersche pijnen mijn lichaem prangen,
en als den pols beghint te flauwene,
als treeusweet hem pijnt door tvel te dauwene,
tvleesch na trotten walghelijc te stinckene,
als de huyt eertachtich begint te grauwene
en therte van uren tot uren begint te nauwene,
alsmen gaet couten van graven, van sinckene,
en mijn vrienden om tgelt bestaen te dinckene,
die meer mijn goet dan mijn leven begheeren,
alsmen Gods lichaem mij brengt met clinckene
en alsmen de leden gaet olien en smeeren,
als mijn maghe gheen spijse en can verteeren,
o Christe Jesu, wilt u ooghen op my slaen!
Heere, als my al afgaet, wilt my dan bystaen!
Als memorie faelgeert, de crachten beswijcken
en der doot voorboden openbaerlijc blijcken,
als mijn magen, die naer mijn goet sullen erven,
mijns niet en achten, maer na plonderen kijcken,
als de dootlijke nopen ter herten waert strijken,
en de leden vaste allenskens sterven,
Als ic allen eertschen troost moet derven
en allene moet comen voor Gods presentie
rekeninghe doen en den kerf afkerven,
wat ic misdaen hebbe, waer en hoe menich werven,
ende als mijn arm beladen conscentie
van cleyne ghebreken maect groote mentie,
die ic ghesont sijnde niet eens en achte,
als ic Gods stranghe rechtveerdige sententie
van uren tot uren ligge en verwachte,
als den dach voorby is en het naect den nachte
en my twijfelt, weer ic sal verdoemt sijn oft vrij gaen,
Heere, als my al afgaet, wilt my dan bystaen!
Als lutter yemant meer met my vermaect is,
deene moede gedient, dander moede gewaect is,
en elc mijnder moeyten begint te verdietene,
als den mont bitter, therte dorstich verspaect is,
als darme siele, die van duechden naect is,
sorcht Gods rechtveerdicheyt te genietene,
als dlichaem van vreesen begint te verschietene
en de tonghe niet meer en can gespreken,
alsmen daer wijwater bestaet te ghietene
en tscheepken hem pijnt na zijn haven te vlietene,
alsmen de ghewijde keerse doet ontsteken,
therte wilt bersten en dooghen breken,
als daer geen hope en is te ghenesene,
en my sullen geheyscht werden jaren en weken
van dat ic begonste eerst yet te wesene,
och, alsmen dendelveers begint te lesene
En de werelt sal seggen van my “tfy!” saen,
Heere, als my al afgaet, wilt my dan bystaen.
Prinche
Princelijk Prince, door u liefde heet,
door u minnende herte, dat aent Cruyse spleet,
door u open vijf wonden boeyende root,
staet my by inde ure die ic niet en weet!
Ontfermt mijns dan door u bloedisch sweet,
dwelc ghij storte int hooken uyt vrese der doot!
Als ic ligghe en gape in duyterste noot
en mij niet volghen en sal dan mijn wercken,
sijt dan mijn leytsman, mijn Prince, mijn hoot
jont mij te nuttene dlevende broot
dwelc my in mijn pelgrimagie magh stercken!
Geef mij waarachtig, als kint der kercken,
volcomen biechte, al mijn Sacramenten,
en wilt mij beschermen onder u vlerken,
als mij bevechten de helsche serpenten!
U bitter doot wilt in mijn herte prenten,
mijn sondige besmette siele meucht ghij dwaen!
Heere, als my al afgaet, wilt my dan bystaen.
Ritornello (O morte, a te pensando)
Signore, quando sarà la mia ora, non mi abbandonare
O morte, a te pensando mi raggelo! sia che io avanzi sia che mi ritiri, non posso sfuggirti, questo mi fa tremare. Devo andarmene, e so bene dove conduce il viaggio, o verso l’inferno o alle celesti dimore. Ma questo è certo, tutto ciò che ha ricevuto la vita deve morire: il giudizio è pronunciato, e non ammette appello. I miei giorni sono contati, i miei anni sono prescritti, ad ogni ora vengo trascinata sempre più vicina alla morte, non so come o quando, nel tempo o nello spazio, mi colpirà. Senza numero sono i miei peccati, e in quel momento le tentazioni del nemico mi aggrediranno. Così io povera peccatrice invoco misericordia, perché se il mio Dio facesse giustizia guardando ai miei meriti, sarei consegnata ai servi dell’inferno. O misericordioso Gesù, così a Te grido: Signore, quando sarà la mia ora, non mi abbandonare!
Quando la malattia mi tormenterà, più crudele che mai, quando il naso diverrà affilato e le rosee guance impallidiranno, le labbra cominceranno a diventare blu, quando sarà il momento di chiamare il confessore, quando mi si porgerà il Crocifisso, quando dolori su dolori tormenteranno il mio corpo, e quando il polso comincerà ad indebolirsi, quando il sudore di morte si sforzerà di gocciare attraverso la pelle come rugiada, la carne puzzerà in modo rivoltante di decomposizione, quando la pelle di giorno in giorno comincerà ad ingrigire ed il cuore di ora in ora comincerà a restringersi, quando si comincerà a parlare di uno scavo di fossa e di sepoltura, e i miei amici cominceranno a pensare al denaro, poiché desiderano i miei beni più che la mia vita, quando mi si porterà il Corpo di Cristo con rintocchi di campana e quando mi si ungeranno le membra di olio santo, quando il mio stomaco non potrà più digerire alcun cibo, o Cristo Gesù, getta su di me il Tuo sguardo! Signore, quando sarà la mia ora, non mi abbandonare!
Quando la memoria cederà, le forze s’indeboliranno e i segni della morte appariranno evidenti, quando i miei parenti, che anelano all’eredità dopo la mia dipartita, senza curarsi di me, cominceranno a guardarsi in giro per saccheggiare, quando le punture mortali attaccheranno il cuore, e le membra lentamente ma sicuramente moriranno, quando io da sola dovrò rinunciare alle consolazioni terrene e io da sola dovrò andare alla Presenza di Dio per fare i conti e pagare per le colpe che ho commesso, dove e quanto spesso, e quando la mia povera coscienza gravata di piccole mancanze fa grande confessione, di cui quando ero sana non avevo fatto caso, quando la giusta e severa sentenza di Dio di ora in ora giacendo aspetterò, quando passato è il giorno e incomincia la notte e io sono in dubbio se sarò dannata o assolta, Signore, quando sarà la mia ora, non mi abbandonare!
Quando nessuno più godrà di stare con me, ma da una parte avrà umore servizievole, dall’altra infastidito, e ciascuno comincerà ad essere stanco del mio essere di peso, quando la bocca sarà amara, e il cuore disseccato, quando la povera anima, denudata nel suo timore, temerà di sperimentare la giustizia di Dio, quando il corpo comincerà ad impallidire dalla paura e la lingua non potrà più parlare, quando si comincerà a cospargermi d’acqua santa, e la nave uscirà dal porto per il lungo viaggio, quando si accenderanno le candele consacrate, e il cuore scoppierà e romperà le dighe, quando non vi sarà più speranza di guarigione, e quando sarò obbligata a render conto della mia intera vita da quando ho cominciato ad esistere, oh, quando si comincerà a leggere la preghiera degli agonizzanti e in breve tempo il mondo dirà “puah!” di me, Signore, quando sarà la mia ora, non mi abbandonare!
Principe
Augusto Principe, per il tuo rovente amore, per il tuo cuore amante, che si spezzò sulla Croce, per il rosseggiare cruento delle tue cinque ferite aperte, stammi vicino nell’ora che io non conosco! abbi pietà di me attraverso il sudore di sangue, che Tu versasti nell’orto del Getsemani per paura della morte! mentre io giaccio e boccheggio nella più oscura angoscia, e non potrà seguirmi alcunché, se non le mie opere, sii dunque la mia guida, mio Principe, mio Maestro, concedimi di consumare il Pane vivente che mi sostenga nel mio pellegrinare! Dammi veramente, come figlia della Chiesa, completa assoluzione e i Sacramenti, e voglio essere protetta sotto le Tue ali, quando mi tenteranno i serpenti infernali! Fa che sia impressa nel mio cuore la Tua amara Passione, la mia anima peccatrice possa Tu rendere candida! Signore, quando sarà la mia ora, non mi abbandonare!
Questa poetessa del Brabante, dotata di uno stile eloquente e riccamente espressivo, oltre ad essere autrice di belle liriche d’amore, condusse una coraggiosa battaglia contro la “riforma” protestante. Senza dubbio legata ad una tradizione cristiana “medioevale”, questa composizione dibatte problemi e sentimenti di portata universale, poiché di certo gli uomini non hanno smesso di morire dopo il “medioevo”, come non possono cessare di riflettere sull’immortalità dell’anima e sull’aldilà.
La poesia contiene tuttavia un grave errore teologico che sfiora l’eresia, quando presume che Cristo abbia sofferto nell’orto del Getsemani per paura della morte (uyt vrese der doot). Non per questo soffrì il Redentore, ma per la visione dell’umanità futura, e delle innumerevoli turbe di esseri umani che si sarebbero perduti nonostante il Divino Sacrificio. Lo testimonia la Tradizione e rivelazioni private, fra cui quella a Santa Maria Valtorta.
Lucas de Heere
(Gent/Gand 1534 – Parigi 1584?)
Den autheur tot sijn huusvrauwe
Lief, ons liefde begonst ghelijc op eenen tijt,
Van God gejont, die ons deze gratie dede:
Welcke liefde blijft eenvoudigh, mids dat ghi sijt
Van minen sinne en ic ooc van de uwen mede.
Dies en heeft twist noch onruste bi ons gheen stede,
En wi leven aldus in rechte weelde een paer:
Want daer so danigh accoord is, paeys ende vrede
Ghebonden met Gods hant, wat can ghebreken daer?
Naer dien ons liefde is zulc eenen stercken pilaer
Dat si ons inde doot sels niet en sal begheven,
Laet dit op ons graf, als wi sterven, zijn gheschreven:
Hier light man en wijf, nochtans gheen twee lichamen,
Die gheliic en accordingh waren in haer leven,
Storven ooc ghelic, en leven weder te zamen.
L’autore a sua moglie
Amore, il nostro amore cominciò nello stesso istante, sigillato da Dio, che ci concesse questa grazia: questo amore ha tenaci radici, poiché tu pensi come me ed io pure come te. Non resta perciò spazio per liti o inquietudini, e noi così viviamo, una coppia in piena ricchezza: perché, dove regna una così salda armonia, in pace e tranquillità, assicurate dalla mano di Dio, che mai può accadere? Poiché il nostro amore è un così saldo pilastro che non ci lascerà neppure con la morte. Sulla nostra tomba, quando moriremo, sia scritto: qui giacciono un marito e una moglie, tuttavia non due salme, ma poiché furono in piena armonia durante l’intera vita, morirono in essa, e insieme vivono di nuovo.
Pittore, grafico e poeta, di religione protestante, de Heere dovette rifugiarsi nella lieta Inghilterra, dove, a quell’epoca, i cattolici venivano “hanged, drawn and quartered” (impiccati, squartati e smembrati), ma poté rientrare in patria dopo la pacificazione di Gent.
Questa è una delle più toccanti poesie sull’amore coniugale, proteso, come ogni amore autentico, verso l’eternità. Se poi questo quadro idillico risponda a verità, o se si tratta solo di una licenza poetica, mentre nella vita reale per la casa volavano i piatti, non lo sapremo mai.
Johannes Stalpart van der Wielen
(’s-Gravenhage/L’Aja 1579 – Delft 1630)
Smeek-woorden Mariae tot den nieu-geboren
Versch geboren sagh ick een Kind’ling kleyne
zuchten en traentjes weinen.
“G’hebt groot g’lyck, dat ghy klaghet”,
sprack daer een Vrou, die Moeder was en Maghet.
“Voor den Hemel hebt ghy nu een speloncke,
koud, sonder vyer of voncke;
voor uw’ throone een krebbe,
met weynigh hoys, in plaets van wol en webbe.
Daar u songen thien-hondert-duysent geesten,
daer loeyen nu twee beesten,
die voor hymnen, voor psalmen,
met lauwen aem uw’ teere le’en bewalmen.
Door u wierden versaed, van minst te meesten,
engelen, menschen, beesten;
nu belieft u te dorsten,
en snackt van hongher naer uw’s moeders borsten.
Voor uw’ kledingh van sterren en van zonnen
moet ghy nu zyn gewonnen
inde luyeren en doecken
die myn armoe by een heeft kunnen soecken.
U quam eer toe een Keyserlycke moeder,
Augustus tot een voeder,
want de desen u souden
vereeren met scharlaken en rood goude.
Maer want u nu belieft, myn uytverkoren,
van my te zyn gheboren,
zoo genadight uw’ handen
te laten woelen in dees’ arme banden”.
Dolci parole di Maria al nuovo nato
Un Bambino appena nato io vidi, che singhiozzava e piangeva amare lacrime. “Gran ragione hai di piangere”, gli diceva una Donna, che era Vergine e Madre.
“Al posto del paradiso hai ora una spelonca, gelida, senza fuoco o scintilla; come trono una mangiatoia, con poca paglia, invece di lana e bambagia.
Lassù per Te cantavano migliaia di migliaia di angeli, qui Ti lodano solo due bestie, invece di inni, invece di salmi, impariamo, insieme al Tuo tiepido respiro, a raccogliere le tue lacrime.
Da Te furono saziati, dal più piccolo al più grande, angeli, uomini, bestie; ora aneli a dissetarti, e per la fame spalanchi la bocca verso i capezzoli di Tua madre.
Invece del Tuo vestito di stelle e di soli ora devi essere avvolto nelle fasce e nei pannolini che la mia povertà ha potuto trovarti.
A Te si converrebbe piuttosto una madre imperiale, e Augusto come padre putativo, perché essi dovrebbero onorarTi con rosso oro e porpora.
Ma poiché ora Ti è piaciuto, o mio Eletto, da me essere generato, permetti per Tua grazia che le Tue mani si agitino in queste povere fasce”.
Il poeta era un cattolico olandese, attivo propugnatore della Controriforma. Già avvocato a L’Aja dal 1598, sentì la vocazione sacerdotale e divenne prete nel 1606. Nominato arciprete di Delft e Rotterdam nel 1613, mantenne questo incarico fino alla morte. Forte polemista contro gli errori protestanti, riuscì con la sua predicazione a riportare quasi per intero alla Chiesa la regione del Westland.
Questa lirica sulla discesa di Dio dalla felicità del paradiso alle privazioni e alle sofferenze della terra, vista con gli occhi della Vergine Madre, coglie uno dei temi fondamentali del Cristianesimo: il mistero dell’Incarnazione.
Pieter Corneliszoon Hooft
(Amsterdam 1581 – ’s Gravenhage/L’Aja 1647)
Noodlot
Foelix qui potuit rerum cognoscere causas
Geluckigh die d’oorsaecken van de dingen
verstaet: en hoe sij vast sijn onderlingen
geschaekelt sulx, dat geene leventhêen
(God uyygeseidt) oyt yet van selven deên
oft leên, maer al door ander oorsaex dringen.
Door oorsaex cracht men al wat schiedt siet drijven:
waer die te flaeuw, geen wercking soud beclijven
en oorsaek zijn gheen oorzaek. Wat gewracht
ter wereld wordt, is dan te weegh gebracht
door kracht soo groot dat het niet nae kan blijven.
Elcke’ oorsaeck heeft haer moederoorsaeck weder.
’T gaet al soo ’t moet: en daelt van Gode neder.
Zijn goedheit wijs vermoghen is de bron
daer ’t al uyt vliet als stralen uyt de zon.
Hij kon, en soud waer ’t nutst, ons helpen reeder.
Il destino
Felice chi poté comprendere le cause delle cose
Felice chi comprende le cause delle cose: e come esse sempre siano soggette e così ordinate che alcun essere vivente (eccetto Dio) mai da se stesso si forma o tramonta, ma tutto è regolato da altre cause.
Tutto ciò nel mondo si vede apparire discende da una causa: se la causa fosse troppo debole non avrebbe alcun effetto duraturo e la causa non sarebbe tale. Ciò che nasce nel mondo, viene poi distrutto da una così grande forza che nulla può durare.
Ogni causa a sua volta è generata da una causa. Tutto procede come deve: e da Dio discende. La Sua onnipotente saggia bontà è la fonte da cui tutto fluisce come i raggi dal sole. Egli può, quando a noi più giova, agevolmente soccorrerci.
Storico, poeta e drammaturgo, figlio di Cornelis Hooft che fu sindaco di Amsterdam, fu a sua volta un amministratore: prefetto (drost) di Muiden e balivo (baljuw) del Gooiland. Non era membro di alcuna Chiesa, ma propugnava il rispetto verso tutte le confessioni. Il suo stile è considerato estremamente difficile e le sue opere ardue da tradurre.
In pochi versi il poeta svolge una profonda considerazione filosofica sulla concatenazione delle cause che governano gli eventi nel mondo. Ciò lo conduce a riconoscere, in linea con San Tommaso d’Aquino, la causa incausata che è Dio, sole di giustizia, e la Sua provvidenza. Si tratta di una linea di ragionamento particolarmente indigesta ai cervelli affondati nella palude del relativismo, e proprio per questo particolarmente preziosa e degna della massima attenzione e del più alto rispetto. La citazione latina è dalle Georgiche di Virgilio, II, 490, ed è approssimativamente tradotta nel primo verso della poesia e all’inizio del secondo.
Justus de Harduyn
(Gent/Gand 1582 – Oudegem 1641)
Maria tot haer suygende kindeken
Waer toe dogh maeckt u mondeken reyn,
mijn lief, nu sulc bedrijf?
En waer toe dogh u handekens cleyn
duymelen alsoo stijf
op het alabaster van mijn borst?
Soud’ het wel sijn, peys’ick, van dorst?
Maer of ’t daerom noch waere ghedaen,
ghy weet wel dat een Maeghd,
hoe rijp, hoe rond haer boesemkens staen
gheen melck of sponw’ en draeghd:
hoe kan ick geven dan de bust,
die nooynt en wist van ‘sweerelts lust?
Nu dan, o liefste mondeken root,
nu dan, o lipkens soet,
en doet niet meer alsulck eenen noot,
want ’t is verloren moet.
‘Tis al om niet dat ghy dogh reckt,
’tis al om niet dat ghy dogh trekt.
Neen, neen, mijn Lievken, neen, comt aen
ten is u maer gheproeft;
neen, mondeken, comt, wilt u versaen,
ghy weet wat u behoeft.
Ghy weet dogh wel hoe dat al gaet,
ghy weet hoe ’t met u Moeder staet.
Ghy weet dat zij is Vrouw’ ende Maeghd;
ghy weet da zy alleen
voor u twee volle boesemkens draeghd;
ghy weet dat anders gheen,
o grooten God van desen Al!
beter u op-coesteren zal.
Maria al suo Bambino lattante
Cosa dà alla tua pura boccuccia, amor mio, una tale forza? E perché le tue manine così forte premono sul mio seno d’alabastro? Che sia, io penso, per la sete?
Ma anche se fosse per questo, tu sai bene che una vergine, per quanto mature, per quanto rotonde siano le sue mammelle, non possono dare latte: come posso dunque dare il seno, che non ha mai conosciuto il piacere del mondo?
Suvvia, amatissima boccuccia rossa, suvvia, dolci labbruzzi, non succhiate più tanto ansiosamente, perché è inutile sforzo. È tutto inutile che vi sforziate, è del tutto inutile che succhiate.
No, no, mio adorato, no, vieni, volevo solo metterti alla prova; no, boccuccia, vieni, saziati, tu sai di che hai bisogno. Tu sai bene come stanno le cose, tu sai chi è Tua Madre.
Tu sai che è Madre e Vergine; tu sai che Lei sola ha per Te due mammelle piene; tu sai che nessun altro, o grande Dio dell’universo! meglio Ti saprà riscaldare.
Prete cattolico dal 1607, Harduyn visse con grande semplicità, ma costantemente circondato da libri. Proveniva da una famiglia colta: suo padre Francis de Harduyn aveva lavorato come correttore di bozze nella famosa stamperia Plantijn di Anversa.
In linea con la lunga tradizione figurativa cattolica, vivissima nelle Fiandre, l’autore dipinge una sorta di quadretto poetico della Vergine col Bambino. In verità, in questo caso si tratta di una rappresentazione alquanto superficiale. Desta inoltre una certa perplessità che la Madonna scherzi in questo modo col Bambino, dicendogli di non avere latte, mentre non è vero. Bugie, sia pure scherzose, fra personaggi celesti, non sembrano appropriate.
Gerbrand Adriaenszoon Bredero
(Amsterdam 1585 – 1618)
Aendachtigh gebet
O Levendige God! eeuwigh, goed en almachtigh,
aenschouwt me-lyelijk my, droeve en neer-slachtigh
en uytgequeelde man van soberen gestalt;
gedooght niet dat hem nu de wan-hoop overvalt,
die doch een vyandt is van hemelsche genade,
want sy mijn arme siel sou eeuwelijcken schade;
ontfangt, o Heere! doch het suyverst’ van mijn hert,
geeft dat my myne sond niet toe-gerekend wert;
neem my (die hier op aerd’ als vremdeling most swerven)
in ’s hemels borgery na een God-saligh sterven.
Ach! dat u lieven Soon met zijn onschuldigh bloedt
Voor myn, ken-schuldige, de borrecht-tocht voldoet.
Och! ick ben uytgeteert en ga met smart betreden
den algemeen wegh van d’ouwde lang verleden.
O Heer! ik kyve niet noch hadder niet met u:
het sterven is mijn lief, ist U behaghelijck nu;
want ghy hebt my gemaeckt en mooght my weer ontmaken,
wanneer ’t u wel gevalt. O God! voor alle saken
beveel ick U mijn ziel, o Salighmaker goed!
Ick geer geen ander vreugd, ick soeck geen ander soet,
geen ander blydschap, ach! noch oock geen liever lusten,
als by den Bruydegom van mijnen ziel te rusten.
Preghiera intima
O Dio vivente! eterno, buono e onnipotente, volgi il Tuo sguardo a me quasi cadavere, afflitto e abbattuto, un uomo emaciato e misero di aspetto; non permettere ora che sia sopraffatto dalla disperazione, che sempre è nemica della grazia celeste, poiché essa infliggerebbe eterna rovina alla mia povera anima; accetta, o Signore! ciò che di più puro c’è nel mio cuore, concedi che non gravi su di me il mio peccato; accettami (costretto come sono qui sulla terra a soggiornare come straniero) nella corte celeste dopo una santa morte. Ah! che il Tuo amato Figlio col suo sangue innocente per me, conscio della mia colpa, si offra in pegno. Oh! io sono straziato e con afflizione percorrerò la comune via dei vecchi da lungo tempo scomparsi. O Signore! io non discuto né disputo con Te: morire mi è grato, e a Te è facile; perché Tu mi hai fatto e così puoi disfarmi quando a Te più piace. O Dio! per ogni cosa la mia anima metto ai tuoi comandi, o buon Redentore! Non desidero alcuna altra gioia, non cerco alcuna altra dolcezza, nessun’altra felicità, oh! nessun’altra più dolce gioia, che riposare presso lo sposo della mia anima.
Uno dei più rappresentativi esponenti della Amsterdam del secolo d’oro, Bredero fu lirico e drammaturgo. Di persuasione calvinista, morì proprio l’anno del concilio di Dordrecht (nel quale si scontrarono le due correnti del calvinismo olandese, arminiana e gomarista), prima quindi che l’eresia di Calvino si indurisse in Olanda in seguito alla vittoria della corrente gomarista.
Più che con rassegnazione, con vero desiderio il poeta esprime la sua ansia di ricongiungersi a Dio in perfetta sintonia con la volontà di Lui. Questa meditazione cristiana sulla morte non ha nulla di doloroso e, tanto meno, morboso, ma rappresenta una sana riflessione che dà significato alla stessa vita.
Gerbrand Adriaenszoon Bredero (Amsterdam 1585 – 1618)
Geestigh liedt
Wat dat de wereld is,
dat weet ick al te wis
(God betert) door ’t versoecken:
want ick heb daer verkeert
en meer van haer geleerd
als vande beste boecken.
Want of ick schoon al las
het geen soo kunstich was
als Goddelijck geschreven,
ten gingh ter ziel noch sin
soo nyver my niet in
als ’t eygen selfs beleven.
Nu heb ick ‘t al versocht,
soo dol als onbedocht,
soo rauw als onberaden.
Och Godt! ick heb te blind
en al te seer bemind
de dingen die my schaden.
Een hooft vol wind en wijn,
een hart vol suchts en pijn,
een lichaem gants vol qualen
heeft Venus en de kroes
of selfs die leyde droes
my dickwils doen behalen.
Och! een bedroeft gemoet
en een hert seer verwoet
van duysent naberouwen
van overdaet en lust,
met een ziel ongerust,
heb ick in ’t lest behouwen.
Hoe strengh breeckt my dit op:
mijn kruijfde, krulde kop,
die brenght mijn voor de jaren,
in mijn tijds Lenten, voort
op ’t swart en ’t swetigh swoort
veel gryse, graeuwe hayren.
Wanneer een ander leyt
gestreckt en uytgespreyt
en rust met lijf en leden,
dan plaeght my aldermeest
de quellingh van mijn geest
met beulsche wredicheden.
Dan dringht my door de huyt
het bange water uyt
door kommerlijcke sorgen
dies my het herte barst
en wenscht, alsoo geparst,
den ongeboren morgen.
En nimmer ick den dagh
alsoo geluckich sagh
dat sy my vol verblyden;
vorwaer, ‘k heb uur noch tijd,
of ellick heeft syn strijd,
sijn lief, zijn leed, zijn lyden.
Al ‘t gene dat die lie’n
ter Wereld mogen sien
of immermeer verwerven
en wensch ick niet soo seer
als saligh inden Heer
te leven en te sterven.
Canto spirituale
Cosa sia il mondo, questo lo so per certo (Dio mi perdoni) per esperienza: perché in esso ho vissuto e da esso ho appreso di più che dai migliori libri.
Perché ciò che ho letto, fosse pur scritto con maestria divina, non coglieva nel segno né aveva un senso così forte come l’esperienza propria.
Ora ho tutto sperimentato: cose folli e avventate, grossolane quanto sconsigliate. Oh Dio! come sono stato cieco nell’amare troppo le cose che mi erano di danno.
Una testa piena di vento e di vino, un cuore pieno di desiderio e dolore, uno stupido corpo pieno acciacchi, Venere e la bottiglia o il diavolo medesimo mi hanno spesso procurato.
Oh! una mente angosciata e un cuore tormentato da mille rimorsi per gli eccessi compiuti e la lussuria ed un’anima inquieta ho alla fine ottenuto.
Come tutto questo mi pesa: la mia mente contorta, mi conduce anzitempo, alla quaresima della mia vita, su una scura e sudata pelle crescono molti grigi capelli.
Mentre un altro giace disteso e imperturbato e riposa il corpo e le membra, a me sommamente pesa con brutali crudeltà il tormento del mio spirito.
Allora scaturisce dalla pelle un sudore di paura per le angustie che non mi danno tregua così che col cuore stretto e sul punto di scoppiare, anelo al sorgere dell’alba.
E non ho mai visto il giorno fortunato nel quale potessi pienamente rallegrarmi; in verità, non ho conosciuto ora o momento che non portasse la sua lotta, il suo amore, il suo contrarietà, le sue sofferenze.
Tutte le menzogne del mondo sono sempre da respingere, ed io non desidero altro con tutto il cuore che nella gioia del Signore vivere e morire.
Profonda riflessione valida per ogni epoca, perché, al di là dei mutamenti storici, ai quali attribuisce tanta importanza la superstizione materialista e storicista, la natura umana e l’esperienza della vita sono fatti universali e senza tempo o, come, nella sua saggezza ispirata, dice l’Ecclesiaste, “Non vi è nulla di nuovo sotto il sole, e nessuno può dire: ecco, questa cosa è nuova, poiché essa già esisteva nei tempi andati, prima di noi”.
Joost van den Vondel
(Keulen1587 – Amsterdam 1679)
Decretum horribile: Gruwel der verwoestinge
God rukt d’onnozelheid van moeders borsten af,
en smakt ze in ‘t eeuwig vier. O poel! o open graf!
Waar berg ik mij van stank? dar dit gedrocht zijn pooten
nog branden aan Serveet en hem ten afgrond stoten,
als een Godlasteraar; nadien dit schending boek
in ‘s Hemels aanschijn spuwt dien gruwelijk vloek?
Waar ben ik? Onder ‘t licht der Godgeleerde lampen?
Of onder Lucifer, in ‘t zwarte rijk der dampen?
Is dit het noodlot van ‘t verkoren wierookvat?
Is dit de Ziekentroost en Christelijke schat?
En was die lastermuil dus op Michiel gebeten?
Of was het om, met eer, zijn Spaanse goude keten,
die klinkklaar zich door zoveel rode schakels vouwt,
te taken? Zou men dan, om pistolettegoud
of heldren zonneglans van Franse leliekronen,
geen Vaderland verraân, en zeven Vorsten-tronen?
Maar dit verklaart geen text, nocht mikt op ‘t rechte doel.
Mijn ijver dwaalt van ‘t spoor; hij slacht den predikstoel.
Kwakzalvers venten dit vergift nog voor driakel.
Dees kinderduivel was, een eeuw lang, ‘s volks Orakel.
‘k Getroost me licht, zo mans nog derwaart bevaart gaan:
maar dat m’ er vrouwen vindt, en kan ik niet verstaan;
voornamelijk die, met een hartelijk genoegen,
gezwangerd, onder ‘t hart ooit ziel en leven droegen,
en levend tuigen, met toe hartelijk een zucht
het moederlijk gemoed omhelst zijn lieve vrucht.
Hieruit heeft Salomon het vonnis vlak gestreken.
En nog kon hongersnood dat stalen hart-slot breken:
de buik en luistert na geen kinderlijk gekarm:
de honger holt en raast, en vult de blinden darm.
Men noem dan dit een moord van ongezonde zinnen.
En schoon een moeder staakt haar zuigeling te minnen,
des Scheppers liefde, die ‘t onschuldig schepsel kust,
en koestert en omarmt, wordt nimmermeer geblust.
Dat staat, gelijk een rots, die stormen kan verduren.
Dit slot beschermt ‘t Geloof met diamante muren.
Het siddert niemand meer de bliksems van Calvijn,
die, door het misbruik, krachteloos geworden zijn;
waarom hij mutserds dient te prachen van de Goden;
opdat in ere blijft de klapmuts der Synoden.
Want Loevestein dat slacht de Rotterdamse kerk,
die ledig loopt van zelf. Het volk en maakt geen werk
van dees verdoemelijke moordpredestinacie:
al zit zij opgepronkt met Trentens Doelestacie,
al wordt de Bijbel hierom op een nieuw vertaald:
elk wallegt van dien draf. Die wijn is lang verschaald.
Hij smaakt op niemands tong, die lekker is op ‘t proeven:
en dient slechts om het kranke kraambed te bedroeven;
als ‘t afgepijnde brein zich ernstig innebeeldt:
wat baat me, dat ik heb een tweelingvrucht geteeld,
en dat se beide rein door ‘t doopsel zijn gewassen
in Christus dierbaar bloed, die kostelijke plassen?
Men twijfelt wie van tween, in ‘t ende, wordt verdoemd.
Men troost ons met een leer, die gruwelen verbloemt,
en teder harsen maakt, door ‘t mijmeeren verwarder.
Ah schaapkens! wie van u zal dolen, zonder harder,
in duistere woestijn, daar kruid noch lover wast?
Daar ‘t grimmig ongediert des diepen afgronds bast,
en huilt, en brult, en loeit; om zo ge kwaamt te stikken
aan ‘t eerste zog, u voort, als wildbraad, op te slikken;
wie van u beiden is een snikje van de Hel?
Schept God, als Nero, dan in dit moorddadig spel
des Helsen schouwburgs vreugd, om zijn verdoemde slaven
in ‘t ingewand van beer en tiger te begraven?
Is God een stoockebrand, tot glorie van zijn hof?
en lust hem Troje weer in puin en glimmend stof
te storten, met haar pracht van tempels en gewelven,
en zo veel weeskens diep in asse te bedelven?
Is God de krokodil, die ‘t vers geboren kind,
aan d’ oevers van de Nijl, voor lekkernij verslindt?
daar Mozes nauwelijks in ‘t kistje wordt behouwen,
en drijft door ‘t moordgeschrei der Israilijtse vrouwen,
door lijken zonder taal? Is God een huichelaar,
die d’ Ooster leid-star vleit, met kerkelijk gebaar,
en werft het moordtoneel der Betlehemse straten,
et ziet de worsteling van vrouwen en soldaten,
een deerlijk schouwspel, nog met lachende ogen aan,
en pijnigt Rachels geest, bij duister op te staan,
om van krankzinnigheid te spoken en te rabbelen,
het haar te scheuren, en den boezem op te krabbelen?
Is God een Moloch, van barmhartigheid vervreemd,
die ‘t offerpopken in zijn gloeiende armen neemt,
en laat het, aan de speen, met olie vier en vonken?
Maar dat ‘s genadelijk een slaapdrank ingedronken.
Zo rust het ongewiegd, ontslagen van veel schriks.
Ik raaskal. Plonderpaap, ga, doop mijn lam in Styx,
in Calchas’ hellevont. Het zal Verworpling heten.
De Razerijen staan met fakkelen, als peten.
Zo wordt het Pluto’s kerk geheiligd, als een lid.
Wie rooft mijn arrem schaap? wie braadt mijn hart aan ‘t spit?
Wie droopt mijn vlees met bloed? wat baat me ‘s Heren zuivel,
indien mijn wichtje wordt een spijze van den Duivel?
Of zal het eeuwig braân? en is het nimmer gaar?
Of is ‘t een vledermuis op ‘t ongewijde autaar?
Mijn ogen zijn vol rooks, mijn neus vol zwavelreuken.
Is dit kraamkoets of een Belzebubse keuken?
Wat galgetrooster staan daar achter de gordijn?
Of zijn ‘t gewetens-beuls? nu ben ik zonder pijn.
Hoe dunkt u? is ‘t geen tijd, dat elk die kranke redde?
Op bakermoeder: drijf die dokters weg voor ‘t bedde,
met bedstok, toffels, of met grauwen: ‘t is alleens.
‘t Geloof heeft nimmermeer met wanhoop iet gemeens.
Gij kindervlegels, is dit zuiver reformeren,
of waarheids dorsvloer dicht met logenkaf stofferen?
Heeft Nassau aan des leer geofferd ‘s trofeên?
Is dit de zonne, die in modderpoelen scheen?
En rust hij zalig, die het hoofd bergt in des kappen?
Is dit uw galgleer, met predestinacie-trappen?
En wordt Goulart, die voor ‘t onmondig wiegsken pleit,
van ‘t Walenhek geschopt, en ‘t vrije land ontzeid?
Nu zal Trigland de stoel aan spaanders stukken kloppen,
en met zijn spreuken dees godloze breuken stoppen.
Hij bulkt: De Poëzy die bidt den Duivel aan,
den barelijken Droes. De wereld moet vergaan.
Dat ‘s recht, Trigland, dat ‘s recht. Verbrand die boze prije:
ze stinkt tot in den baard van uw Theologije,
die ‘t aanschijn Gods begruist met zo veel schoorsteenroets;
hetwelk de Moor blanket, als oorsprong alles goeds,
wan hij geknield slechts beeft voor dreigende Pagoden.
Hoe nodig war hem ‘t licht van Bogermans Synoden,
en ‘t Evangelieboek der Genevooise rots,
verheerlijkt door den straal der klare kennis Gods!
Wiens glans zelf Michaël ter arde sloeg, met blindheid,
door ‘t vier, dat Guise smolt, tot heil der bloedgezindheid.
Mijn kraamziel, zijt getroost. Gij hebt op uwe zij
Jehova, die uw zaad al meer bemint als gij.
Hij heeft zijn harte-bloed voor uwe vrucht vergoten:
en tekent ze in den boek der zaalge bondgenoten.
De hemel is haar erf: hij lokt ze met zijn stem.
Hij zamelt ze in de schoot van ‘t nieuw Jeruzalem,
veel lieflijker als een klokhen met haar wieken
beschaduwt en beschermt het ongepluimde kieken.
De waarheid is oprecht: zij hoeft geen plondergrijns.
Zij toont u ‘t Paradijs en d’eer der Cherubijns:
dat zijn de zieltjes, daar uw ziel om was verlegen;
die zich, als Duiven, op haar witte schachtjes wegen;
veel witter als de melk, die uit uw tepels sprinkt.
Zij weien in het goud en hemelsblauw. Hoe blinkt
hun kuif en zachte pruik van ingevlochte stenen,
van d’ongenaakbre zon der eeuwigheid beschnen.
Dit hangwiekt, en dat zwaait den triomfanten palm.
Een ander streelt de snaar, en wekt ivoren galm.
Een ander blaast de fluit, een ander goude noten
uit rozebladen leest; een ander onverdroten
eet mann’, een ander lept der Englen lekkernij.
Een ander lacht om Beza’s kinderketterij.
Halleluja.
Decretum horribile: L’abominio della desolazione
Dio strappa l’innocenza dal seno della madre e la scaraventa nel fuoco eterno. O abisso! o tomba spalancata! Dove mi salvo dal fetore? come se ne può incolpare Serveto, o arderlo, o bollarlo come bestemmiatore, se quel dissacrante libro vomita una tale abominevole maledizione sul volto del Cielo? Dove sono? Sotto la luce dell’insegnamento divino? o sotto Lucifero, nel nero regno del fumo? È questo il destino dell’eletto ricettacolo della Grazia? Questi la consolazione dei sofferenti e il tesoro del Cristianesimo? E con questa bestemmiante bocca si pregò su Michele? O era per stringere svergognatamente, la sua dorata catena spagnola, che tutta si avvolgeva in sanguinosi legami? Non si dovrebbe allora, per l’oro spagnolo, o per il più vivo luccicare del serto di gigli francese, tradire la patria, e sette troni di principi? Ma questo non si accorda con alcun testo, né conduce ad alcunché di giusto. Il mio zelo esce dal seminato; si scaglia contro il pulpito. Ciarlatani spacciano ancora questo veleno per toccasana. Un tale parto del demonio fu, per un secolo, l’oracolo del popolo. Facilmente mi persuado che lì si vada a finire: ma che vi si trovino donne non arrivo a comprenderlo; e specialmente quelle che, con profonda gioia, incinte, sotto il cuore portarono anima e vita, e vivendo testimoniano, l’ardente desiderio del cuore materno nell’abbracciare il suo amato frutto. Di qui Salomone ha appena emessa la sentenza. E ancora poteva la fame infrangere quella chiusura d”acciaio del cuore: il ventre non ascolta alcun vezzo fanciullesco: la fame prende e impazza, e riempie il cieco intestino. Lo si chiami dunque un assassinio di menti sconvolte. E per quanto una madre cessi di amare il suo infante, l’amore del creatore, che bacia la creatura innocente, e la tesoreggia e l’abbraccia, non sarà mai estinto. Si erge come una roccia che sfida le tempeste. Questa conclusione protegge la Fede con mura di diamante. Non fanno tremare più nessuno le folgori di Calvino, che, male usate, hanno perduto forza; perché egli usa fascine per magnificare gli dei, affinché resti in onore la cattiva terraglia dei sinodi. Perché Loevestein flagella la chiesa di Rotterdam, che se ne va in ozio. Il popolo non vi compie alcun lavoro di questo dannante assassinio della predestinazione: già siede paludata di pronunciamenti di Trento, già viene lì nuovamente tradotta la Bibbia: a tutti ripugna quella bevanda. Quel vino da tempo è sfiorito. Non ha sulla lingua sapore alcuno che dia piacere al palato: e mal serve ad attenuare la sofferenza del parto; quando il cervello febbricitante seriamente riflette: “a che mi vale, di aver allevato un doppio frutto, e che entrambi mediante il battesimo si siano purificati nel generoso sangue di Cristo, che abbondante scroscia?” Si dubita quale dei due, alla fine, sarà dannato. Si vuole consolarci con una dottrina, che pullula di atrocità, e ruminando non produce che confusione informe al pari di resina d’albero. Ah pecorelle! chi di voi vagherà senza meta, in arido deserto, dove non cresce erba né fogliame? Là si annida il sinistro mostro del profondo abisso, ed urla, e ruggisce, ed ulula; avido di soffocarvi al primo latte materno, o di divorarvi poi come cacciagione; chi di voi è un sospiro dell’inferno? Dona dunque Dio, come Nerone, in questo gioco assassino letizia ai teatri infernali, in modo da seppellire i suoi schiavi condannati nelle viscere di orsi e tigri? È forse Dio un incendiario, a gloria della Sua Corte? E si diverte ad abbattere nuovamente Troia in rovine fumanti, con tutto il suo splendore di templi e arcate, ed orfani senza numero seppellire sotto le ceneri? È Dio il coccodrillo, che dilania un bambino appena nato, sulle rive del Nilo, come leccornia? Appena deposto Mosè nella cesta, si aggira tra il lamento di morte delle donne israelite, per una selva di cadaveri? È forse Dio un ipocrita, che dalla stella guida d’oriente lusinga, con pio gesto, e suscita il sanguinoso spettacolo nelle strade di Betlemme, ed assiste impassibile alla mischia delle donne coi soldati, e per giunta un tale spettacolo contempla con occhi ridenti, e tormenta Rachele, abbandonandola nel dubbio per parlare di pazzia e balbettare, strapparsi i capelli e graffiarsi il petto? È Dio un Moloch, estraneo alla misericordia, che accoglie fra le ardenti braccia le vittime infanti, e, ancora non svezzati, ne fa una festa, con bruciante olio e tra le scintille? Ma, pietosamente bevuto un sonnifero, così riposa senza bisogno di essere cullato, senza alcun timore. L’indignazione mi acceca. Va, falso profeta, sprofonda paralizzato nello Stige, nella fonte infernale di Calcante. Reprobo sarai chiamato. Ecco le Furie in piedi con fiaccole, oggetto di terrore. Così viene consacrata la chiesa di Plutone, come un cadavere. Chi ruba la mia povera pecorella? chi arrostisce il mio cuore allo spiedo? Chi insanguina la mia pelle? che mi giova il latte divino, mentre il mio bimbo diventa cibo per il diavolo? o cuocerà in eterno? e non sarà mai cotto? oppure è un pipistrello su un altare profano? I miei occhi sono pieni di fumo, il mio naso pieno di esalazioni sulfuree. È un luogo di nascita o una cucina di Belzebù? Quale consolatore di condannati sta là, dietro la tenda? O sono bruti? ora mi sembra chiaro. Che ne pensate? non è tempo che ciascuno salvi il malato? Dalla culla si spingono le figlie via dal letto, con bastoni, pantofole o con ringhi: è tutt’uno. La Fede non ha nulla in comune con la disperazione. Voi infantili flagelli, è sana riforma, o aia di trebbiatura della verità vagliare fitto con il ventilabro? Ha forse Nassau sacrificato trofei a quella dottrina? È questo il sole che riluce in pozzanghere di fango? E riposa glorioso chi nasconde la testa sotto la sabbia? È questa la vostra dottrina da impiccati, con botole di predestinazione? E Goulart, che disputa di fronte alla culla minorenne, di Walenhek espulso dalla terra libera? Ora Trigland sfascerà il seggio in frammenti, e con i suoi proverbi fermerà queste blasfeme fratture. Egli ruggisce: La Poesia è sacrificio al diavolo, la nuda mortalità. Il mondo deve perire. Giusto, Trigland, giusto. Brucia i cattivi asini: puzza fino alla barba della vostra teologia, che saluta l’immagine di Dio con tanta fuliggine; di cui il moro sbianca, come origine di tutto ciò che è buono, vanamente egli inginocchiato trema di fronte a minacciose pagode. Come necessaria gli era la luce dei sinodi di Bogerman, e il libro del Vangelo della roccia ginevrina, glorificato dall’irraggiarsi della chiara conoscenza di Dio, il cui splendore abbatté persino Michele, accecandolo, mediante il fuoco che sciolse Guisa, per frenarne le tendenze sanguinarie. Mia delicata anima, consolati. Dalla tua parte hai il Padre, che ama il tuo seme più di te stesso. Egli ha versato il sangue del Suo Cuore per il tuo frutto: e ti registra nel libro dei santi compagni. Il cielo è la sua eredità: egli l’attrae con la sua voce, la raduna nel seno della nuova Gerusalemme, molto più amabile di una chioccia con le sue ali copre e protegge gli implumi pulcini. La verità è limpida: non ha bisogno di mascheramenti. Ti mostra il paradiso e la schiera dei cherubini, lì c’è anche, trepidante, la tua anima; ed ecco le anime che, come colombe, si librano sulle loro bianche ali, assai più bianche del latte che scaturisce dai capezzoli. Si crogiolano nell’oro e azzurro del cielo. Come risplendono i loro riccioli e il soffice piumaggio ingemmato di pietre preziose, illuminato dall’intramontabile sole dell’eternità. Questo accenna con la mano, e quello agita la palma del trionfo. Un altro pizzica la cetra ed emette eburnee risonanze. Un altro suona il flauto, un altro legge note dorate da foglie di rosa; un altro lietamente si ciba di manna, un altro sbocconcella le squisitezze destinate agli angeli. Un altro ride dell’infantile eresia di Beza.
Alleluia.
Nato da genitori appartenenti alla chiesa battista, emigrati da Anversa nel 1585 e stabilitisi ad Amsterdam nel 1597, Vondel fu dall’inizio un protestante alieno da estremismi. Si schierò con i “rimostranti” contro le durezze calviniste della setta gomarista, che aveva soverchiato il più moderato partito degli arminiani al decisivo concilio di Dordrecht del 1618. Nel 1641 si convertì al Cattolicesimo.
Incontrò quindi non poche incomprensioni e boicottaggi nella rappresentazione dei suoi drammi sacri, di cui i principali sono Lucifer (Lucifero), del 1654, e Adam in ballingschap (Adamo in esilio), del 1664.
In questa violenta poesia satirica, composta nel 1631, prima ancora della conversione al Cattolicesimo, Vondel si scaglia contro l’assurdità calvinista della “doppia predestinazione”, secondo la quale Dio deciderebbe fin dall’inizio quale anima andrà in paradiso e quale all’inferno, indipendentemente dalle azioni e dai meriti dell’anima stessa. Il poeta, inoltre, sottolinea l’incongruità della dittatura calvinista, che da una parte era pronta ad elevare alti lai contro l’Inquisizione cattolica, e dall’altra mandava tranquillamente al rogo i dissenzienti. Infatti, appena liberatisi dalle vere o presunte persecuzioni, i calvinisti diventavano regolarmente, a Ginevra come in Scozia dopo la predicazione del fanatico John Knox, dei feroci persecutori e accenditori di roghi. Solo in Olanda, paese più attento ai commerci che alla teologia, il calvinismo assunse ben presto un carattere più tollerante, permettendo a Vondel di scrivere e di pubblicare.
Non è comunque privo di significato che alcune fra le menti più elevate del mondo protestante siano rimaste cattoliche, come Shakespeare, o si siano convertite al cattolicesimo, come Vondel e come il grande scienziato danese del sec. XVII Nikolaus Stensen, detto Stenone.
La poesia trabocca di riferimenti a personaggi e luoghi che richiedono qualche parola di spiegazione. L’allusione a Michele si riferisce al medico spagnolo Miguel Serveto (Tudela 1511 – Ginevra 1553), mandato al rogo dall’inquisizione protestante di Calvino.
Nel castello di Loevestein, costruito nel sec. XIV nei pressi di Rotterdam, furono incarcerati, fra gli altri, due dei più grandi uomini che l’Olanda abbia prodotto: Johan van Oldenbarnevelt, già consigliere del principe Maurizio di Orange, condannato a morte nel 1619, e il grande giurista Hugo de Groot, condannato all’ergastolo pure nel 1619 (quest’ultimo evase nel 1622, rifugiandosi a Parigi). Alla loro condanna, legata a motivi politici, non fu comunque estraneo il fatto che entrambi fossero dei moderati, estranei al fanatismo calvinista imperversante a quell’epoca.
La Casa di Nassau-Oranje era la Casa regnante nei Paesi Bassi, non a titolo regale, ma con quello di Stadhouder (Reggente).
Simon Goulart (Senlis, Picardie 1543 – Ginevra 1628) fu pastore calvinista a Chancy, a Cartigny, a Ginevra e Moderatore del Sinodo, nonché autore di poesie, corali, racconti, traduzioni di testi classici e scritti polemici anticattolici. Nel 1615 venne “scomunicato” dal sinodo calvinista di Amsterdam per aver criticato una predica estremista tenuta di Thomas Maurois, uno dei tre pastori di lingua francese.
Le chiese calviniste olandesi erano profondamente divise tra il partito estremista “gomarista” di François Gomaer, latinizzato come Franciscus Gomarus (Brugge 1563 – Groninga 1641), e quello moderato “arminiano”, richiamantesi a Jacobus Hermanszoon, latinizzato come Jacobus Arminius (Pudewater 1559 – Leida 1609), che tendeva ad attenuare la devastante eresia della doppia predestinazione (secondo la quale Dio destinerebbe all’inferno o al paradiso le anime a capriccio, indipendentemente dai loro meriti). Il sinodo di Dordrecht (1618-19) diede la vittoria ai gomaristi e “scomunicò” gli arminiani, ai quali fu nuovamente concesso di riunirsi solo nel 1630.
Jacobus Trigland (Vianen, Utrecht 1583 – Leida 1654) e Johannes Bogerman (Uplewert, Oost Friesland 1576 – Franeker 1637) erano due rigidi teologi calvinisti.
Francesco di Lorena, Duca di Guisa, era capo della Lega Cattolica di Francia. Fu assassinato nel 1563 dall’ugonotto Jean Poltrot.
Theodorus Beza (Vézelay, Borgogna 1519 – Ginevra 1605), teologo calvinista, fu collaboratore di Calvino a Ginevra; gli succedette quando costui morì nel 1564.
Joost van den Vondel
(Keulen 1587 – Amsterdam 1679)
Eeuwgetij van den E. Here Karel Couvrechef
Karmelyt en Priester, aan de h. Maagd
Lauda, jubila, laetare et exulta in omni corde
Wat offren wij de heilge Maagd
van Karmel? ‘t wierookvat vol geuren,
of myrre, of goud? wat gift behaagt,
Haar boven, daar Gods wacht de deuren
van ‘s hemels poorte houdt bezet,
veel duizend Engelen haar prijzen?
Een dankbaar hart, oprecht, en net
gevaagd van smerten. Laat ons rijzen
met zulke geuren naar de lucht
nu Karel heden vijftig jaren
in haren dienst niet zonder vrucht
gesleten telt, en grijze haren
‘t Gewijde hoofd van Couvrechef
bedekken, die het juk des Heren
zo jonk gedragen heeft: verhef
den naam van Jezus, dien wij eren
gelijk zijn Moeder hem aanbidt.
Zij zegene ons van daar zij zit.
Anniversario del Reverendo Karel Couvrechef, Carmelitano e prete, alla Santa Vergine
Loda, giubila, rallegrati ed esulta con tutto il cuore
Che cosa offriamo alla Santa Vergine del Carmelo? un odoroso incenso, o mirra, o oro? quale dono si conviene a Lei lassù, dove le schiere celesti sorvegliano le porte del cielo, ed a migliaia gli angeli La lodano? Un cuore grato, giusto, e ben purgato da macchie. Ascendiamo con tali fragranze verso la luce, oggi che Karel conta cinquant’anni consumati a Suo servizio non senza frutto, e capelli grigi ricoprono il consacrato capo di Couvrechef, che fin da giovane ha portato il giogo del Signore: esaltiamo il Nome di Gesù, come sua Madre Lo adora. Dal loro trono essi ci benedicono.
In questa poesia abbiamo un’importante testimonianza di questo grande poeta, fedele della Santa Vergine del Carmelo: implicitamente essa sottolinea il dovere dei laici (da non confondere coi laicisti, cioè con gli atei) di sostenere i sacerdoti non solo con mezzi materiali, ma anche con la preghiera e l’amicizia.
L’espressione “il giogo del Signore” allude allo scapolare carmelitano, foggiato appunto in modo da ricordare un giogo e quindi da rappresentare simbolicamente il servizio dovuto a Dio.
Willem Godschalk van Focquenbroch
(Amsterdam 1640 – Elmina, Guinea 1670)
Gedachten op myn kamer
Hier in dit klein doch stil vertrek
tracht ik alleen myn vreugd te zoeken,
daar ik my al ’t gewoel onttrek
en my verlustig in myne boeken,
en hou de wereld voor myn gek.
Al ’s werelds vreugd acht ik een spook,
die men op ’t vaardigst ziet verzwinden;
dit leer ik hier, wyl ‘k zit en smook,
mits ik daar daaglyks uit kan vinden
dat alle vreugd is min als rook.
Dit leer ik hier, en ’t is gewis;
want waar ik myn gezicht mag keeren,
straks vind ik een gelykenis
die my, uit ’t geen ik zie, doet leeren
hoe ydel dat de weerelt is.
Een greins die ik van var beschou,
leert my de weereld wel bekyken,
mits d’ontrou zich vermomt met trou,
en dat een schelm kan eerlyk lyken
zo men de schyn gelooven zou.
Zie ik op myn fiool en fluit,
die doen my meê een leering vinden;
want even eens gelyk ’t geluid,
noch naau gehoort, voort gaat verzwinden,
zo dra heeft meê het leven uit.
Zie ik wat snorrepypen aan,
my uit vermaak wel eer gegeven,
zo laat ik myn gedachten gaan
op d’ydle vreugd van ’t jeugdig leven,
die d’ouderdom haast doet vergaan.
Zo myn gezicht een flesje vat,
gevult met balzem voor veel wonden,
dunkt ’t leven my geen groote schat,
vermits dat zomtyts is gebonden
alleenig aan een druppel nat.
Zie ik de wapens aan ter zy
die my van ouden adel toonen,
ik vind my van die zorgen vry
die steets ontrent de Hooven woonen,
en spot met al die slaverny.
Of zie ik voor my op het beeld
van Karel, d’oude Britsche Koning,
zo dunkt my dat het niet veel scheelt,
of ’t leven is maar een vertooning
daar ieder mensch zyn rol in speelt.
’t Is waar, d’een toont een majesteit,
en dees een arm man, die een ryken:
elk scheelt hier veel in heerlykheid;
maar die in ’t graf hen kwam bekyken,
‘k geloof, hy zag geen onderscheid.
Of zie ik van ter zyden aan
die beelden van myn bloedverwanten,
ik denk: wie kan de dood weerstaan?
want schoon ’t kopy hangt aan des wanten,
het principaal is lang vergaan.
Zo maakt de dood elk een tot slyk
en spaart geen slaaf, noch knecht, noch heeren,
want ieder moet, ’t zy arm of ryk,
in ’t geen hy eertyds was, verkeeren;
zo maakt de dood elk een gelyk.
Dit brengt my hier myn eenzaamheid
gestadig voor in myn gedachten,
zo dat ik leer geen zekerheid
van al dees weerelts vreugd te wachten,
want alles is maar ydelheid.
Pensieri sulla mia camera
Qui in questo piccolo ma silenzioso ritiro mi sforzo da solo di cercare la mia felicità, mentre mi sottraggo alla folla e godo dei miei libri, e tengo il mondo per mio giullare.
Un fantasma è per me la gioia del mondo, che in un lampo svanisce; lo imparo qui, mentre sto seduto fumando, poiché ogni giorno mi rendo conto che tutta la gioia è meno di fumo.
Questo io imparo qui, ed è certo; perché dovunque io volga lo sguardo, subito trovo un termine di paragone in ciò che vedo, che mi insegna come vano è il mondo.
Una maschera che guardo da lontano, m’insegna ad osservare attentamente il mondo, come la menzogna si camuffa da verità, e come un mascalzone può apparire onesto, purché si creda alle apparenze.
Guardo la mia viola e il mio flauto, ed anche in essi trovo un insegnamento; poiché proprio come un suono appena udito subito dilegua, così svanisce in ugual modo la vita.
Contemplo i giocattoli che pure in passato mi hanno divertito, così ritorno col pensiero alla vana gioia della gioventù, che ben presto cede alla vecchiaia.
Così la mia vista osserva una carne piena di cicatrici di molte ferite, non mi sembra la vita un grande tesoro, poiché talvolta è legata solo ad una liquida goccia.
Vedo gli stemmi qui a fianco che testimoniano la mia antica aristocrazia, mi trovo libero da tutte le preoccupazioni che costantemente affliggono chi sta in alto e deride chi sta in basso.
Davanti a me vedo il ritratto di Carlo, il vecchio re britannico, e non mi pare che faccia una gran differenza se la vita non è che uno spettacolo in cui ciascuno rappresenta il suo ruolo.
È vero, uno dimostra maestà, e un altro è un pover’uomo, uno è ricco: qui differisce molto in splendore; ma se si guardasse nella tomba non credo si vedrebbe alcuna differenza.
Se qui di lato guardo i ritratti dei miei parenti, penso: chi può comprendere la morte? Poiché sebbene la copia penda al muro, l’originale è da lungo tempo scomparso.
Così la morte riduce tutti in cenere e non risparmia né lo schiavo, né il servo, né il signore, perché ognuno deve, sia povero o ricco, ritornare al nulla da cui venne; così la morte rende tutti uguali.
Questo mi conduce la mia solitudine sempre a riflettere, così che imparo che non vi è certezza nell’attendersi gioia dal mondo, poiché tutto non è che vanità.
Focquenbroch fu medico e poeta. Laureato in medicina a Utrecht, fu assunto dalla Compagnia delle Indie Occidentali come “fiscale” (agente doganale e commissario di polizia) e inviato al forte di Elmina, sulla costa della Guinea, in Africa occidentale, dove giunse nel 1668. Nel 1670 scoppiò al forte una violenta epidemia, nella quale anch’egli trovò la morte.
Il poeta, quasi presago della sua prematura fine, si abbandona ad una malinconica meditazione sulla natura della vita. Se da un lato si tratta di un argomento che frequentemente ritorna nella poesia secentesca, dall’altro non si può certamente limitarsi a storicizzare un tema del genere, sempre attuale perché parte inevitabile della condizione umana.
Joannes Luyken
(Amsterdam 1649 – 1712)
De horologiemaaker
Dat men bereid is terwyl het tyd is
ô Mens, beschik uw zielenstaet
terwyl des levens uurwerk gaat;
want als ’t gewigt is afgeloopen
van deezen korten leevenstyd,
daar is geen ophaal weêr te koopen,
voor konst noch geld noch achtbaarheid.
L’orologiaio
Siate preparati finché è tempo
O uomo, considera lo stato della tua anima mentre cammina l’orologio della tua esistenza; perché quando il più è trascorso di questo breve spazio di vita, non c’è alcun modo di ricomprarlo, per arte o denaro o autorevolezza.
Artista grafico, oltre che poeta, Luyken pubblicò diversi volumi di poesie, dei quali disegnò anche le illustrazioni. I critici, sempre a caccia di etichette con cui dividere e classificare, definiscono la sua poesia “moralistico-didascalica”. Abbiamo qui un breve “memento mori”, sempre necessario. Sono le epoche in cui si cerca di dimenticare il primo dei Quattro Novissimi, e naturalmente gli altri tre, proprio quelle moralmente più oscure, in cui si evita di parlare della morte proprio perché sono permeate di una cultura di morte.
Willem Bilderdijk
(Amsterdam 1756 – Haarlem 1831)
Gebed
Genadig God, die in mijn boezem leest!
Ik vlied tot U, en wil, maar kan niet smeeken.
Aanschouw mijn nood, mijn neêrgezonken geest,
en zie mijn oog van stille tranen leken!
Ik smeek om niets, hoe kwijnend, hoe bedroefd.
Gij ziet me een prooi van mijn bedwelmde zinnen:
gij weet alleen het geen uw kind behoeft,
en mint het meer, dat ’t ooit zich-zelf kan minnen.
Geef, Vader, geef aan uw onwetend kroost,
het geen het zelf niet durft, niet weet te vragen!
Ik buig mij neêr; ik smeek noch kruis, noch trost;
gij, doe naar uw ontfermend welbehagen!
Ja, wond of heel; verhef, of druk mij neêr:
‘k anbied uw wil, hoe duister in mijn ogen;
ik offer me op, en zwijg, en wensch niet meer:
‘k berust in U, zie daar mijn eenigst pogen!
Ik zie op U met kinderlijk ontzag:
Met Christen hoop, noch laauw noch ongeduldig.
Ach, leer Gij mij, het geen ik bidden mag!
Bid zelf in mij: zoo is mijn beê onschuldig.
Preghiera
Misericordioso Iddio che leggi nel mio petto! In te mi sono rifugiato, e vorrei, ma non posso implorare. Rivolgi lo sguardo alla mia miseria, al mio spirito umiliato, e vedi come i miei occhi gocciolano silenti lacrime!
Non imploro nulla, per quanto debole, per quanto disperato. Mi vedi in preda delle mia ragione sconvolta: tu solo sai cosa manca al tuo figlio, e più lo ami di quanto mai egli stesso possa amare se stesso.
Concedi, o Padre, concedi al tuo ignorante figlio, ciò che egli stesso non ha diritto di chiedere, né saprebbe come farlo! Io mi genufletto profondamente; non invoco né la croce né la consolazione; tu agisci secondo il Tuo pietoso volere !
Sì, ferisci o risana; risollevami o abbattimi: sia fatta la Tua volontà, per quanto oscura ai miei occhi; mi offro e taccio, e non desidero più nulla: riposo in Te, ecco il mio unico sforzo!
Guardo a Te con la confidenza di un bambino: con cristiana speranza, né tiepida né impaziente. Oh, insegnami quello che posso chiedere! Prega Tu stesso dentro di me: solo così sarà innocente la mia preghiera.
Storico, linguista, poeta e avvocato, Bilderdijk è una delle figure più rappresentative della turbinosa epoca rivoluzionaria. Accumulò enormi conoscenze grazie al continuo studio al quale si dedicò durante un decennio che trascorse confinato in casa per motivi di salute (una puntura d’ape ad un piede gli aveva causato una grave infezione, e le cure dei medici fecero il resto). Laureato in legge a Leida, divenne avvocato a L’Aja. Nel 1785 sposò Catharina Rebecca Westhoven. Convinto orangista, difese soprattutto patrioti e poveri. Costretto all’esilio dall’incalzare della cosiddetta “modernizzazione”, ossia del giacobinismo ateo portato dalle baionette francesi in Olanda nel 1795, si rifugiò a Londra. Poté rientrare in patria solo nel 1806, quando Napoleone aveva ormai praticamente liquidato la rivoluzione.
Aspirava ad una cattedra di storia a Leida, che gli fu costantemente negata. Anche allora regnavano nelle università arroganti baroni intenti alla selezione del meno adatto. Bilderdijk, tuttavia, insegnò storia privatamente, con enorme successo. Tra i suoi allievi furono Isaäc da Costa e Abraham Campadose, due dei più significativi esponenti della comunità ebraica. Grazie a lui, costoro si convertirono al Cristianesimo. Profondamente odiato per questo, ed etichettato come “reazionario” dai politicamente corretti dell’epoca, Bilderdijk rappresenta un protestantesimo che non è semplice anticattolicesimo, ma una fede sincera con molti punti in comune con la Chiesa.
Il poeta dà, in questa magnifica lirica, l’esempio della preghiera perfetta, la preghiera che chiede a Dio soltanto che sia fatta la Sua volontà. Il manoscritto è datato 6 novembre 1796, durante l’esilio a Londra.
Isaäc da Costa
(Amsterdam 1798 – 1860)
De leeuw van Juda
Kruislied
O Hoofd, om ‘s werelds zonden
met bloed en zweet gesprengd!
Hoofd, overdekt van wonden,
die U een spotkroon brengt!
Om onze schuld gebonden,
aan ’t kruis geofferd Lam!
hoe zijt ge ook daar bevonden
de Leeuw uit Koningsstam!
Hoe blonk, bij al die smarten,
bij al dien smaad en spot,
bij ’t breken zelfs Uws harten
en ’t breken verr’ zijn van Uw God,
Uw zalving en Uw krooning,
Uw hoogheid en Uw eer,
als Gods verkoren Koning,
als aller schepselen Heer!
In diepten neergekonken
van waatren zonder grond,
aan ’t vloekhout vastgeklonken —
dáár heeft Uw bleke mond
van Gods heropend Eden
vrijmachtelijk beschikt,
en Uw: “Voorwaar, nog heden!”
des boetlings ziel verkwikt.
O Liefde zonder gade,
die, daar Gij ’t al volbrengt,
den moordenaar genade,
den vriend Uw moeder schenkt!
Die, waar ze Uw lippen laven
met snerpend edikvocht,
des Geestes levensgaven
voor Uwe haters zocht!
Die in der moordren midden
en aan des kruises voet
voor Israël blijft bidden,
de schuld des gruwels boet!
O Hoofd, bedekt met wonden!
o Hoofd, van ’t doodzweet klam!
hoe zijt Ge ook dus bevonden
de Leeuw uit Judas stam!
Dat Koningshoofd — het boog zich!
het leî zijn leven neêr!
Gebergte en rots bewoog zich,
’t Graf gaf zijn dooden weër.
Hergeeft ook gij uw dooden,
O Isrel, op Zijn stem!
en val, o zaad der Joden!
aanbiddend neêr voor Hem.
Hosanna! all’ gij, volken,
Met Israël te zaam!
tot boven ’s hemels wolken
roept uit dien wondernaam:
de Leeuw, die overmocht heeft,
uit Jesse voortgebracht!
Het Lam, dat ons gekocht heeft,
voor onze schuld geslacht!
Il leone di Giuda
Canto della Croce
O Capo imperlato di sangue e sudore a causa dei peccati del mondo! Capo coperto delle ferite che Ti infligge una corona di scherno! Prigioniero per le nostre colpe, Agnello sacrificato sulla Croce! come hai potuto sprofondare tanto in basso, Tu, Leone di stirpe reale!
Come risplendette, in tutti quei dolori, in tutti quegli scherni e derisioni, nell’infrangersi stesso del Tuo Cuore e nell’abbandono del Tuo Dio, la Tua unzione e la Tua incoronazione, la Tua altezza e il Tuo onore, come Re eletto da Dio, come Signore di tutte le creature!
Sprofondato in abissi di acque senza fondo, inchiodato al legno della maledizione — proprio di là la Tua bocca sbiancata ha liberamente disposto dell’Eden sperato di Dio. E Tu hai detto: “In verità, oggi stesso!” così hai consolato l’anima del penitente.
O Amore senza uguale, al quale Tu hai dato pieno compimento: Amore che grazia l’assassino, e dona l’amico a Tua madre! Che, mentre bagnano le Tue labbra con pungente umidore di aceto, offre ai Tuoi odiatori i doni vitali dello Spirito!
Che in mezzo agli assassini e ai piedi della Croce resta a invocare perdono per Israele per l’orrendo peccato! O Capo coperto di ferite! o Capo, grondante sudore mortale! dove sei sprofondato Leone della stirpe di Giuda!
Quella testa regale — si piegò! e depose la propria vita! Monti e rocce tremarono, dalle tombe uscirono i morti. Anche tu fai uscire i tuoi morti nello spirito, o Israele, al suono della voce di Lui! e cadi, o seme dei giudei! supplicando di fronte a Lui.
Osanna! o popoli tutti, insieme ad Israele! fin sopra le nuvole invoca il suo meraviglioso Nome: il Leone onnipotente, scaturito da Jesse! L’Agnello che ci ha riscattati, sacrificato per le nostre colpe!
Nato da famiglia ebraica sefardita, di origine portoghese, la quale ricavò notevoli vantaggi dall’ondata giacobina della rivoluzione francese, da Costa si convertì al Cristianesimo mentre studiava a Leida, per influsso di Willem Bilderdijk, divenendo così, per i suoi ex correligionari, un meshummad, un apostata, per cui venne perseguitato e osteggiato.
Non diversamente dal grande musicista Felix Mendelsshon e da Eugenio Zolli, il rabbino capo di Roma al tempo della seconda guerra mondiale, anche da Costa giunse a riconoscere che l’Antico Testamento è profezia del Nuovo, e che Cristo è il vero ed unico Messia, lungamente atteso, ed infine ingiustamente e sanguinosamente respinto. Dovrebbe pur significare qualcosa il fatto che alcuni tra i più fini cervelli ebrei siano giunti a questa conclusione.
Molto attento e puntuale nella denuncia dei gravissimi pericoli della deriva morale causata dall’ondata rivoluzionaria, da Costa, per quanto calvinista, assunse, nei confronti del laicismo ateo, posizioni assai simili a quelle della Chiesa.
Questa lirica è datata 1848, l’anno di uno dei tanti assalti giacobini alle radici cristiane dell’Europa.
Carel Vosmaer
(’s-Gravenhage/L’Aja 1826 – Montreux, Svizzera 1888)
Melancolia
Als men ten laatste heeft gevonden
waar heel de ziel naar smacht,
dan is te laat, de dag verzwonden,
reeds valt de nacht.
Als ’t kleed ons past, is het versleten;
als men het boek kent, is het uit;
als men het leven komt te weten,
dan valt de scherm dat alles sluit.
Malinconia
Quando l’uomo infine ha trovato quello che con tutta l’anima desidera, allora è troppo tardi, il giorno è tramontato, già cala la notte.
Quando il vestito ci va a pennello, è consumato; quando si conosce il libro, è finito; quando si giunge a conoscere la vita, allora cala il sipario che a tutto pone fine.
Vosmaer studiò diritto a Leida ed esercitò a L’Aja la professione di avvocato, e successivamente di cancelliere del tribunale fino al 1873, quando si dimise per dedicarsi solo alla letteratura. Costretto a recarsi all’estero per motivi di salute, morì in Svizzera.
La condizione umana dell’impermanenza, ben presente sia nella tradizione cristiana che in quella buddista, non trova, nel particolare caso di questa poesia, alcun conforto nella speranza. È precisamente quanto resta quando si prescinde dalla realtà della Presenza reale, ontologica, di Cristo nel mondo. Un concetto espresso da numerosissimi poeti, fra cui Giacomo Leopardi in “La sera del dì di festa”: “E fieramente mi si stringe il core / al pensar come tutto al mondo passa / e quasi orma non lascia”.
Petrus Augustus de Génestet
(Amsterdam 1829 – Rozendal 1861)
’t Was toch de hovenier
Zij, meenende dat het de hovenier was — Joh. XX:15
’t Was toch de hovenier, Hij, die in Jozefs gaarde
uw schreiend oog verscheen, o droeve, teedre vrouw,
toen niets meer dan een lijk uw schat was op deez’ aarde,
En alles wat gij zocht in groote zielerouw!
’t Was toch de hovenier, Hij, die begon te vragen:
Wien zoekt gij? — die u straks Maria! tegenriep,
en met zijn woord het licht deed in uw ziele dagen
en in een paradijs uw woestenij herschiep!
’t Was toch de hovenier! De knoppen gingen open,
gereed te sterven op den akker van ’t gemoed,
de knoppen van geloof en liefde en vreugde en hope,
bij ’t ruischen van zijn uchtendgroet.
Zij wachtten op zijn dauw, zij smachtten naar zijn zegen,
de kiemen aller deugd, de bloemen van het hart:
zijn woord was voor haar groei de wondre lenteregen,
zijn blik de milde zon, na winterkoude en smart!
Ze ontloken om niet weêr te sterven, maar te bloeien,
o, langer dan een lente-, een schoonen zomerdag,
om, door zijn zorg gekweet, in ’t diepst der ziel te groeien,
hoe menig bloem der aard het oog verwelken zag!
’t Was toch de hovenier! En, wie in ’s levens gaarde
dien Man niet heeft ontmoet, Maria, zoo als gij,
zijn ziele schreit en smacht, al bloeit de zonninge aarde,
en zoekend waart hij om in ’t lentefeestgetij.
Ed era il giardiniere
Ella, pensando che fosse il giardiniere, ……. (Giovanni XX, 15)
Ed era il giardiniere, Egli, che nel giardino di Giuseppe d’Arimatea apparve ai tuoi occhi pieni di lacrime, o triste, tenera donna. Ecco non era nulla più di un cadavere il tuo tesoro su questa terra, ed era tutto ciò che cercavi in grande afflizione!
Ed era il giardiniere, Egli, che cominciò domandando: Chi cerchi? — d’improvviso ti riscosse, Maria, e con la Sua Parola la luce si accese nella tua anima e trasformò il tuo deserto in un paradiso!
Ed era il giardiniere! I nodi si sciolsero, pronti a morire sul campo del cuore, i nodi di fede e amore e gioia e speranza, al mormorio del Suo saluto mattutino.
Attendevano il Suo disgelo, anelavano alla Sua benedizione, i germogli di ogni virtù, i fiori del cuore: la Parola di Lui era per il tuo germogliare come la meravigliosa pioggia di primavera, il suo sguardo era il dolce sole, dopo il freddo e l’afflizione dell’inverno!
Essi sbocciarono per non morire mai più, ma per fiorire, o, ben più a lungo di un giorno di primavera, un bel giorno d’estate, affinché, sotto la sua cura, crescessero nel profondo dell’anima tutti i fiori che sulla terra l’occhio vide appassire!
Ed era il giardiniere! E chi, nel giardino della terra non ha incontrato quell’Uomo come tu, Maria, l’hai incontrato, la sua anima piange e langue, sebbene fiorisca la terra sotto il sole, ed egli si aggira alla ricerca di Lui nella marea della festa di primavera.
Il poeta era pastore protestante indipendente, ossia rimostrante (oppositore del gelido rigorismo calvinista). Dal 1852 ebbe cura d’anime a Moordrecht, e lo stesso anno si sposò con Henriette Bienfait, dalla quale ebbe due figli. La sua esistenza, tuttavia, finì ben presto in tragedia: nel 1859 la moglie e uno dei due bambini morirono di tubercolosi, ed egli stesso morì due anni dopo della stessa malattia.
Il concetto qui espresso dal poeta è quello del Cristo risorto come giardiniere dell’anima, che solleva e guarisce. La poesia si richiama all’episodio evangelico dell’incontro del Risorto con Santa Maria Maddalena. L’intero componimento è intessuto di metafore che sottolineano la dipendenza dell’anima da Dio come il fiore dipende dalla terra, dal sole, dall’acqua e dalle cure del giardiniere: un concetto che ritroveremo in “Ego flos” del grande Guido Gezelle. Sono accennati i due elementi che formeranno la felicità eterna in paradiso: anzitutto e soprattutto la visione di Dio, ma anche il ritrovare le persone amate e tutto il bene conosciuto e poi perduto su questa terra. Sono ben espresse in questa poesia, in breve sintesi, le tre virtù teologali — fede, speranza, amore — come fonte di consolazione di fronte alla miseria e alla tristezza della vita terrena.
Guido Gezelle
(Brugge/Bruges 1830 – 1899)
Als de ziele luistert
Als de ziele luistert
spreekt het al een taal dat leeft,
’t lijzigste gefluister
ook een taal en teeken heeft:
blâren van de boomen
kouten met malkaar gezwind,
baren in de stroomen
klappen luide en welgezind,
wind en wee en wolken,
wegelen van Gods heiligen voet,
talen en vertolken
’t diep gedoken Woord zoo zoet …….
als de ziele luistert!
Quando l’anima ascolta
Quando l’anima ascolta, l’universo parla una lingua vivente, anche il più dolce sussurro ha un linguaggio e dei simboli: le foglie degli alberi l’una con l’altra fanno presto amicizia, nascono nei ruscelli dialoghi forti e amichevoli, vento ed erba e nuvole, sentieri dei santi piedi di Dio, parlano e traducono la Parola profondamente nascosta e così dolce ……. quando l’anima ascolta!
Il poeta era un prete cattolico, sempre rimasto ai gradini più umili della gerarchia. Giunse al massimo ad essere viceparroco e insegnante presso il seminario inglese di Brugge. Attivissimo linguista, raccolse un lessico di centocinquantamila parole del dialetto fiammingo, del quale fu attivo promotore. Di conseguenza fu per lungo tempo apprezzato solo nelle Fiandre occidentali e ignorato dai cultori del nederlandese standard dell’Olanda. Partecipò alla rinascita dell’interesse per la tradizione cattolica medioevale.
Pubblicò numerosi volumi di liriche, di cui l’ultimo apparve postumo. In tutte le sue poesie rivela una straordinaria ricchezza lessicale, con un prevedibile, costante orientamento verso la varietà fiamminga della lingua nederlandese, di cui è considerato uno dei grandi maestri.
Datata 1859, questa poesia, nella sua semplicità, rappresenta una delle vette della mistica di Guido Gezelle, un’anima eletta di sacerdote capace di sentire limpidamente la Presenza divina dietro lo schermo ingannevole delle cose materiali.
Guido Gezelle
(Brugge/Bruges 1830 – 1899)
De vlaamsche tale
De vlaamsche tale is wonder zoet,
voor die heur geen geweld en doet,
maar rusten laat in ’t herte, alwaar,
ze onmondig leefde en sliep te gaar,
tot dat ze, eens wakker, vrij en vrank,
te monde uitgaat heur vrijen gang!
Wat verruwprachtig hoortoneel,
wat zielverrukkend zingestreel,
o vlaamsche tale, uw’ kunste ontplooit,
wanneer zij ’t al wol leven strooit
en vol onzegbaar schoonzijn, dat,
lijk wolken wierooks, welt
uit uw zoet wierookvat!
La lingua fiamminga
La lingua fiamminga è meravigliosamente dolce, per essa nessuna violenza ed agitazione, ma invero fa riposare il cuore. Finché era minorenne viveva e dormiva al tempo stesso pronta, finché, risvegliata, libera e franca, uscì dalle bocche nel suo libero cammino! Quale splendido palcoscenico di suoni, quale incantesimo di canto carezzevole. O lingua fiamminga, la tua arte si diffonde, mentre a piene mani sparge vita, ricca d’indicibile bellezza, che, come nuvole d’incenso, scaturisce dal tuo dolce incensiere!
La disposizione ondeggiante dei versi sta a simboleggiare la seducente flessuosità della lingua fiamminga, di cui Gezelle fu attivissimo promotore. La poesia sembra risalire al 1879.
Guido Gezelle
(Brugge/Bruges 1830 – 1899)
Zielgedichtje
Th. S., Uurwerkmaker, 7 Junij 1880
God geeft den tijd bij dag en jaar,
ach neen, bij kleene tikskes maar,
en ’t laatste tikske komt aleer
men ‘peist of weet, eilaas, te zeer!
De wijzer wijst elke uur en tijd,
maar de uur niet dat gij schuldig zijt
te sterven! Zijt dus voorbereid,
de wijzer wijst naar de eeuwigheid.
Poesiola dell’anima
Th. S., orologiaio, 7 giugno 1880
Dio concede il tempo in giorni ed anni, ah no, solo per piccoli ticchettii, e l’ultimo ticchettio giunge assai prima di quanto, ahimé, l’uomo pensi o sappia! Il saggio conosce ogni ora ed ogni tempo, ma non l’ora nella quale tu dovrai morire! Sii quindi preparato: il saggio indica l’eternità.
Il tema dell’orologio serve all’autore per esortare, in questo piccolo gioiello poetico, alla riflessione sul tempo che fugge e sull’eternità, al quale deve tendere chi ha a cuore la salute della propria anima. Questo argomento ha una lunga tradizione nella poesia nederlandese: ne abbiamo visto un altro esempio in De horologiemaaker di Joannes Luyken.
Guido Gezelle
(Brugge/Bruges 1830 – 1899)
Moederken
’t En is van u
hiernederwaard
geschilderd of
geschreven,
mij, moederken,
geen beeltenis,
geen beeld van u
gebleven.
Geen tekening,
geen lichtdrukmaal,
geen beitelwerk
van steene,
‘t en zij dat beeld
in mij, dat gij
gelaten hebt,
alleene.
o Moge ik, u
onweerdig, nooit
die beeltenis
bederven,
maar eerzaam laat
ze leven in
mij, eerzaam in
mij sterven.
Mamma
E di te qui sulla terra né un ritratto o uno scritto, mi è rimasto, mamma, nessuna raffigurazione, nessuna immagine.
Non un disegno, non una foto, non una pietra cesellata, eccetto l’immagine in me, che tu hai lasciato, sola.
Oh, possa io, indegno, mai offuscare quell’immagine, ma lasciarla onorevolmente vivere in me, onorevolmente in me morire.
Poesia datata 4 maggio 1891.
Guido Gezelle
(Brugge/Bruges 1830 – 1899)
Den ouden brevier
Als zorgen mijn herte verslinden,
als moedheid van ’s wereld getier;
dan zoeke ik veêrom den beminden,
dan grijpe ik den ouden brevier.
o Schat ongevalschter gebeden,
brevier, daar, in ’t korte geboekt,
Gods woord, en Gods wonderlijkheden,
nooit een ongevonden en zoekt!
o ’t Werk van gezetelde Pausen,
wat zegge ik, Gods eigen beworp;
o sterkte, en, als ‘t lijden doet flauw zijn,
onsterfelijk, lavend geslorp!
o Weldaad wellustiger koelheid,
o schaduwomschietende troost,
als ’t vier, en de onmachtige zwoelheid,
gestookt door den vijand, mijn roost …….
Dan zuchte ……. dan zitte ik alleene;
dan biede ik den booze: “Van hier!”
dan buige en dan bidde ik, en weene …….
dan grijpe ik den ouden brevier!
Il vecchio breviario
Quando assalgono il mio cuore le ansie e la stanchezza per l’infuriare del mondo; cerco allora di ritrovare l’amore e allungo la mano verso il vecchio breviario.
O tesoro di genuine preghiere, breviario, dove, in breve esposte, la Parola di Dio e le meraviglie di Dio non si cercano mai senza trovarle!
O, opera di santi Papi, che dico, opera di Dio stesso; o forza, e, quando la sofferenza si fa amara, immortale, fortificante bevanda!
O amorevole opera di voluttuosa freschezza, o consolazione che scaccia, come fuoco, le ombre e l’impotente oppressione inflitta dal nemico, mio tormentatore …….
E sospiro ……. e siedo solitario; poi ordino al maligno: “Via di qui!”, mi inginocchio e prego, e piango ……. e allungo la mano verso il vecchio breviario!
Il poeta, che era sacerdote cattolico, in questa lirica datata 1894, esprime le sofferenze causate del maligno. Come sappiamo, sono proprio le anime consacrate e più fedeli e care a Dio a soffrire maggiormente (basti pensare a quanto accadeva al santo Curato d’Ars e a Padre Pio). Unico rimedio e rifugio possibile, come giustamente insegna il poeta, è la preghiera.
Guido Gezelle
(Brugge/Bruges 1830 – 1899)
Meidag
De kerzelaar zijn trouwgewaad
heeft aangedaan:
vandage moet hij, meidag is ‘t,
ter bruiloft gaan.
Elk taksken is een priem nu, die,
bewonden, wit,
tot tenden, in een’ witte schee
van blommen zit.
Beruwrijmd, was hij schoon, wanneer
de winter woei:
veel duizendmaal is schoonder nu
zijn bloemgebloei.
Te winter was zijn’ schoonheid als
een’ beeltenis
des levens: koud en ijdel, zoo
de schaduwe is.
Geen schaduwbeeld en is hij nu
geen schijn, maar al
dat schoon is, al dat levende, en
dat liefgetal.
’t Is bruiloft, en ’t is zonneweêr:
de zomermeid
den bruidegom verwacht, die haar
was toegezeid.
Calendimaggio
Il ciliegio ha indossato il suo abito da sposo: oggi è calendimaggio e deve andare al matrimonio.
Ogni ramificazione è ora un ago, che, avvolto, bianco, sta all’estremità, in una bianca copertura di fiori.
Con un ricca chioma era bello, mentre l’inverno infuriava: mille e mille volte è più bella ora la sua fioritura.
In inverno la sua bellezza era come un’immagine della vita: fredda e vuota, come un’ombra.
Non è più l’immagine di un’ombra, adesso, non un’apparenza, ma tutto ciò che è bello, tutto ciò che è vivente, e ciò che è brulicante di vita.
È sposalizio, e il sole risplende: la sposa di maggio attende lo sposo che le era stato promesso.
Un intenso sentimento della natura caratterizza questa poesia datata 1° maggio 1895.
Guido Gezelle
(Brugge/Bruges 1830 – 1899)
Ego flos …….
Cant. II, 1
Ik ben een blomme
en bloeie vóór uwe ogen,
geweldig zonnelicht,
dat, eeuwig onontaard,
mij, nietig schepselken,
en ’t leven wilt gedoogen
en, na dit leven, mij
het eeuwig leven spaart.
Ik ben een blomme
en doe des morgens open,
des avonds toe mijn blad,
om beurtelings, nadien,
wanneer gij, zonne, zult,
heropgestaan, mij nopen,
te ontwaken nog eens of
mijn hoofd den slap te biên.
Mijn leven is
Uw licht: mijn doen, mijn derven,
mijn’ hope, mijn geluk,
mijn éénigste en mijn al,
wat kan ik, zonder u,
als eeuwig, eeuwig, sterven:
wat heb ik, zonder u,
dat ik beminnen zal?
‘k Ben ver van u,
ofschoon gij, zoete bronne
van al dat leven is
of immer leven doet,
mij naast van al genaakt
en zendt, o lieve zonne,
tot in mijn diepste diep
uw aldoorgaanden gloed.
Haalt op, haalt af! …….
ontbindt mijne aardsche boeien;
ontwortelt mij, ontdelft
mij ……. ! Henen laat mij ……. laat
daar ’t altijd zomer is
en zonnelicht mij spoeien
en daar gij, eeuwige, ééne,
alschoone blomme, staat.
Laat alles zijn
voorbij, gedaan, verleden,
dat afscheid tusschen ons
en diepe kloven spant;
laat morgen, avond, al
dat heenmoet, henentreden,
laat uw oneindig licht
mij zien, in ’t Vaderland!
Dan zal ik vóór …….
o neen, niet vóór uwe ogen,
maar naast u, nevens u,
maar in u boeien zaan;
zoo gij mij, schepselken,
in ’t leven wilt gedoogen;
zoo in uw eeuwig licht
me gij laat binnengaan.
Io fiore
Cantico dei Cantici II, 1
Io sono un fiore e fiorisco sotto i tuoi occhi, potente luce solare, eternamente immutabile, che a me, piccola e insignificante creatura, hai concesso la vita e, dopo questa vita, mi prepari la vita eterna.
Io sono un fiore e mi apro il mattino, la sera chiudo i miei petali uno ad uno; e poi, quando tu, o sole, sarai sorto, mi inviterai a svegliarmi ancora una volta o a reclinare il mio capo nel sonno eterno.
Mia vita è la tua luce: il mio fare, il mio annaspare, la mia speranza, la mia fortuna, mio unico e mio tutto; che posso io, senza di te, se non morire in eterno, in eterno: cosa ho, eccetto te, che io possa amare?
Io sono lontano da Te, sebbene tu, dolce sorgente di tutto ciò che vive o vivrà in eterno, appena mi sfiori, mandi, o amato sole, fino alla mia più intima profondità il tuo calore che tutto penetra.
Fa che sia finita! prendimi! ……. sciogli i miei legami terreni; sradicami, coglimi ……. ! Portami via ……. là dove è sempre estate e la luce mi ravvivi e dove sei tu, eterno, unico, meraviglioso fiore.
Passato, lontano, remoto, finito, sia tutto quello che ci separa scavando profondi solchi; il mattino, la sera, tutto ciò che è transitorio passi; che la tua luce infinita mi veda, nella Patria celeste!
Allora sarò di fronte ……. o no, non davanti ai tuoi occhi, ma presso di te, vicino a te, fiorendo al tuo cospetto; per ottenere io, tua creatura, la vita; perché tu mi faccia entrare nella tua luce eterna.
La poesia è datata 17 novembre 1898, scritta dunque nell’imminenza della morte, che il poeta presagisce e desidera. Egli paragona se stesso ad un fiore, che fiorisce sotto il sole che è Dio, ed aspira ormai a ricongiungersi con Lui in un “cupio dissolvi” mistico. Al tempo stesso, con una splendida immagine, il poeta vede Dio a Sua volta come un fiore, ma naturalmente non uno qualunque, ma un fiore eterno, perché anch’Egli, mediante l’Incarnazione, si è fatto creatura. Si noti che anche il Sommo Poeta, nell’ultimo canto del Paradiso, paragona ad un fiore la nascita del Redentore: “così è germinato questo fiore” (Paradiso XXXIII, v. ?).
Albert Verwey
(Amsterdam 1865 – Noordwijk aan Zee 1937)
O man van smarte
O Man van Smarte met de doornenkroon,
o bleek bebloed gelaat, dat in de nacht
gloeit als een grote, bleke vlam — wat macht
van eindloos lijden maakt uw beeld zo schoon?
Glanzende Liefde in enen damp van hoon,
wat zijn uw lippen stil, hoe zonder klacht
staart ge af van ’t kruis, — hoe lacht gij soms zo zacht, —
God van Mysterie, Gods bemindste Zoon!
O Vlam van Passie in dit koud heelal!
Schoonheid van Smarten op deez’ donkere aard!
Wonder van Liefde, dat geen sterfling weet!
Ai mij! ik hoor aldoor den droeven val
der dropplen bloeds en tot den morgen staart
hij me aan met grote liefde en eindloos leed.
O Uomo dei Dolori
O Uomo dei Dolori con la corona di spine, o pallido viso insanguinato, che nella notte riluce come una grande, pallida fiamma — quale potenza di dolori senza fine rende così bella la tua immagine?
Splendente amore in una nebbia di oltraggi, come sono silenti le tue labbra, come senza lamento Tu guardi dalla Croce, — come ridi persino, così dolcemente, — Dio dei Misteri, amato Figlio di Dio!
O Fiamma della Passione in questo gelido mondo! Bellezza del dolore su questa tenebrosa terra! Meraviglia dell’Amore, che nessun mortale giunge a comprendere!
Ahimé! io sento sempre il triste cadere delle gocce di sangue e fino al mattino Egli mi guarda con grande amore ed infinito dolore.
Verwey (scritto anche come Verweij) concentrò inizialmente la sua attenzione sul problema della morte, poi la ricerca di una “armonia del tutto” lo condusse al “vitalismo”, ossia a considerare la vita come qualcosa di “eterno”. Tutto, inclusa l’esistenza umana, sarebbe una manifestazione di questa “vita nascosta”, alla quale l’uomo dovrebbe sottomettersi per “servirla”. Il poeta avrebbe il compito di fare da “tramite” fra questa “vita” e l’umanità. Egli sarebbe il “veggente” che mostra l’“interdipendenza” di tutte le cose grazie al suo potere di immaginazione; egli deve “arricchire” l’umanità con questa sua “visione”, esprimendone la bellezza. Ciò condurrebbe ad una “quiete interiore” che non si perde nel “tutto”, ma conserva la personalità. Verwey non giunge tuttavia ad un’espressione profondamente vissuta della visione filosofica da lui enunciata, così che non sempre la sua poesia raggiunge una piena maturità artistica.
Al di là di tali elucubrazioni più o meno iniziatiche e teosofiche, questo magnifico sonetto di indirizzo cristiano coglie il punto essenziale della dottrina: la sofferenza redentrice del Figlio di Dio, profondità di un insondabile mistero di fronte al quale il blaterare della ragione umana che pretende di fare a meno di Dio appare in tutto il suo vuoto.
Carel Steven Adama van Scheltema
(Amsterdam 1877 – Bergen 1924)
De stilte
Min de stilte in uw wezen,
zoek de stilte die bezielt.
Zij die alle stilte vrezen
hebben nooit hun hart gelezen,
hebben nooit geknield.
Il silenzio
Ama il silenzio nell’intimo del tuo essere, ricerca il silenzio che ispira. Quelli che temono il silenzio non hanno mai sondato il proprio cuore, non hanno mai pregato.
Questo poeta, discendente da una famiglia aristocratica originaria della Frisia, socialista deluso, si rivolse, negli ultimi anni della sua vita, alla fede cristiana. Silenzio e musica sono i due poli tra i quali la spiritualità cristiana si muove. Il demonio, invece, ama il rumore, come ben sottolinea il grande scrittore inglese C. S. Lewis, nel suo esemplare libro The Screwtape letters, tradotto in Italia come “Le lettere di Berlicche”.
Pierre Kemp
(Maastricht 1886 – 1967)
Stilleleven
Dat is een spiegel en dit ben ik,
glas en flees van het ogenblik.
Ik ga er bloemen en kaarsen bij zetten
en om het recht een boek met wetten.
Dan een likeur en ik erken,
dat ik zo langzaam een stilleleven ben.
Natura morta
Quello è uno specchio e questo sono io, vetro e carne di un istante. Vi aggiungo fiori e candele e a destra un libro di legge. Poi un liquore, e mi accorgo che, a poco a poco, sono diventato una natura morta.
Pittore decoratore di ceramiche e successivamente amministratore di una miniera di carbone, Kemp venne incoraggiato a poetare dal gesuita J. van Well. Questa è una malinconica, brevissima ed efficace meditazione sulla caducità di ogni cosa, ispirata, non caso, alla tradizione pittorica nederlandese della natura morta.
Johannes Bernardus Maria Raphael Hanlo
(Bandung, Indonesia 1912 – Maastricht 1969)
De mus
Tjielp tjielp — tjielp tjielp tjielp
tjielp tjielp tjielp — tjielp tjielp
tjielp tjielp tjielp tjielp tjielp tjielp
tjielp tjielp tjielp
Tjielp
etc.
Il passero
Cip cip cip …….
ecc.
Nato in Indonesia, allora colonia olandese, da genitori che ben presto si separarono. Egregio esponente, della poesia contemporanea, era invertito e pedofilo.
Il risultato è un nichilismo anche verbale: esempio lampante del totale smarrimento di senso dell’esistenza conseguente all’abbandono della concezione cristiana, al punto che la parola non serve più ad esprimere qualcosa, ma soltanto ad imitare il verso di un animale, in questo caso un animaletto simpatico, ma pur sempre un animale. Il rifiuto di Dio si traduce nel far sprofondare l’uomo al livello delle bestie.
Gerard Cornelis van het Reve
(Amsterdam 1923 – Zulte 2006)
Het is mal net zoals je het bekijkt
Uw woord, dat niet voorbij gaat, zegt
dat ik slechts gras ben, en dat is ook zo.
Na lang getob weer stevig aan de kruik.
Maar klachten heb ik niet, want alles moet
voltooiing zijn van U, Oneindige, voor wie ik zing en dans
zo lang het U belieft en blijft behagen.
È solo il punto di vista da cui lo guardi
La tua parola, che non passerà, dice che non sono che erba, e sarà pure così. Dopo un lungo rotolare sto di nuovo stabilmente attaccato alla bottiglia. Ma non ho lamentele, perché tutto deve essere perfezionato da Te, Infinito, per il quale io canto e ballo finché a Te continuerà a piacere.
Altro celebre esponente della “poesia contemporanea”, ben degna del secolo XX, invertito, con una testa confusa tra cattolicesimo, comunismo e ideologia omosessualista. I suoi scritti sono spesso blasfemi in modo ripugnante. In un romanzo epistolare, dal titolo Nader tot U (Più vicino a Te), descrive un suo accoppiamento bestiale con un asino che sarebbe stato una “incarnazione divina”. Farneticazioni del genere sono ben note agli esorcisti come riti diabolici.
Queste enigmatiche parole, non si comprende se improntate a pietà religiosa o ad una sorta di blasfemo disprezzo, sono perfettamente in linea con la cosiddetta “incomunicabilità” contemporanea, che altro non è se non disgregazione del senso della parola e della vita.
Hugo Maurice Julien Claus
(Brugge/Bruges 1929 -)
Koel is de wereld
Koel is de wereld.
De kevers van het ongeluk
wandelen in mijn gezicht.
Mijn oog is helderwit,
de koekoek legt een angstei
in mijn armen.
Het werkwoord dromen.
En ik die slaap noch waak,
die weef noch maai,
ik ben een gezwollen zang
en gebarsten is mijn waterkeel.
Fresco è il mondo
Fresco è il mondo. Gli scarafaggi della sfortuna vagano sulla mia fronte.
Il mio occhio brilla bianco, il cucù riversa un uovo di angoscia nelle mie braccia.
Il verbo sogna. E io dormo ancora sveglio, il tessuto ancora miete,
io sono un canto gonfiato e la mia gola è scoppiata.
Premiatissimo autore fiammingo, autore di romanzi, opere teatrali, sceneggiature di film e poesie. Il suo tema favorito è l’attività sessuale, ma non sembra sia un invertito, ciò che costituisce un punto di minor correttezza politica, peraltro ampiamente compensato da una insistita esaltazione dell’incesto, con un linguaggio esplicito e violento. Non ha ancora ricevuto il Nobel ma, visti i criteri con i quali il prestigioso premio viene attribuito, non è affatto escluso che presto lo ottenga.
Questa “poesia” è un esempio del folle vaniloquio contemporaneo, punto terminale della scristianizzazione e della laicizzazione. Sarebbe fin troppo facile fare dell’ironia su questo sbavare di parole pressoché incomprensibile, che pretende di lamentarsi dei mali del mondo. Non si capisce bene quale sollievo di questi mali possa portare roba del genere. Tanta lotta per scardinare il Cristianesimo, che era fattore di coesione e di amore, per approdare ad un’insensata protesta globale contro la perdita di senso causata proprio dalla scristianizzazione stessa.
Ellen Warmond
(Rotterdam 1930 -)
Te laat
(Een dier)
Te laat: een dier
een blinde mol
wroetend in het verdriet
niets ziend: geen hemel, zelfs
de aarde niet.
gravend naar wat voorbij is
(hoe smaakte vroeger het licht?)
blind. geen hemel. geen aarde.
duisternis.
ogen dicht.
Troppo tardi (Un animale)
Troppo tardi: un animale — una cieca talpa — che scava nella disperazione — senza vedere nulla: nessun cielo, neppure — la terra. — che scava verso ciò che è passato — (quanto le piaceva prima la luce?) — cieca. nessun cielo. nessuna terra. — tenebre. — occhi chiusi.
Ellen Warmond soffrì inizialmente di gravi difficoltà. Datasi al balletto, dovette rinunciarvi nel 1953 per motivi di salute ed impiegarsi come segretaria in una ditta commerciale. Divenne poi assistente del conservatore capo del museo della letteratura de L’Aja, ciò che la mise nelle condizioni ideali per far conoscere le carte che andava imbrattando. La sua poesia è “una trasposizione nello sperimentale”, e “le sue verità poetiche scaturiscono dal materiale linguistico” (Rodenko).
In pratica, come qui si può vedere, si ha una scrittura rotta, a scatti, con punteggiatura irregolare. Tutto ciò appare come “segno di rottura” (di scatole?), parallelo con la contemporanea grafica della scuola di De Stijl, secondo un anticonformismo di maniera che rappresenta la forma più squallida e bavosa di conformismo. La cecità sembra essere un simbolo della confusione del Novecento: un secolo, come già osservato, particolarmente violento e disastroso. Il simbolo della talpa era stato usato cinque secoli prima da Anthonis de Roveere in Vander mollenfeeste, con ben altri fini e ben diversa efficacia. Il poeta quattrocentesco mira alla verità e all’edificazione del prossimo, mentre questa poetessa si limita ad un generico ed alquanto enigmatico lamento, non si sa bene per cosa.
POESIA AFRIKAANS
Jan François Elias Celliers
(Wagenmakersvallei 1865 – Johannesburg 1940)
Dis al
Dis die blond,
dis die blou:
dis die veld,
dis die lug;
en ’n voël draai bowe in eensame vlug —
dis al.
Dis ‘n balling gekom
oor die oseaan,
dis ’n graaf in die gras,
dis ’n vallende traan —
dis al.
Questo è tutto
Ecco l’oro, ecco l’azzurro: ecco la piana, ecco il cielo; e un uccello si aggira in alto nel suo volo solitario — questo è tutto.
Ecco un esule ritornato da oltremare, ecco una tomba nell’erba, ecco una lacrima che cade — questo è tutto.
Poeta, drammaturgo e saggista di origine francese-ugonotta, Celliers combatté nella guerra anglo-boera presso Colesberg, poi si rifugiò con la famiglia in Europa, dove studiò letteratura. Tornato in Sudafrica nel 1907, fu impiegato al dipartimento degli Interni, dove per dieci anni fu addetto alle traduzioni. L’università di Stellenbosch gli offerse una cattedra e vi fu professore dal 1919 al 1929.
In questa lirica il poeta rievoca con tratti impressionistici e di colorismo simbolico il triste ritorno dell’esule nella terra devastata dalla guerra anglo-boera.
Eugène Nielen Marais
(Pretoria 1871 – Pelindaba 1936)
Winternag
O koud is die windije
en skraal
en blink in die dof-lig
en kaal,
so wyd as die Heer se genade,
lê die velde in sterlig en skade.
En hoog in die rande,
versprei in die brande,
is die grassaad aan roere
soos winkende hande.
O treurig die wysie
op die ooswind se maat,
soos die lied van ‘n meisie
in haar liefde verlaat.
In elk’ grashalm se vou
blink ’n druppel van dou,
en vinnig verbleek dit
tot ryp in die kou!
Notte d’inverno
O freddo è il vento e tagliente. E brillante nel tenue lucore e nuda, vasta come la divina misericordia, giace la piana alla luce delle stelle e nell’ombra. E alta sui colli, sparsa nei tratti incendiati, si muove l’erba come mani che fanno segni.
O triste motivo sull’onda del vento d’oriente, come il canto di una fanciulla abbandonata dal suo amore. Nel cavo di ciascun filo d’erba brilla una goccia di rugiada, e presto impallidisce nel gelo!
Tredicesimo figlio di una prolifica famiglia Afrikaner di origine francese ugonotta, Marais fu scienziato, giurista e poeta. Divenne oppiomane, e successivamente morfinomane, in giovane età. A diciannove anni era editore del giornale Land en Volk e fu profondamente coinvolto nella politica locale. Sposò Aletta Beyers che morì l’anno successivo di febbre puerperale otto giorni dopo aver dato alla luce il loro primo figlio. Nel 1897 si recò a Londra a studiare diritto. Nel 1899, allo scoppio della guerra anglo-boera, fu posto in libertà vigilata come cittadino di un paese nemico. Verso la fine della guerra si unì ad una spedizione tedesca che cercava di far giungere munizioni e medicine ai boeri attraverso il Mozambico, ma arrivò a guerra finita.
Nel 1905 si ritirò nei Waterberg, una zona montuosa a nord di Pretoria a compiere importanti studi naturalistici sul comportamento animale (dei babbuini e delle termini) che anticiparono lo sviluppo dell’etologia. Il suo libro che esponeva i risultati dei suoi studi (Die siel van die mier, “L’anima della termite”), fu vergognosamente plagiato nel 1926 dallo scrittore belga Maurice Maeterlinck, premio Nobel. Marais morì suicida nella fattoria di Pelindaba, nel Transvaal, dove era ospite di un amico.
Con questa sua lirica del 1905, ispirata, fra l’altro, dalle tristi condizioni del Sud Africa dopo la guerra anglo-boera del 1899-1902, la poesia afrikaans si affaccia con autorità sulla scena mondiale.
Totius (Jacob Daniël du Toit)
(Paarl 1877 – Pretoria 1953)
Die wereld is ons woning nie
Die wêreld is ons woning nie.
Die merk ek aan die son wat wyk,
en ‘k merk dit aan die reier wat
mistroostig na die son sit kyk
op een been, in die biesiesvlei.
En is die laaste strale weg,
dan rys ’n koue op uit dié vlei.
’n Koue gril deurhuiwer my;
en ‘k sien dit dan aan alle ding
wat in die skemer my omring,
die wêreld is ons woning nie.
Die wêreld is ons woning nie.
Dit sien ek as die bloedrooi maan,
van agter veldstof opgegaan,
nog net die kerk se dak bestryk
vanwaar ’n uil, mistérie-stom,
sit na die maan se skyf en kyk.
En nou dit stil word op die straat,
dink ek hoedat die middag laat
’n lykstoet uitgekom het daar
waar nou die maan en uil ontmoet.
En ‘k merk dit dan aan alle ding
wat in die aandstond my omring,
die wêreld is ons woning nie.
Die wêreld is ons woning nie.
Dit voel ek as die wind ontwaak,
en die eikebome knars en kraak;
dit hoor ek in die fladdering
van voëltjies wat hul vlerke slaan
teen die verwarde boomtakke aan.
En as ek nader kom dan vind
ek by die maan se wisselstraal
’n nes vol kleintjies deur die wind
omlaageslinger, dood, verplet.
Ek voel dit dan aan alle ding
wat in die nagstond my omring,
die wêreld is ons woning nie.
La terra non è la nostra casa
La terra non è la nostra casa. Ciò mi appare nel sole al tramonto, e lo vedo nell’airone che sconsolato sta a contemplare il sole su una sola gamba, nel canneto. E quando è tramontato l’ultimo raggio un gelo sale dal canneto. Un brivido mi gela fino alle ossa; e vedo allora in tutte le cose che mi circondano nell’ombra che scende, che la terra non è la nostra casa.
La terra non è la nostra casa. Lo vedo quando la luna rosso sangue sorge attraverso la fine polvere della pianura, che appena ha sfiorato il tetto della chiesa, da cui un gufo, misterioso, solitario, siede contemplando la falce di luna. Ed ora che è silenzio per la strada, io ripenso a questo pomeriggio, quando la bara e i parenti in lutto sono andati verso il luogo dove la luna e il gufo s’incontrano. E noto allora in tutte le cose che nella luce crepuscolare mi circondano, che la terra non è la nostra casa.
La terra non è la nostra casa. Lo sento quando si risveglia il vento e le querce scricchiolano e si spaccano; lo sento nel fremito degli uccelli che battono le ali fra gli intricati rami degli alberi. E avvicinandomi trovo allora all’incerta luce della luna un nido pieno di piccoli che il vento ha scaraventato al suolo, morti, schiacciati. E allora sento in tutte le cose che nel buio della notte mi circondano, che la terra non è la nostra casa.
Nato da famiglia di origine francese ugonotta, du Toit fu inizialmente cappellano delle truppe boere durante la guerra anglo-boera, e successivamente pastore della Nederduitse Gereformeerde Kerk, dopo che ebbe conseguito il dottorato in teologia (calvinista) presso la Vrije Universiteit di Amsterdam. Fu pure professore di teologia al collegio teologico di Potchefstroom. Di idee profondamente conservatrici, fu uno degli ideologi dell’apartheid e uno dei principali autori della traduzione della Bibbia in afrikaans. La sua vita privata fu segnata da avversità e lutti: un suo figlio morì per un’infezione in tenera età, una figlioletta fu colpita da un fulmine mentre correva verso di lui e morì nelle sue braccia.
Quest lirica è una triste e solenne meditazione sulla realtà ultima della vita, sulla vanità di ogni attaccamento terreno, che prelude però allo schiudersi di un’altra, più felice realtà poiché, se la terra non può essere la nostra casa, è implicito che altrove possiamo trovare la nostra vera casa.
Christiaan Frederik Louis Leipoldt
(Worcester 1880 – Kaapstad/Cape Town/Città del Capo 1947)
Die soutpan
Kaal is die ou sandwêreld hier, en kaal
die see daar buite waar die branders breek —
’n Strand vol klippies en ’n pol’tije kweek
van ruitegras, nou nie meer groen, maar vaal.
Hier praat die veld ‘ onverstaanb’re taal;
hier maak die son die blou soutwater bleek,
totdat hy saans vermoeid sy kop versteek
agter die duine, waar sy glans verdwaal.
Hier staan die soutkors sonder vou of plooi,
glad, silverwit, en met ’n goudgeel lys
van modder en klei — hier dun en daar nog dig.
So arm die wêreld hier, en tog so mooi —
stil, soos ’n oumens amper oor sy reis
en met die Dood se skadu op sy gesig.
La salina
Nudo è il vecchio mondo di sabbia qui, e nudo di spruzzi il mare laggiù dove i marosi s’infrangono — Una spiaggia cosparsa di ciottoli ed un piccolo ciuffo di ruvida erba, ora non più verde, ma grigia.
Qui la pianura parla una lingua incomprensibile; qui il sole fa impallidire la salata acqua blu, finché a sera, stanco, nasconde la testa dietro le dune, dove il suo splendore dilegua.
Qui giace la crosta salata, senza pieghe o grinze, levigata, bianco argentea, e con dorati margini di fango e creta — qui sottile e qui più spessa.
Così povero è qui il mondo, eppure così bello — silente, come un vecchio quasi alla fine del viaggio e con l’ombra della morte sul volto.
Figlio di un predicatore calvinista, Leipoldt fu giornalista al seguito delle truppe boere durante la guerra anglo-boera, prolifico scrittore di poesie, romanzi, commedie, letteratura per ragazzi e persino libri di cucina e un diario di viaggio. Si laureò in medicina a Londra.
La sua poesia ha come temi le bellezze naturali, le sofferenze causate dalla guerra contro gli inglesi e i valori culturali dei “malesi del Capo” (minoranza islamica di sangue misto), ed è considerata dai critici assai difficile da tradurre.
In questa lirica fortemente simbolica, per immagini impressionistiche viene evocata la caducità di tutte le cose terrene. Nel primo verso si avverte una eco della celebre Winternag di Marais.
Izak David du Plessis
(Philipstown 1900 – Kaapstad/Cape Town/Città del Capo 1981)
Katrina
Katrina van die Bo-Kap
het voor haar deur gestaan.
’n Boot lê in die hawe,
matrose kom al aan.
Oor Strandstraat na die Boereplein,
die donker strate in;
en netnou sal Katrina
se nagtaak weer begin.
’n Halfverlepte hoedjie hang
parmantig oor een oog,
die rooi veer is verrineweer,
maar staan nog met ’n boog.
Katrina dra haar beste rok.
Sy stryk die kreukels plat.
So fyn asof ’n vryer wag,
het sy haar uitgevat.
Maar eer sy van haar huis gaan,
kyk sy ’n keer weer om:
lank sal die leë ure wees
voordat sy daar kan kom.
Katrina stap deur Roosstraat:
astrant, voor haar deur gestaan.
Wie raai nou aan haar houding
dat sy na huis verlang?
Katrina
Katrina che viene dalla campagna è in piedi davanti alla sua porta. Una nave è all’ancora nel porto, i marinai sono sbarcati.
Su per la via dello Strand fino alla piazza del mercato, camminano per strade buie; ed ora comincerà per Katrina di nuovo il lavoro serale.
Un cappellino sbiadito pende impudente su un occhio di lei, la sua piuma rossa è distrutta, ma si regge ancora, seppure piegata.
Katrina indossa il suo miglior abito, con tutte le pieghe stirate. Come se dovesse allietare il suo unico amore, è uscita per la strada.
Ma prima di lasciare la sua casa ancora un poco si guarda in giro: lunghe saranno le ore, prima che lei possa tornarvi.
Katrina si avvia per Rose Street: ondeggia sugli alti tacchi. Chi dal suo portamento mai potrebbe indovinare che lei desidera solo la sua casa?
Scrittore di origine francese ugonotta, attivo nei generi più diversi, du Plessis fu pure insegnante e giornalista in quotidiani e riviste di indirizzo nazionalista (Die Burger, Die Huisgenoot). Nel 1948, all’avvento dell’apartheid, divenne direttore dell’Istituto di Studi Malesi dell’Università di Città del Capo. Dal 1953 al 1963 fu commissario e più tardi segretario del Ministero per gli affari dei meticci. Fu il primo rettore dell’Università del Capo Occidentale (Universiteit van Wes-Kaapland/University of the Western Cape), l’ateneo segregato riservato ai meticci.
Questa toccante poesia tratteggia il destino di un’umile prostituta di colore di Città del Capo, spinta dalla necessità, e desiderosa soltanto di ritirarsi nella sua casa. Come lei, tante altre venivano dal Boland, ossia dalla “terra di sopra”, i circondari rurali di Paarl, Stellenbosch e Wellington, nell’immediato entroterra, per cercare “lavoro” nella grande città, finendo molto spesso sul marciapiede.
Nicholaas Petrus van Wyk Louw
(Sutherland 1906 – Johannesburg 1970)
O wye en droewe land
O wye en droewe land, alleen
onder die grootsuidersterre.
Sal nooit ’n hoë blydskap kom
deur jou stil droefenis?
Jy ken die pyn en eensaam lye
van onbewuste enkelinge,
die verre sterwe op die veld,
die klein begrafenis;
eenvoudige mense wat getrou
en enkeld bitter dinge doen,
en enkeld val soos korrels saad;
stil daad, klein trou, klein trouloosheid
van dié wat om ’n ander diens
soos knegte jou verlaat.
Sal nooit ’n magtige skoonheid kom
oor jou soos die haelwit somerwolk
wat uitbloei oor jou donker berge,
en nooit in jou ’n daad geskied
wat opklink oor die aarde en
die jare in hul onmag terge;
‘n grootsheid van so suiwer glans,
dat mense in ’n verre land
wat van jou naam die melding hoor,
met wilde en helder oog sal star
soos vroeë vaarders in die nag
verslae gesien het kim bo kim
die nuwe, blom-groot sterre styg
óp uit jou see se wit gevaar?
O grande e triste terra
O grande e triste terra, sola sotto le grandi stelle del sud. Verrà mai un’intensa gioia ad attraversare la tuo immobile, silenzioso dolore? Tu conosci le anime solitarie, inconsce del loro dolore e della loro solitudine, il lontano morire sulla pianura, le piccole tombe.
Gente semplice che fedelmente compie, solitaria, cose amare, e solitaria cade come grani di semi; gesti silenziosi, piccola fedeltà, piccola infedeltà di coloro che servono per un altro signore, e come servi ti abbandonano.
Non verrà dunque mai una potente bellezza su di te come le nubi estive bianche di grandine che fioriscono al di sopra dei tuoi oscuri monti, e mai in te un gesto avverrà che echeggi per tutta la terra e derida l’impotenza del tempo?
Una grandezza di così dolce splendore, che gli uomini nelle terre più remote sentendo nominare il tuo nome, con occhi spalancati e sbarrati guarderanno come vecchi viaggiatori nella notte che hanno visto, attoniti, fila dopo fila, ascendere nuove stelle e fiorire dalla bianca minaccia del tuo mare?
Professore di afrikaans, prima all’Università di Amsterdam, poi a quella del Witwatersrand a Johannesburg, fu poeta, di orientamento decisamente nazionalista. In questa lirica sottolinea il contrasto fra la potenziale grandezza del Sudafrica e la condizione di dipendenza dall’Impero Britannico, auspicandone la piena indipendenza e l’ascesa sulla scena mondiale. Fu appunto con idee di questo genere che il partito nazionalista andò al potere nel 1948, instaurando il regime dell’apartheid, che tuttavia non condusse precisamente alla grandezza del paese, ma rischiò al contrario di portarlo alla totale rovina.
William Ewart Gladstone Louw
(Sutherland 1913 – Stellenbosch 1980)
Opstanding
Die dae was daar duisternis ……. Alleen
in diep gelatenheid, soos in die sand
’n suiver saad wat wag op son en reën,
het al Sy sterflikheid stil weggebrand:
die swaar en trae slakke van die vlees,
sy onrus, vrees, verwarringe en waan,
dat Hy, één met die Vader en die Gees,
verheerlik in die lig weer op kan staan.
Die wagte kon in daardie gloed nie kyk …….
Die steen is afgewentel deur ‘n wind
wat uit vier hemelstreke op die aarde stryk
dat dit vergruisel is tot stof en grint,
en soos uit diepe duisternis ’n vlam,
staan hoog en rank en smetteloos die Lam!
Resurrezione
Tre giorni furono tenebra ……. Solo, in profonda sottomissione, come nella sabbia un dolce seme che attende sole e pioggia, abbiano bruciato tutta la Sua mortalità: i pesanti e inerti detriti della carne, la sua inquietudine, paura, perplessità e illusione, affinché Egli, insieme al Padre e allo Spirito, possa stare nuovamente glorificato nella luce. Le guardie non poterono reggere con lo sguardo una tale luce ……. La pietra è scossa da un vento che dai quattro angoli del cielo colpisce la terra e si disintegra in sassi e polvere, e come da profonda tenebra scaturisce una fiamma, sta alto e snello e immacolato l’Agnello!
Fratello minore di Nicholaas Petrus van Wyk Louw, sposò nel 1944 la musicista Rosa Nepgen che musicò molte delle sue poesie (peraltro musicate anche da altri compositori). Studiò alle università di Amsterdam e di Città del Capo, fu professore di afrikaans e nederlandese alla Rhodes University di Grahamstown e all’Università di Stellenbosch. Collaborò sempre strettamente con il fratello maggiore, dal quale ricevette ampio incoraggiamento. Dal 1957 al 1966 fu direttore artistico del giornale nazionalista Die Burger.
Questa poesia presenta una sfolgorante immagine della Resurrezione di Cristo, purtroppo guastata da un’eccessiva sottolineatura di una presunta “debolezza umana” del Redentore, al quale si attribuiscono, prima della glorificazione finale, addirittura “inquietudine, paura, perplessità e illusione”, mentre l’Agnello di Dio sulla croce non perse mai la cognizione di Chi Egli fosse, tanto da promettere al ladrone pentito, pur tra gli spasimi del supplizio: “In verità, in verità ti dico: oggi sarai con me in paradiso”.
Diederik Johannes Opperman
(Dundee 1914 – Stellenbosch 1985)
Kersliedjie
Drie outas het in die haai Karoo
die ster gesien en die engel geglo,
hul kieries en drie bondels gevat
en aangestryk met ‘n jakkalspad
al agter die ding wat skuiwend skyn
op ’n plakkie, ’n klip, ’n syferfontein,
oor die sink en die sak van Distrik Ses
waar ’n kersie brand in ’n stukkende fles,
en daar tussen esels en makriel
die krip gesien en neergekniel.
Die skaapvet, eiers en biltong
nederig gelê voor God se klong
en die Here gedank in gesang en gebed
vir ’n kindjie wat ook dié volk sou red …….
Oor die hele affêre het uit ‘n hoek
‘n broeis bantam agterdogtig gekloek.
Canto di Natale
Tre vecchi di colore osservavano le stelle nell’alto Karoo e credettero all’angelo, presero i loro bastoni e tre fagotti e si avviarono lungo un sentiero degli sciacalli, seguendo quella cosa che riluceva muovendosi sulle baracche, sulle rocce, sulle fonti, sullo zinco e i sacchi del Sesto Distretto, dove arde una candela in una bottiglia rotta, e lì fra asini e pesce salato hanno visto la culla e si sono inginocchiati. Grasso di pecora, uova e biltong umilmente hanno posto ai piedi del bruno Figlio di Dio ed hanno ringraziato il Signore con canti e preghiere per il Bambino che salverà anche questo popolo ……. Da un angolo un gufo, emettendo il suo verso, ha osservato l’intera faccenda sospettosamente.
Professore di letteratura afrikaans all’Università di Stellenbosch dal 1960 al 1979, autore di drammi in versi e poesie.
Sotto l’apparenza di un canto natalizio, il poeta allude qui ironicamente ad una redenzione del tutto politica della gente di colore sudafricana.
Il Sesto Distretto è il famoso quartiere di colore di Città del Capo, abitato quasi esclusivamente da Kaapse Kleurlinge (Cape Coloureds), ossia da sanguemisti del Capo, originati da unioni di uomini bianchi con schiave malesi o Khoikhoi. Il biltong è carne di antilope tagliata a strisce e seccata, del tutto simile al pemmican degli Indiani d’America. Il gufo simboleggia la sospettosa sorveglianza del regime bianco ai tempi dell’apartheid verso tutte le manifestazioni della gente di colore.
Elisabeth Eybers
(Klerksdorp 1915 -)
Verhaal
’n Vrou het stil geword van baie wag:
die aarde het gegly deur die spiraal
van dag en nag, was beurtelings groen en val,
en sy het soms gehuil en soms gelag.
Ook was sy dikwels in die nag,
maar sy het in haar woning en op straat
gewoon gehandel en gewoon gepraat
en niemand het geweet hoedat sy wag.
Verlange word aanvaarding, langsaamaan,
want wag is beurtelings hoop en waanhoop, tot
die twee versmelt en stilte alleen bestaan.
En deur die jare sy self die slot
van die verhaal geword: haar stilte en krag
is skoner as die ding waarop sy wag.
Racconto
Una donna è divenuta silenziosa nella sua lunga attesa: la terra è scivolata attraverso la spirale di giorni e notti, or verde, ora pallida, ed ella a volte ha pianto, a volte ha riso.
Spesso vegliava nella notte, ma con calma indifferenza sia a casa che in strada si comportava e parlava, così che nessuno si rendeva conto di quanto l’attesa la tenesse perennemente in guardia.
I desideri divennero accettazione, a poco a poco, poiché l’attesa è di volta in volta speranza e disperazione, finché le due si fondono e resta solo il silenzio.
E di anno in anno ella stessa è divenuta la conclusione del racconto: il suo silenzio e la sua forza sono meglio della cosa stessa che sperava.
Poetessa afrikaans, anche se lei stessa ha tradotto alcune sue liriche in inglese. È stata giornalista. Nel 1937 sposò l’uomo d’affari Albert Wessels ed ebbe tre figlie e un figlio. Divorziata dal 1961, vive ad Amsterdam.
Questa poesia intimista è volta a celebrare la costanza femminile e il raggiungimento della pace interiore mediante l’autocontrollo, di fronte ad un’interminabile attesa (presumibilmente del mitico “principe azzurro”) che non produce alcun risultato.
Ina Rousseau
(Roodepoort 1926 – Kaapstad/Cape Town/Città del Capo 2005)
Eden
Staan daar nog in Eden êrens,
verlate soos ’n stad in puin,
met poorte grusaam voegspijker,
deur eeue die mislukte tuin?
Word daar nog die swoele dae
deur swoele skemering en nag vervang
waar donkergeel en purper vrugte
verrottend aan die takke hang?
Sprei daar ondergronds ‘n netwerk
soos sierkant deur die rotse heen:
die sware, onontgonne riwwe
van goud en onikssteen?
Vloei daar deur die natgroen struike
nog met kabbeling wat ver weerklink,
die viertal glasblink waterstrome
waarvan geen sterfling drink?
Staan daar nog in Eden êrens,
verwaarlos soos ’n stad in puin,
gedoem tot langsame verrotting
deur eeue die mislukte tuin?
Eden
Giace laggiù da qualche parte nell’Eden, deserto come una città in rovina, con porte sinistramente sigillate, attraverso le ere, quello sfortunato giardino?
Laggiù i giorni afosi sono ancor oggi seguiti da afosi tramonti e notti, in cui frutti giallo-scuri e porpora pendono marcendo dai rami?
Al suolo vi si diffonde una rete, come un pizzo sulle rocce, di pesanti, primitivi colli d’oro e onice?
Fluisce ancora laggiù, attraverso i verdi cespugli inzuppati con echeggianti mormorii, quel quartetto di cristallini ruscelli dai quali nessun mortale beve?
Giace laggiù da qualche parte nell’Eden, abbandonato come una città in rovina, condannato a lenta putrefazione attraverso le ere, quello sfortunato giardino?
Poetessa e autrice di racconti di origine francese ugonotta, studiò all’Università di Stellenbosch. Nel 1958 sposò il botanico Bob Noël, da cui ebbe un figlio. È rimasta vedova nel 1984. Non è molto prolifica come autrice. La sua poesia rivela una forte spinta all’unità, ed è piuttosto ripetitiva. Usa il concetto del giardino come tema centrale della sua opera. In questa poesia di sapore enigmatico, l’idea dell’Eden perduto viene eretta a simbolo della degradata condizione umana.
[1] La Chiesa cattolica si era sempre opposta a simili traduzioni, prevedendo che, mettendo la Sacra Scrittura a disposizione di tutti (non esclusi ambiziosi malintenzionati), ne sarebbero sorte infinite interpretazioni discordanti, divisioni ed eresie: esattamente ciò che accadde (le “chiese” e sette protestanti, grazie alla Bibbia disponibile a tutti e al “libero esame” di origine luterana, sono già oltre 16.000, e ne nasce praticamente una nuova ogni giorno). Il fanatismo persecutorio protestante, che considerava i cattolici “servi di un potere straniero” (quello del Papa), e affermava indispensabile la traduzione del sacro testo (peraltro pesantemente mutilato dal pregiudizio protestante), in modo da liberarsi della mediazione della Chiesa, è stato rimpiazzato da un totale indifferentismo: dopo aver smaniato tanto per poter leggere la Bibbia, quanti protestanti la leggono davvero?
[2] Ad esempio, in Giappone, le calunnie cominciarono con l’arrivo della prima nave mercantile olandese nel porto di Beppu, nell’isola di Kyushu, il cui capitano persuase lo shogun (reggente) Tokugawa Ieyasu della “pericolosità” dei cattolici (leggenda nera dell’Inquisizione, e così via). Ironicamente il nome della nave era Liefde (“Amore”). La comunità cattolica giapponese, fondata grazie agli sforzi di Francesco Saverio (approdato in Giappone nel 1549) e di altri eroici missionari gesuiti, contava nel 1600, anno dell’arrivo della “Liefde”, circa 300.000 anime. Fu un genocidio totale, condotto con crudeltà innominabili, nel quale testimoniarono la Fede col martirio anche molti missionari, soprattutto spagnoli, che rifiutarono la fuga per continuare a servire il gregge in clandestinità. I protestanti olandesi intervennero direttamente in appoggio allo sterminio, inviando nel 1637 (il medesimo anno in cui fu pubblicata la Staten Bijbel) una propria nave da guerra, la De Ryp, a bombardare per quindici giorni la fortezza costiera di Hara che era divenuta rifugio dei perseguitati durante la disperata insurrezione dei ronin (samurai indipendenti, non legati ad alcun feudatario, o daimyô) cristiani nella penisola di Shimabara. Frattanto, i mercanti olandesi, confinati nell’isoletta di Deshima nel 1636 dal governo dello shogun, svolgevano lucrosi commerci. Avevano avuto il permesso di costruirvi un magazzino, e il regime dello shogun aveva imposto che sulla soglia di esso venisse scolpito un Crocifisso, in modo che fosse continuamente calpestato entrando ed uscendo: i calvinisti olandesi non fecero alcuna difficoltà. La persecuzione in Giappone ebbe termine qualche anno più tardi solo per mancanza di “materia prima”, ossia di carne umana da massacrare.
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