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Emilio Biagini

 

L’EVANGELO VALTORTIANO

E LE SCIENZE NATURALI

 

Parte 2a

Geomorfologia e geografia

Di grande interesse geografico l’analisi delle piogge compiuta dal De Caro (2018), da cui risulta la perfetta concordanza delle osservazioni valtortiane ne L’Evangelo con i dati forniti dal Servizio Meteorologico Israeliano. In entrambi i casi si osserva la caratteristica curva a campana con il massimo delle precipitazioni tra dicembre e febbraio, conforme alle condizioni del clima mediterraneo.

Maria Valtorta delinea i paesaggi in modo assolutamente esatto e sorprendente, da autentica testimone oculare. Un esempio fra moltissimi: una descrizione di fantasia avrebbe nominato tutte e tre le grandi piramidi d’Egitto; la Valtorta ne vede una sola perché, dalla zona di Matarea, dove la Sacra Famiglia aveva trovato rifugio, la piramide di Cheope, più grande, nasconde quelle di Chefren e di Mykerinos.

Il pastore battista americano David J. Webster, convertitosi al cattolicesimo dopo aver studiato per sei anni l’Opera valtortiana, ha individuato 255 siti menzionati ne L’Evangelo e li ha elencati in una relazione dattiloscritta, diffusa nel 2004 e citata dal Lavère. Di questi 255, ben 79 sono sconosciuti nell’edizione del 1939 della International Standard Bible Encyclopedia. Tra questi 79, 62 non sono neppure citati nel Macmillan Bible Atlas del 1968 e 52 non appaiono nella Bibbia. Tuttavia 29 di questi sono stati autenticati successivamente grazie allo studio di fonti antiche e appaiono ora nell’edizione del 1989 dell’Harper Collins Atlas of the Bible.

Secondo Laurentin, Debroise & Lavère (2012), l’Opera valtortiana descrive con esattezza un numero ancor maggiore di località, circa 450, alcune delle quali ignote alla sua epoca e solo più tardi riscoperte dagli archeologi; dimostra una stupefacente conoscenza delle usanze e dei costumi vigenti in Palestina duemila anni fa, nonché della flora e della fauna, descrive il succedersi delle stagioni, le attività rurali e pescherecce nei loro esatti ritmi stagionali quali esistevano in Palestina nel primo secolo, fra l’altro spiegando dettagliatamente la misteriosa fabbricazione della porpora, e dimostra di conoscere i sistemi monetali, tutt’altro che semplici, vigenti in Palestina all’età di Gesù; dà 5000 indicazioni cronologiche e 230 descrizioni delle fasi lunari di incredibile precisione ma, come abbiamo visto, le conclusioni tratte da queste descrizioni astronomiche sono state corrette dal De Caro.

Il riferimento fondamentale per lo studio geografico e geomorfologico della Terra Santa al tempo di Gesù secondo gli Scritti della Valtorta è dato dalla carta, con relativa descrizione delle singole località, dell’ingegnere agronomo Hans J. Hopfen (2014). Le notazioni in questo campo sono numerosissime. Se ne elencano solo alcune.

Lazzaro, ammalato e costretto in casa, legge molto: conosce le sabbie mobili e la loro distribuzione: dice che ve ne sono in Siria, in Egitto e presso i Caldei (Cap. 84.5).

Parlando con Simone Zelote, Gesù dà una spettacolare descrizione della Galilea, descrivendo i colori cangianti dei monti nello scorrere del giorno, nelle diverse condizioni di luce (Cap. 85.2). Come poteva Maria Valtorta immaginare una descrizione così precisa?

I Corni di Hattin vengono descritti con assoluta precisione, e pure disegnati dalla veggente, come luogo del Discorso della Montagna (Cap. 169.1), e si trovano a 3 km dal luogo designato ufficialmente come monte delle Beatitudini, per evidenti motivi turistici e non unanimemente.

A Corozim Gesù mostra a Maria Valtorta lo sbocco del Giordano nel lago di Tiberiade, a Betsaida, e le spiega che oggi la città non è più in riva al lago come ai suoi tempi a causa dell’interramento del lago (Cap. 179.1):

Mi dice Gesù mostrandomi il corso del Giordano, meglio, lo sbocco del Giordano nel lago di Tiberiade, là dove è stesa la città di Betsaida sulla riva destra del fiume, rispetto a chi guarda il nord: “Ora la città non sembra più sulle rive del lago, ma un poco in dentro nel retroterra. E ciò sconcerta gli studiosi. La spiegazione si deve cercare nell’interramento del lago da questa parte, dovuto a venti secoli di terriccio depositato dal fiume e ad alluvioni e frane scese dai colli di Betsaida. Allora la città era proprio all’imbocco del fiume nel lago, e anzi le barche più piccole, e nelle stagioni più ricche d’acqua, risalivano per un buon tratto, fino a quasi l’altezza di Corozim, il fiume stesso serviva però sempre da porto e ricovero sulle sue rive alle barche di Betsaida nei giorni di burrasca del lago. Questo non è per te, alla quale poco importa, ma per i dottori difficili.”

Il lago di Genezaret, il cui nome deriva da Kinneret (arpa), ai tempi di Gesù era più esteso di oggi poiché, come tutti i laghi, tende ad insabbiarsi. La grande veggente scrive che verso nord lambiva Betsaida, mentre verso sudest raggiungeva gli strapiombi dell’altipiano orientale formando dei minuscoli “fiordi” (termine inesatto: i fiordi sono vallate sovraescavate da lingue glaciali; in questo caso si tratta invece di gole fluviali) allo sbocco dei torrentelli, verso sud si estendeva con una piccola baia poco profonda oltre il promontorio di Tarichea (Cap. 179.1). Ovviamente le imprecisioni nell’uso dei termini scientifici non toccano minimamente il valore della rivelazione valtortiana: lo scopo del Divino Maestro non era certo quello di tenere un corso scientifico.

La descrizione valtortiana del lago di Genezaret è confermata dallo studio geomorfologico: infatti lungo la riva sudorientale, al piede dell’altopiano, a oriente dell’odierna larga riviera che vi si trova, sono state rinvenute alcune pietre miliari romane, indicanti l’esistenza di una strada lungo la riva al lago situata ben più a oriente di quella attuale e quindi una maggior estensione del lago che, all’epoca di Gesù, doveva giungere a lambire i precipizi dell’altopiano. Movimenti tellurici (terremoti e bradisismi), frane, erosioni e relativi depositi alluvionali fecero retrocedere il lago presso Betsaida, emergere il suo alto fondale sudorientale, insabbiare la baia a sud di Tarichea e forse abbassare la sponda occidentale.

Il pellegrinaggio a Betlemme durante il secondo anno di vita publica, compiuto da Gesù con la Madre, il gruppo apostolico e le discepole (L’Evangelo, Cap. 207), rivela le straordinarie conoscenze della Valtorta: sulla via dalla tomba di Rachele alla Grotta della Natività i pellegrini passano davanti alle “macerie della torre di Davide”. Si tratta dei resti del palazzo fatto costruire da re Davide a Betlemme che cadde in rovina dopo l’esilio babilonese. Johann Nepomuk Sepp (1853-1862) ritiene che la stessa Grotta della Natività fosse parte delle rovine di tale palazzo. Per giungere alla Grotta, i pellegrini valicano un piccolo rio su una tavola che fa da ponte: il ruscello Oued El Djemel, ancora rilevabile sulle carte fino al 1860 e oggi scomparso. Dopo che Maria ha rievocato con parole commoventi la Nascita del Figlio, domanda a Gesù dove potranno mangiare, ed Egli risponde: “A Jala. È vicino”. Il villaggio citato è effettivamente a 3 km dalla Grotta e si chiama oggi Beit Jala. Si tratta di un luogo non menzionato neppure in tutta la Bibbia ed è umanamente inspiegabile come la veggente abbia potuto conoscerlo.

Nella costa di Ascalona la veggente descrive una baia oggi scomparsa (Cap. 218.1): “Una bella città marittima è a due buoni chilometri di distanza, stesa lungo la riva sulla scogliera semilunata (…)”. Oggi quella costa è sabbiosa e rettilinea, ma che in passato vi fosse una baia è storicamente accertato (Maspero 1903).

L’antica Jabnia, a nord della moderna Javne, aveva originariamente un suo porto omonimo sul mare, con il quale era collegata anche per via fluviale dal fiume Sorek, collegamento che venne meno con lo spostamento del letto del fiume verso nord nel suo ultimo tratto attraverso la pianura filistea (Capp. 222.1, v. Hopfen 2014, pp. 68-69).

Gesù parla della foresta pietrificata che ha visto in Egitto da bambino (Cap. 248.13-14, corsivo nel testo); e in effetti ve n’è una 17 km a sud-est di Matarea, luogo di esilio della Sacra Famiglia:

Potrei paragonare molta parte di Israele alle foreste pietrificate che si vedono sparse per la valle del Nilo e nel deserto egiziano (…)

(…) esse si sono non solo disseccate, come fanno le piante che, morte che siano, servono ancora per fare fuochi nei focolari dell’uomo, o dei roghi per illuminare la notte, tenere lontano fiere e cacciare l’umido della notte ai pellegrini lontani dai paesi. Ma queste non hanno servito come legna. Pietra sono divenute. Pietra. La silice del suolo sembra essere salita per un sortilegio dalle radici al tronco, ai rami, alle fronde. I venti hanno poi spezzato i rametti più esili divenuti simili ad alabastro che è duro e molle insieme. Ma i rami più robusti sono là, sui loro tronchi poderosi a fare inganno alle carovane stanche, che nel riflesso abbacinante del sole, o nella luce spettrale della luna, vedono profilarsi le ombre dei tronchi ritti sui loro pianori, o nel fondo delle valli che conoscono l’acqua solo nel tempo delle piene feconde e che, e per l’ansia di un rifugio, di un ristoro, di un pozzo, di frutti freschi, e per la stanchezza degli occhi abbacinati dal sole sulle sabbie senza riparo, si precipitano verso le foreste fantasma. Veramente fantasma! Illusorie apparenze di corpi vivi. Reali presenze di cose morte.

Io le ho viste. Mi sono rimaste impresse, per quanto fossi poco più che un pargolo, come una delle più tristi cose della Terra.

Il lago di Meron, di recente prosciugato per interventi di bonifica, era poco profondo, era attraversato dal Giordano da nord a sud, e si estendeva, ai tempi di Gesù, a sud fino alla via di Damasco, che ivi scavalcava lo sbocco del fiume con il cosiddetto ponte di Giacobbe, mentre col passare dei secoli si restrinse ritirandosi verso nord. La Valtorta lo descrive in un fosco giorno di pioggia, “tutto bigio e giallognolo per il fango di mille ruscelli e per il cielo novembrino pieno di nuvole” (Cap. 298.1-3).

Le miniere di piombo e le cave di marmo dell’Anatolia (Cap. 312.14), dove Giovanni di Endor era stato deportato per aver ucciso l’amante romano di sua moglie, sono storicamente ben attestate.

Spaventevole la descrizione del monte di Jiftael (Cap. 317.1-2), dove Gesù si ritira a pregare: sentiero terribile, quasi un graffio nella montagna, col rischio di precipitare, lacerandosi nei rovi, spezzandosi le reni contro i tronchi rigidi sporti sull’abisso, fino ad affogare nelle acque violente sugli scogli puntuti del torrente che scorre in fondo. Il sentiero finisce bruscamente per una frana. Sotto il balzo vi è una fessura che immette in una vasta grotta con un corridoio che trafora il monte e lascia intravedere in fondo una striscia di luce e un lontano apparire di boschi, percorso il quale si giunge a vedere i monti che contornano il lago di Galilea oltre la valle e in direzione nord-est splende il grande Ermon nella sua veste di neve. Una primordiale scaletta è scavata nel fianco del monte che qui non è così verticale, né nel salire né nello scendere, e questa scaletta conduce alla via mulattiera che è nella valle e anche alla vetta dove è il paese di Jiftael. Nella grotta, in un angolo, si vedono poche e piccole stalattiti dove forse è il punto più soggetto al lavorio delle acque interne (Cap. 317.3).

Il territorio intorno ad Aczib (Cap. 325.1) viene descritto dalla veggente allegando pure uno schizzo topografico, che ho provveduto a confrontare con la relativa carta geografica. Risultato del confronto: le località indicate sono presenti ma il disegno, ad esempio la linea di costa, appare assolutamente impreciso, sebbene non sia da escludersi che cambiamenti intervenuti in duemila anni abbiano modificato il litorale. Ma ciò che conta non è la precisione del disegno. Maria Valtorta stessa confessava la propria incapacità in materia. Quello che è straordinario è l’esistenza stessa di questo e di altri schizzi geografici simili: un’inferma inchiodata a un letto, per la quale sbirciare dalla porta finestra comportava fatica tremenda e dolore pressoché insopportabile, è tuttavia in grado di disegnare, in modo, per quanto approssimativo, di sicuro riconoscibile, la geografia di un luogo lontano migliaia di chilometri (es. la zona di Aczib), e ne traccia uno schizzo cartografico del raggio approssimativo di una trentina di chilometri, che per il teorema secante-tangente corrisponde ad un punto di osservazione alto una settantina di metri dalla superficie, come visibile da un aereo o da un elicottero. Non aveva carte geografiche, né tanto meno topografiche, della Terra Santa da copiare, e dichiara costantemente di disegnare quello che vede. Di simili, umanamente inspiegabili, disegni è costellata l’Opera. Anche la descrizione della zona di Ramot riportata sopra fa pensare ad una visione dall’alto, e non ad una che si potrebbe avere a livello del piano di campagna.

Il monte Hermon era probabilmente più alto ai tempi di Gesù (Hopfen 2014, p. 67), e si abbassò col tempo per effetto di erosione. La Valtorta ne fornisce uno schizzo al Cap. 339.6 de L’Evangelo.

La forma del Tabor è a cono semitronco (Cap. 349.2), che alla Valtorta ricorda la lucerna dei carabinieri vista di profilo.

Nella zona fra Hammatha e Gadara percorsa dal fiume Yarmuk (o Yarmoc, o Yarloc) affioravano sorgenti solforose. Gli accenni nell’Evangelo (Cap. 356.3) suggeriscono che da Hammatha a Gadara il fiume seguisse un corso più lineare rispetto ad oggi: avrebbe in seguito divagato formando meandri, secondo un ben noto processo geomorfologico tipico dei fiumi in pianura. Nell’attraversare il ponte sul fiume, la Valtorta avverte gli acri odori delle acque solforose delle vicine terme. Va notato che questo fiume non è neppure nominato nella Bibbia, ma solo nel Talmud, che ben difficilmente la Valtorta avrebbe potuto conoscere.

Il Carit è un affluente del Giordano. La Bibbia di Gerusalemme (Ed. Dehoniane, 1974) lo colloca ad est del Giordano, e quindi come affluente di sinistra. Al contrario, l’Evangelo valtortiano (Cap. 380.1), il Macmillan Bible Atlas (2011) e la tradizione segnalano il Carit a ovest del Giordano (quindi affluente di destra).

La Valtorta descrive correttamente il Mar Morto (Cap. 389.1), distinguendo con esattezza le due rive che umanamente non ha mai visto: quella occidentale che ha un piccolo spazio pianeggiante, e quella orientale con i monti che scendono quasi a picco nel bacino lacustre.

L’osservazione dell’attuale tracciato del fiume Giordano e delle curve di livello fa supporre che, ai tempi di Gesù, il fiume nel suo insieme scorresse più lineare e si riversasse nel lago Meron con un braccio solo e non con due, come avviene oggi, poiché allo sbocco in questo lago il fiume ha formato una diffluenza in seguito all’accumularsi dei detriti. Si deduce pure che all’altezza di Doco il fiume descriveva un “arco” (altra inesattezza terminologica; il termine esatto è meandro) molto più marcato dell’attuale (Hopfen 2014, p. 59). Vari corsi d’acqua scendono dagli altopiani erodendone le pendici. L’erosione vi si è molto accentuata per il diradarsi delle coperture boschive, con relative frane fino alla scomparsa di città antiche, fra le quali forse Jabes Galaad (Cap. 524.6). Sul versante orientale della valle i torrenti hanno eroso anche parte di un terrazzamento che si estendeva parallelo al Giordano con inizio nell’alto fondale sudorientale del lago di Genezaret, mentre si hanno emergenze verso sud formanti un pianoro sopraelevato intermedio tra il fondovalle e l’altopiano della Perea (Capp. 358.1, 360.1). La valle del Giordano è la sezione più settentrionale della vastissima fossa tettonica che continua verso sud nel Mar Rosso e nei grandi laghi dell’Africa orientale. La regione è sede di poderose spinte di tettonica distensiva che continuano tuttora ad ampliare la fossa del Giordano, con varie conseguenze nella morfologia superficiale, per cui non sorprende affatto se le descrizioni valtortiane non sempre coincidono con la realtà odierna. Lo sbocco dello Uadi Fara nel Giordano si trova oggi spostato di circa 7 km più a sud di quanto lo era all’epoca di Gesù, come si comprende dalla confluenza di alcune strade verso il traghetto di Adamah, oggi sostituito dal ponte Adamo (Hopfen 2014, p. 37).

Impressionante la geomorfologia della zona di Gofenà, dove si svolge il colloquio notturno di Gesù con Giuseppe d’Arimatea, Nicodemo e Mannaen: una profondissima gola nella roccia, come un corridoio roccioso e nudo. Vi è anche un altro corridoio roccioso ma chiuso in alto come un androne (Cap. 560.1).

BIBLIOGRAFIA

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DE CARO L. (2015) I cieli raccontano, vol. 2°, Prefazione di don Nicola Bux, Isola del Liri, CEV

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HOPFEN H.J. (2014) Indice e Carta della Palestina per “L’Evangelo come mi è stato rivelato” di Maria Valtorta, Isola del Liri, CEV, rist.

LAURENTIN R., DEBROISE M. & LAVÈRE J.-V. (2012) Dictionnaire des personnages de l’Évangile selon Maria Valtorta, Paris, Éditions Salvator

MASPERO G. (1903) History of Egypt, Chaldea, Syria, Babylonia and Assyria, London, Grolier

SEPP J.N. (1853-1862) Das Leben Jesu Christi. Regensburg, Manz, 2. Auflage, 6 Bände


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