Questa opera di Biagini riguardante le Isole Britanniche, già al solo primo impatto si potrebbe accreditare con l’aggettivazione di monumentale, non tanto per la mole dimensionale delle 1600 pagine che compongono i tre volumi, ma soprattutto per l’imponente massa di informazioni di tematica geografica, che, fornite con specifico e dettagliato indirizzo critico, rivelano l’apporto di una vasta cultura maturata nell’arco di una vita di ricerca e di studio.
Se si volesse documentare in maniera formale l’importanza di questo contributo sulla geografia delle Isole Britanniche basterebbe allora citare la circostanza che ne è stata pubblicata, cosa piuttosto rara per i geografi italiani, un’edizione inglese nel 2006, oppure sottolineare l’imponente bibliografia consultata e citata, ma così non renderemmo merito alla magistrale trattazione contenuta nell’opera.La vastità però di questa opera e le persistenti implicazioni argomentali, che si incentrano, per ogni tematica trattata, su varie discipline, non solo collaterali alla Geografia, ma spesso anche da essa autonome, interessano una parte così ampia dello scibile che richiederebbero una lunga e ben articolata dissertazione temporale su ciascuna delle tre parti in cui è suddivisa, per poterne mettere esaustivamente in evidenza le varie specifiche peculiarità.
Al fine allora di non dilungarmi eccessivamente su una così vasta serie di tematiche geografiche, ritengo opportuno prendere in considerazione unicamente il primo volume, in cui è prevalentemente trattata la parte geografico-fisica dell’opera, non tanto perché materia più consona alla mia disciplina di insegnamento universitario, ma soprattutto perché in questa esposizione argomentale vi si possono individuare e riconoscere specifiche particolarità, che rappresentano un’unicità nel panorama dei geografi italiani.
Questo primo volume, partendo dai caratteri fisici della Gran Bretagna, ne inquadra lo sviluppo storico evolutivo con una visione “non convenzionale”, e per di più controcorrente, della globalizzazione, che viene vista come un processo espansivo a cerchi concentrici e con diversi tipi di frontiera, che, partendo da Londra, include le varie periferie celtiche, sino a giungere, attraverso un processo di satellizzazione, all’attuazione di un vero e proprio impero mondiale.
A questa impostazione generale, in cui la parte geografico fisica e geologica descrittiva si inserisce, fa però riscontro un aspetto oltremodo singolare di trattare e presentare l’inquadramento di quei processi generali, che esplicandosi sul territorio, danno luogo alla sua conformazione, in quanto gli aspetti essenziali dei processi che vengono messi in evidenza presentano sempre una doppia chiave di lettura.
Nel tracciare, per esempio, gli essenziali aspetti geografici del territorio, vengono tracciati i lineamenti generali dei vari mezzi, atmosferico, idrosferico, litosferico e criosferico, che interagiscono nel sistema Terra per dar corso, con i vari processi di dinamica litosferica legati alla tettonica a placche, ai punti caldi, alle manifestazioni sisimiche ed ai vari ciclici geologici, ad un complesso coacervo di interazioni, che caratterizzano, con il loro evolversi nel tempo, la genesi delle Isole Britanniche. Ma in questo escursus, che sembra unicamente finalizzato ad una introduzione geografico-fisica e geologica esplicativa del territorio, in realtà al lettore vengono date una miriade sintetica di informazioni, che lo conducono necessariamente, senza accorgersene, a considerare l’aspetto generale delle forze endogene ed esogene come il vero motore della dinamica litosferica.
Biagini non si ferma, quindi, all’esplicazione dei fenomeni fisici, al solo carratere descrittivo, ma ne penetra il significo più autentico, per farne emergere la fenomenologia del processo attuativo.
Parimenti, nel descrivere le geologia delle Isole Britanniche, con la messa in evidenza con la successione cronologica dei terreni da NW (Precambriano antico) verso SE, fornisce specificazioni stratigrafico-geologiche sulla Scozia con particolare riferimento alla sua apprtenenza al margine continentale dell’oceano Giapetico, per cui il lettore viene portato, con le indicazioni precedentemente avute sulla tettonica delle placche, alla naturale considerazione dell’esistenza, nell’evoluzione geologica della litosfera, di un persistente e continuo succedersi di accorpamenti e frammentazioni delle zolle continentali.
Anche nel capitolo sul “catastrofismo ecologico”, quando richiama le problematiche del “buco dell’ozono”, della produzione dei freoni, dell’effetto serra, fornisce al lettore anche tutte quelle informazioni di supporto che gli consentono di formarsi una personale e più meditata opinione sull’apporto e partecipazione delle immissioni antropogeniche ai processi della dinamica atmosferica.
Un’altra analoga considerazione emerge anche anche quando viene trattata l’evoluzione geomorfologica del territorio, perché, dalla presentazione dettagliata dei processi di resistasia e di biostasia, vengono fornite al lettore tutta quella serie di importanti informazioni sulle modalità attualistiche che gli consentono così di inquadrare cronologicamente quella successione temporale di cicli pedogenetici che caratterizzano la complessa realtà fisica del territorio.
Questa sorprendente e particolare dicotomia esplicativa nell’illustrazione dei fenomeni fisici appare anche nella trattazione dei cambiamenti climatici pleistocenici, e, più in particolare, di quelli olocenici in quanto il lettore, accanto alle metodologie d’individuazione dell’entità e dei caratteri della variabilità climatica del passato ed attuale, perviene alla focalizzazione del concetto di teleconnessione con il supporto dei cicli della NAO, che, con le sue situazioni di blocco, conduce la dinamica atmosferica dell’area atlantica a passare da una circolazione zonale (venti occidentali) ad una circolazione meridiana, attuale causa della tropicalizzazione dell’area nediterranea.
Un carattere fondamentale ed essenziale di quest’opera di Biagini è però la meditata e voluta scelta di utilizzare come chiave di lettura dei processi di formazione ed evoluzione della società britannica il legame concettuale tra religioni e sviluppo delle civiltà. Questo aspetto è quello che più mi ha interessato, perché fornisce almeno ai cattolici come me, che per deformazione professionale hanno ormai acquisito come metro di giudizio l’osservazione galileana dell’analisi sperimentale, l’aspetto più accattivante, in quanto porta il lettore a considerare, anche sotto l’ottica scientifica, il Cristianesimo.
Questo mio esplicito interesse per la tematica religiosa puà anche ovviamente essere correlato alla circostanza di aver raggiunto quell’età canonica in cui ogni giorno può essere quello buono per lasciare questo mondo, ma nei cambiamenti strutturali della società come ben sottolinea Biagini, “Il problema religioso, comunque risolto, è ineludibile per l’uomo”, ed ancora “Se qualcuno pensa di comprendere qualcosa dello sviluppo storico, o della vita umana in genere, lasciando la religione fuori del quadro, non ha capito veramente nulla” perché “La religione è la chiave della storia”.
Fatta questa debita premessa, Biagini mette in chiara evidenza come le religioni o sono naturali, quindi in quanto fondate su mitologèmi o su paradigni ermeneutici o su paradigmi dogmatici, non sono sottoponibili a riscontro scientifico nella loro veridicità, o sono rivelate, come l’ebraismo e il Cristianesimo, di cui ricorda come la figura storica di Cristo sia testimoniata da atti documentari come i Vangeli canonici e persino i vangeli apocrifi e gnostici, che, pur essendo eretici, attestano comunque le figura storica di Cristo.
I vangeli sinottici, codici straordinariamente vicini all’evento, in quanto appunto sinottici, inducendo a ritenere una loro derivazione da un protovangelo (Vangelo Q) ancor più antico, portano la prova documentaria dell’esistenza di Cristo addirittura a pochi anni dalla sua morte, senza che da parte ebrea i grandi sacerdoti e gli anziani del popolo, che avevano voluto la sua ignominiosa crocefissione, abbiano prodotto o fatto produrre una documentazione di confutazione o di negazione di questa realtà storica. Il dato essenziale che emerge chiaramente al lettore è quindi che la religione cattolica è l’unica religione che proclama e reclama la storicità di quello che predica.
I vangeli canonici, supportati anche da 5500 codici neotestamentari (Papiri, Unciali, Minuscoli e Lezionari) di cui almeno un centinaio risalenti ai primissimi secoli del cristianesimo, quindi vicini all’evento, dicono che duemila anni fa è nato un Uomo, che disse di essere il Figlio di Dio, venne realmente ucciso e risuscitò tre giorni dopo la sua morte a fronte di testimonianze (più di 500 testimoni secondo Paolo, I Cor. 13, 3-8) i cui scritti datano tra il 50 e il 68 d.C.). Questo kerygma è semplicemente stravolgente, per cui starà al singolo individuo approdare o meno all’apoftegma di Tertulliano: “La Resurrezione proprio perché è impossibile, è certa”.
In conclusione questa prima parte dell’opera di Biagini, oltre a rappresentare una monografia fondamentale sui processi geologici e geomorfologici formativi delle Isole Britanniche, è anche un chiaro esempio di documentata visione globale delle problematiche inerenti la genesi di un territorio, in quanto vengono inquadrate nel più generale aspetto della dinamica evolutiva del sistema Terra lasciando però, nello stesso tempo, compiutamente esplicati al lettore l’attuarsi dei singoli fenomeni fisici e del loro coacervo di interazioni.
Questa opera di Biagini è quindi più di una importante pubblicazione, in quanto assurge a rappresentare una mirabile sintesi geografica tra specifiche realtà territoriali e attuative della civiltà umana, non tralasciandoi mai i veri valori morali ed etici di riferimento nel rapporto dell’uomo con l’ambiente, per cui ritengo che il miglior modo di concludere questa mia recensione sia ancora il richiamo alle parole di Biagini: “Bisogna avere il coraggio di guardare il fondo dell’abisso nel quale l’ideologia dominante, ammantata di buonismo ecologista, ci sta conducendo”.
Gian Camillo Cortemiglia
Ordinario di Geografia fisica
Facolta di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali,
Università di Genova
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RECENSIONE DI GUIDO MILANESE
Una lettura di quest’opera affidata ad uno studioso di altre discipline rispetto a quelle professate dall’autore può rivelarsi utile perché l’interesse del volume consiste appunto non, banalmente, nel suo essere “interdisciplinare” (affermazione che è spesso una comoda scusa per giustificare la superficialità) ma nel collocare in sistema un ventaglio di competenze assolutamente non comune in un tempo di specialismi sempre più ferocemente autoreferenziali (1). Dire che si tratta di un libro di storia della cultura è una definizione ragionevole, ben radicata nelle discipline praticate dall’autore. Insomma, domande diverse che rivelano la radice in una domanda comune, che è infine la dimensione storica (almeno per il presente lettore) (2), “ambiente” come spazio dell’uomo, “sviluppo” come concetto chiave che si oppone alla banalizzazione del “progresso” come chiave di lettura, consolantemente rettilinea, della storia, “conflitto” come luogo del rivelarsi delle tensioni ed emergere di spinte nuove: questi sembrano i concetti chiave del testo.
Ho volutamente usato la parola “testo”, intendendo richiamare il “libro di testo”; e in effetti diverse sezioni dell’opera rivelano un’origine (e anche una destinazione) di tipo didattico (3). Ma non si tratta di un male, sibbene di un modo di rivelarsi della vocazione “unitaria” del Biagini, che si manifesta in capitoli apparentemente ‘digressivi’, quali quello sulla diffusione del Cristianesimo (I vol., pp. 468 sgg): come interpretare fatti come la distruzione dei monasteri, per esempio, senza capire le ragioni del vero e proprio odio antimonastico degli ambienti protestanti anglicani? sicché l’opera si presenta insieme come manuale e come “libro della vita” – il libro, che qualunque vero studioso prima o poi scrive, nella quale si condensa una visione del mondo e della propria disciplina: basti pensare ad esempio a Storia della tradizione e critica del testo del Pasquali, un’altra opera a suo modo “monumentale”, insieme sommamente didattica e sommamente scientifica.
L’Inghilterra, i fatti, le ideologie
C’è una tensione che si avverte pervadere tutta l’opera, ed è una tensione che conosce chiunque ami l’Inghilterra ma non voglia rinunciare ad amicus Plato, sed magis amica veritas – amore per l’Inghilterra e una sottile rabbia. L’isolazionismo come tratto costitutivo della mentalità britannica, il sentirsi alla fine estranei all’Europa – insomma i tratti costitutivi della mentalità anglicana, sono tutte caratteristiche “diffuse” nel mondo inglese; e la diffusa identificazione dell’Inghilterra con il concetto di democrazia va solo in parte accettata, come appare bene dall’opera di Biagini e come, con sofferenza, tutti coloro che sono legati all’Inghilterra ma senza chiudersi di fronte alla storia debbono ammettere. Pervade il libro una evidente volontà di ricondurre il lettore ai fatti, spesso ignorati dalla storiografia inglese: particolarmente convincenti, per uno studioso del mondo antico quale chi firma queste righe, sono le considerazioni (vol. I, pp. 295 sgg.) sul periodo della civiltà romana in Inghilterra: come osserva Biagini, non è possibile accettare il concetto di “occupazione romana” (4) come unico modus interpretandi di secoli di storia, la cui traccia di civiltà rimase attiva fino al Medioevo, nonostante le invasioni che alla civiltà romana assestarono colpi violentissimi.
Religione, storia, interpretazione
Accennavo prima ai monasteri distrutti, la “Dissolution of the Monasteries” voluta da Enrico VIII e richiamata anche in copertina del I volume. Questo tema, sviluppato in modo assai approfondito dal Biagini, riporta ad una delle radici di ispirazione dell’opera, ossia il ruolo della religione nella comprensione della storia. Il laicismo riduzionista, che (sulle orme, certamente non riconosciute perché assorbite dai luoghi comuni della cultura contemporanea) afferma appunto la riduzione della religione a puro fatto privato, come tale socialmente irrilevante e privo di qualunque impatto sulle modalità di vita reale delle persone, è, prima che una scelta inaccettabile per la costruzione della civiltà contemporanea, anche una vera e propria automutilazione per lo storico. Mi sembra in Biagini evidente l’influenza proprio di intellettuali inglesi: Dawson è citato, ed è un piacere assistere oggi ad una certa riscoperta delle opere di questo studioso messo sostanzialmente al bando in Inghilterra e che trovò non a caso solo ad Harvard (quindi nel più “neutro” ambiente americano) un riconoscimento accademico, sia pur tardivo (5).
Dawson mi sembra il nume tutelare dell’opera di Biagini, insieme ad un altro grande autore, non citato, ma che lentamente approdò a risultati non diversi da quelli di Dawson stesso – intendo riferirmi all’americano anglicizzato Thomas S. Eliot. Se in “What is a Classic” il Medioevo è del tutto assente, certamente all’influenza di Dawson (criticato in parte, ma comunque citato con rispetto) si deve la scoperta del Medioevo come “luogo della civiltà cristiana” che appare evidente in “The idea of a Christian society”. Alla fine, in tutto questo percorso intellettuale degli inglesi “di opposizione” alla prestigiosa storiografia dominante (per usare un aggettivo ironicamente impiegato dal Biagini) appare, sotto sotto, la figura di Newman: il senso dell’itinerario intellettuale di Newman è, al di qua della componente strettamente religiosa e teologica, un immane sforzo di consapevolezza storica, che riporta l’Inghilterra alle sue vere radici europee, interrompendo una finzione isolazionistica tanto diffusa quanto ingannevole.
E, al fine, non è proprio qui il senso di una riflessione sul concetto di “sviluppo”? Biagini aveva già studiato sul piano teorico questi problemi molti anni fa (ad es. in “Stadi di sviluppo: una formulazione teoretica”) ma la realtà dell’analisi storica rende ulteriormente impossibile una accettazione passiva del concetto semplicistico di “progresso”. Non c’è, nell’atteggiamento un po’ aggressivo di Biagini, una spinta ideologica, ma semplicemente la reazione dell’uomo di scienza di fronte alla falsificazione e alla costruzione di castelli di carte. Giacché un fondo di positivismo “sano” si avverte in quest’opera: i fatti, poi le teorie. Per restare in ambito britannico, quest’opera sembra una confutazione de facto della pretesa opposizione tra le “due culture” (6) la cultura è una, e un lavoro di forte umanesimo come questo costituisce, di questo convincimento, una prova sicura.
Note
(1) EMILIO BIAGINI, Ambiente, conflitto e sviluppo. Le Isole Britanniche nel contesto globale. Genova, ECIG, 2a ed. 2007. Anche se si tratta di dettagli esteriori, non sarà inutile ricordare che il Biagini è laureato in Scienze naturali, Scienze biologiche e in Geografia.
(2) Il rapporto tra “storia della cultura” e “storia” come dimensione unificante appare molto bene dal libro, divulgativo ma denso, di MARTA SORDI, Alle radici dell’Occidente. Genova, Marietti 2002.
(3) Della prima edizione dell’opera è stata realizzata una sorta di editio minor in inglese, ridotta a circa 150 pagine: EMILIO BIAGINI, Rule Britannia: the wielding of global power. Halle, Projekte-Verlag 2006.
(4) Può essere interessante notare che l’espressione “Roman occupation” è usata anche nella enciclopedia divulgativa per eccellenza di oggi, Wikipedia: cfr: http://en. wikipedia.org/wiki/Roman_Britain. Una piccola ricerca eseguita su una delle principali banche dati di articoli scientifici, Jstor, ha identificato 1870 casi di uso dell’espressione. Se ho visto bene i primi studiosi che adoperarono questa espressione come titolo di un’opera furono Francis Haverfield e Andrew Lang, ambedue all’inizio del Novecento. Andrew Lang (il notissimo scrittore e poligrafo scozzese, 1844-1912) dedicò appunto alla storia della Scozia fino alla “Roman occupation” il primo di una serie di volumi sulla storia scozzese; Francis Haverfield (1860-1919) era professore di storia antica a Oxford ed era parzialmente di scuola tedesca.
(5) Christopher Henry Dawson (1889–1970) è noto al pubblico italiano per la recentissima riedizione dell’opera (forse minore ma interessantissima) “La religione e lo stato moderno”. Il suo lascito scientifico è imponente, sicuramente eccessivo per quantità – non tutte le sue opere sono di uguale livello, ovviamente – ma ricchissimo di suggerimenti per ogni posizione culturale non conformista.
(6) CHARLES PERCY SNOW, The two cultures: a second look. Cambridge, Cambridge University Press 1969.
Riferimenti bibliografici
EMILIO BIAGINI, Stadi di sviluppo: una formulazione teoretica (Stages of Development: A Theoretical Formulation). “Rivista geografica italiana”, 89 1982, 332–346.
EMILIO BIAGINI, Rule Britannia: the wielding of global power. Halle, Projekte-Verlag 2006.
EMILIO BIAGINI, Ambiente, conflitto e sviluppo. Le Isole Britanniche nel contesto globale. Genova, EC.I.G., 1a ed. 2004, 2a ed. 2007.
CHRISTOPHER HENRY DAWSON; PAOLO MAZZERANGHI (ed.), La religione e lo stato moderno. Crotone, D’Ettoris Editori 2007.
THOMAS S. ELIOT, The idea of a Christian society. London, Faber & Faber 1954.
THOMAS S . ELIOT, What is a Classic. In “On Poetry and Poets”. New York, The Noonday Press 4 1966, 52–74.
GIORGIO PASQUALI, Storia della tradizione e critica del testo. Firenze, Le Monnier 1952.
CHARLES PERCY SNOW, The two cultures: a second look. Cambridge, Cambridge University Press 1969.
MARTA SORDI, Alle radici dell’Occidente. Genova, Marietti 2002.
Guido Milanese
Ordinario di Latino
Università Cattolica di Milano
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LA REALISTICA TEORIA DELLO SVILUPPO
E LE MITOLOGIE INTORNO AL PROGRESSO:
RECENSIONE DI PIERO VASSALLO DE
“LE ISOLE BRITANNICHE NEL CONTESTO GLOBALE”
Concepita come testo universitario, la monumentale opera di Emilio Biagini (Ambiente, conflitto e sviluppo: Le Isole Britanniche nel contesto della globalizzazione, 3 voll., E.C.I.G., Genova, 2007, 2a ed.) si rivela specialmente utile a quanti, per evitare la vana rincorsa delle mitologie intorno al progresso, intendono conoscere le leggi che condizionano lo sviluppo.
La nozione di progresso, infatti, è il risultato di quella famosa e ormai screditata speculazione ottocentesca, che ha concepito la storia come il fatale movimento dell’assoluto immanente, la caricatura della divinità, intesa a perfezionare e realizzare se stessa attraverso una vicenda feroce, che si svolge usando l’umanità come uno strumento vile.
Il mito del progresso, già infamato dai crimini compiuti dai suoi banditori durante il secolo sterminato, è ora confutato da alcuni studiosi appartenenti all’area cattolica, Cornelio Fabro, Giovanni Reale, Enrico Berti e Luigi Ruggiu, che sono stati protagonisti della rivoluzione (censurata e silenziata ma non domata dai poteri forti) che hanno dimostrato la stretta dipendenza dell’immanentismo dalla superstizione pagana.
Giovanni Reale e Luigi Ruggiu, dopo aver approfondito le tesi di Werner Jaeger sul rapporto tra mythos e logos nella tradizione eleatica, hanno sostenuto concordemente che l’attenta lettura del poema parmenideo svela una forte dipendenza dai misteri della grande madre, ai quali l’Eleate era stato iniziato in gioventù (vedi l’introduzione di Giovanni Reale a: Parmenide, Sulla natura, Bompiani, 2001).
Sennonché l’immanentismo mitologico adottato da Parmenide dovette confrontarsi con i dati sensibili, che obbligano a convenire con l’irriducibile principio di realtà. Principio che ultimamente Cornelio Fabro aveva ripensato e riformulato alla luce del tomismo essenziale.
Secondo l’aggiornata formula di Fabro l’universo fenomenico, rivela una verità contraria a quella di Parmenide: “L’essere diviene e il divenire ha realtà di essere, dunque la realtà dei molti e del divenire è la novità dell’essere”.
Per “salvare” la “sacra” verità del mito, la fantasia di Parmenide tentò di smentire l’evidenza dell’essere che diviene, immobilizzando la fluida realtà delle cose nel bronzo eterno di un’unica, immobile sostanza. Infine dovette respingere nel regno dell’opinione ingannevole il molteplice che si manifesta prepotentemente ai sensi.
Simile all’uovo del cuculo, l’obliqua immaginazione iniziatica insinuò fra le righe del rigore filosofico greco una scheggia irrazionale che rimase incognita fino all’avvento della rivoluzione tomista.
Solo la dipendenza da un’accecante superstizione può spiegare l’enormità della sfida lanciata da Parmenide e da tutti i suoi seguaci immanentisti contro l’evidenza.
Nel fondamentale saggio sulla partecipazione in San Tommaso, Fabro ha chiarito quale fu il riverbero paralizzante della gnosi eleatica sulla filosofia non riscattata dall’innovazione tomista: “L’astrattezza e il formalismo, che consistono nel considerare il pensiero dell’essere mediante l’appartenenza necessaria ovvero analitica, mentre in realtà l’essere, la verità dell’essere che all’uomo è accessibile è e non può essere originariamente che di natura sintetica, perché essa si dà e si manifesta nell’ecstasi o libera uscita della creazione divina il cui segreto rimane nascosto in Dio”.
A conferma della tesi di Fabro sull’universale effetto incapacitante del mito eleatico, uno fra i più autorevoli studiosi di Aristotele, Enrico Berti, ha recentemente riconosciuto che a malgrado delle contrarie apparenze, la filosofia dello Stagirita non ha mai attinto le verità della metafisica (vedi il saggio di Enrico Berti in Aa. Vv., “Aristotele e l’ontologia”, Albo Versorio, Milano).
San Tommaso riuscì a liberare la metafisica dall’incantesimo eleatico affermando che la filosofia inizia dalla considerazione dell’ens e non dall’intuizione del puro essere. Nell’ecumene catttolico, di conseguenza, il pensiero cattolico avanzò nella via dell’accordo con la fede.
Purtroppo, alle soglie dell’età moderna, in Inghilterra, l’immaginazione iniziatica, ridestata e confortata dall’esorbitante debolezza della scolastica occamista, s’impossessò nuovamente della filosofia, trascinandola nelle drammatiche avventure del luteranesimo, quindi nel delirio ideologico, illuminista, idealista, positivista, marxista, nazionalsocialista, nichilista.
La rivolta occamista contro la filosofia adottata dalla Chiesa romana manifesta la sotterranea ma puntuale coincidenza della cultura inglese con la mitologia progressista. Dal rigetto della tradizione cattolica, l’Inghilterra ebbe, infatti, il titolo e i mezzi necessari a conquistare la “dignità” di nazione guida dell’apostasia moderna.
Nell’esemplare vicenda britannica, il legittimo programma sviluppista appare inquinato dalla vocazione profana della monarchia, che, come ha dimostrato Francis Yeats, usò le teorie di Bacone sulla sapientia veterum e il mito neopagano di Astrea per accentuare l’indirizzo anticattolico del suo potere.
In una prima fase la monarchia inglese avanzò la pretesa di spadroneggiare nella Chiesa cattolica (onde il martirio del renitente San Thomas Beckett), in seguito assecondò la dissoluzione del tomismo (onde il primo incentivo all’assolutismo teorizzato dall’occamista padovano Marsilio, quasi preambolo all’apostasia di Enrico VIII), promosse la guerra dei pirati contro le nazioni cattoliche, tollerò l’ateismo hobbesiano e la conseguente negazione del diritto naturale. Infine incensò gli “illuminati” distruttori della filosofia, Hume e Locke.
Biagini pur apprezzando il contributo alle conquiste della scienza moderna che hanno infine migliorato le condizioni di vita dei popoli, rammenta che il regno britannico non esitò a usare la forza della scienza e il peso del denaro accumulato disonestamente per estendere un impero fondato sull’umiliazione dei popoli soggetti. Come dimostra la storia dell’influenza britannica nei risorgimenti italiano e prussiano e/o la turpe vicenda della guerra dell’oppio.
Sennonché il potere dell’ecumenismo antiromano declina insieme con il fascino della filosofia che lo ha alimentato.
L’insorgenza del pensiero debole, l’implosione dello scientismo, la devastante pressione della lobby ecologista, oltre alla circolazione delle novità introdotte da alcuni accreditati ricercatori cattolici, hanno finalmente scalzato le radici filosofiche dell’apostasia moderna, stabilendo che i miti pagani sono la vera e unica fonte di tutte le filosofie dell’indirizzo immanentista.
Una volta accertato che l’immanentismo e il naturalismo nascono nei luoghi della superstizione pagana, l’ideologia che affermava il carattere rigorosamente scientifico del progressismo è automaticamente liquidata. L’alone scientifico si dissolve. I pensieri irriducibili alla verità della metafisica sono consegnati al vortice del relativismo e al suo esito nichilista.
Il primato civile, che la passione anticattolica aveva consegnato all’Inghilterra moderna e alla sua discendenza americana, è destinato a un declino inarrestabile. Sulla fluida scena del mondo sta irrompendo una concorrenza curiosamente costituita da popoli che in passato hanno sopportato il peso dell’egemonia inglese, India, Cina, Brasile.
È dunque giustificata la censura dell’idea di progresso conforme al mito neopagano di Astrea e il conseguente uso del termine sviluppo, che Emilio Biagini definisce puntualmente “cambiamento strutturale innovativo della società e dello spazio da essa occupato e usato”.
Ora la confutazione della mitologia progressista interpretata dalla storia inglese, disarma l’argomento principe dei polemisti anticristiani, secondo i quali la nozione di trascendenza sarebbe fomite di oscurantismo e di evasionismo e perciò ostacolo al luminoso cammino dell’assoluto immanente verso la pienezza di sé.
Una volta che si è accertato che l’assoluto immanente è un legno di ferro concepito dalla fantasia mitica degli antichi e spacciato dall’ostinazione atea dei moderni, l’obiezione contro la trascendenza di Dio non ha più significato. Cade l’impalcatura sofistica elevata a sostegno della mitologia intorno alla fatalità del progresso orizzontale. E s’impone la necessità di una drastica revisione della filosofia della storia, in altre parole la necessità di sostituire l’immagine irrealistica del progresso impersonale e necessario con la nozione realistica di uno sviluppo attuato dalla creatività e dalla libertà dell’uomo.
Biagini ha, infatti, compiuto l’impresa di rovesciare gli argomenti polemici dei progressisti nell’elenco puntuale dei contributi della religione cristiana alle innovazioni, che hanno avviato uno sviluppo conforme all’indeclinabile dignità della persona umana.
Indispensabili alla liberazione delle risorse umane furono, anzi tutto, il sacro rispetto per la persona umana e la conseguente demistificazione della fumosa teologia naturalistica: “Il Cristianesimo pose fine alla divinizzazione della natura propria del paganesimo, aprendo la via alla manipolazione della natura stessa da parte dell’uomo senza le superstiziose paura di offendere le divinità gelose e maligne che popolavano il pantheon pagano”.
Analogo fu il contributo della morale cristiana, che rivelò la natura viziosa dell’otium e riconobbe la dignità del lavoro.
Biagini rammenta che “diretta conseguenza di questo positivo atteggiamento [fu] il contributo diretto della Chiesa cattolica. In particolare l’apporto di civiltà del monachesimo fu assolutamente essenziale”.
Decisivo fu anche il contributo dell’indirizzo anti-intellettualistico della logica cristiana. Al proposito Biagini cita la geniale opera di Giovanni di Salisbury e afferma che “Difficilmente la scienza moderna avrebbe potuto nascere senza questa preparazione dell’Occidente alla disciplina intellettuale e alla comprensione della razionalità dell’universo: una disciplina fondata sulla fiducia nella capacità dell’intelligenza umana di investigare e di comprendere quanto la circonda, ben lontana dal fatalismo orientale che è invece scuola di staticità sociale”.
Naturalmente Biagini evita di tradurre l’ideologia manichea, contemplante il Grande Nemico cattolico, in un’ideologia di preteso indirizzo cattolico.
Non avrebbe senso ribaltare la dialettica progresso-oscurantismo in una speculare dialettica sviluppo-sottosviluppo. Biagini, infatti, non ha difficoltà a riconoscere i contributi allo sviluppo provenienti da personalità appartenenti all’apostasia moderna.
Il risultato che la sua opera si propone è indicare le linee di una strategia civile intesa a impedire che le generiche ragioni dello sviluppo entrino in conflitto con i diritti della persona umana.
È stata questa l’anomalia del progressismo: anteporre l’astratto risultato della storia — l’inumano bene della causa denunciato da Solzenicyn — al bene delle persone concrete.
Rovesciata la scala dei valori cristiani la storia progressista si è inoltrata nella via degli olocausti consumati per ottenere un risultato. Olocausti ora compiuti come sacrifici alla Dea Ragione (l’olocausto vandeano, ad esempio), ora in nome del profitto (l’olocausto strisciante causato dallo spietato governo della rivoluzione industriale e l’olocausto vero e proprio consumato dai belgi nel Congo), ora in vista del paradiso in terra, ora in funzione della razza ariana.
Il sangue delle vittime ha sommerso la memoria delle ideologie ispirate dalla mistificazione progressista. L’unico futuro oggi pensabile ha il colore dello sviluppo a misura di uomo.
Piero Vassallo
Emerito di Storia della Filosofia
Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale
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AMBIENTE, CONFLITTO E SVILUPPO
di Emilio Biagini (Genova. Ed. E.C.I.G., 2a ed., 2007)
Recensione di Maria Vittoria Cascino
Il Giornale
Tre volumi per raccontare la geografia nella convergenza degli studi naturalistici e antropici attraverso l’analisi paradigmatica che il professor Emilio Biagini mette a punto in “Ambiente, conflitto e sviluppo. Le Isole Britanniche nel contesto globale”.
Un’opera che si propone obiettivi didattici presentando e applicando i concetti chiave della geografia e mostrando lo studio di una regione non fine a se stesso, ma strumento di interpretazioni di processi più vasti. Dieci capitali in tutto per tre volumi, di cui il primo è centrato sulla teoria dello sviluppo, mentre il secondo sull’ambiente fisico delle Isole Britanniche, diventa una summa dei principali concetti di geografia fisica. I capitoli dal terzo al settimo e il nono presentano lo sviluppo delle Isole Britanniche fino ad oggi, senza trascurare cenni sulla diffusione globale della cultura anglosassone e del suo sistema socio-economico. Il decimo esamina gli aspetti principali della società contemporanea, mentre l’ottavo, dedicato alla geografia urbana, prende in esame un certo numero di città significative.
Uno studio puntuale frutto di una vita dedicata allo studio della lingua inglese iniziata nel ’54 e di ricerche in Paesi legati all’impero britannico a partire dal ’70, che consente a Biagini un approccio globale fondato su tre parole chiave: ambiente, conflitto e sviluppo. Con ampio spazio al concetto di sviluppo, da non confondersi con progresso (e il mito connesso) a crescita (a livello quantitativo). L’autore lo enuclea in un processo globale che comprende l’esistenza umana nei suoi aspetti sociali, culturali e religiosi. Ecco l’approccio altro ad una materia tirando dentro il problema religioso che “è ineludibile per l’uomo e ha un impatto profondissimo sul tipo di società e cultura. La religione è matrice della mentalità di ogni popolo e quindi base della sua civiltà”.
Poi la necessità di rivalutazione dell’ambiente fisico che diventa una sorta di integrazione fra le variabili fisiche e quelle antropiche, e proprio le Isole Britanniche offrono lo scenario ideale per analizzare gli elementi in relazione. L’Arcipelago conserva infatti traccia di quasi tutti i periodi geologici: è la culla della Rivoluzione Industriale; qui nacque l’archeologia stratigrafica utilizzata per la prima volta nel 1700 nello studio dei forti preistorici. Qui si formò anche lo scientismo, la fede nella scienza come unica fonte di conoscenza, e la compresenza di nazionalità differenti fu fonte di conflitti contro gallesi e scozzesi prima, e verso l’Irlanda e il resto del mondo poi. Che rese l’inglese lingua franca del mondo.
Biagini non dimentica che le Isole hanno donato alla Chiesa grandi Santi, mentre “la Riforma Protestante fu particolarmente distruttiva. Senza contare che la massoneria nacque a Londra ed estese la sua influenza nel resto del mondo”.
Allo scandaglio dell’autore anche “il potente controllo anglosassone sui mezzi di comunicazione di massa, dai giornali, fino alla radio, televisione, internet, che fa sì che i punti di vista e la visione della storia di marca protestante anglosassone trovino fortissimi sostegni e riescano ad imporsi quasi ovunque”.
Ecco quindi un’opera che non è semplicemente un libro sulle Isole Britanniche, ma un esempio per sviscerare la metodologia di studio della geografia vista come trasformazione dei sistemi spaziali nel corso del tempo. Il rischio per l’autore e i lettori? “Restare abbagliati e intimiditi dallo sbarramento di parole e silenzi del potere culturale, che ha frammentato il sapere in orticelli specialistici dove si perde la visione d’insieme. Non si cerca la luce, ma l’opinione”. Biagini salta i rigidi steccati baronali, scava e relaziona, perché tutto torni in un approccio mentale aperto allo studio del particolare per decodificare il globale.
Ambiente, conflitto e sviluppo. Le Isole Britanniche nel contesto globale (tre volumi, 522 pagg., 525 pagg. e 348 pagg., non vendibili separatamente) di Emilio Biagini, Edizioni ECIG, 40 euro per i tre volumi.
Maria Vittoria Cascino
Il Giornale
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RECENSIONE DEL VOLUME
“RULE BRITANNIA. THE WIELDING OF GLOBAL POWER”
(HALLE, PROJEKTE VERLAG, 2006, 145 PP.),
PUBBLICATA SULLA RIVISTA GEOGRAFICA ITALIANA,
ANNATA CXIV, FASC. 3, SETT. 2007, PP. 460-461
Una lettura non convenzionale della globalizzazione, così può definirsi questo saggio (il cui titolo suonerebbe in italiano Governa, Britannia. Il controllo del potere globale) che ha il non trascurabile pregio di venir pubblicato all’estero, caso piuttosto raro per un geografo italiano.
Si tratta della sintesi di un’opera ben più vasta — 3 volumi per quasi 1.600 pagine — uscita nel 2004 per le edizioni Ecig di Genova (Ambiente, conflitto e sviluppo: Le Isole Britanniche nel contesto globale, € 40), sintesi che risulta più armonica e di facile lettura, anche se al prezzo di rinunciare ad una massa imponente di informazioni di dettaglio che nel loro insieme avvalorano le tesi sostenute. L’A. confessa di averci lavorato dieci anni, ma tutto sta ad indicare che si tratta del risultato di ricerche durante ventitré anni, e dunque siamo di fronte al lavoro di una vita.
Le tesi proposte sono non solo originali ma decisamente controcorrente e dischiudono prospettive nuove al ricercatore. Biagini inquadra la globalizzazione in un vasto movimento evolutivo che muove a cerchi concentrici a partire dall’Inghilterra (meglio ancora da Londra) per includere via via le periferie celtiche — Galles, Cornovaglia, Irlanda, Scozia — il nascente impero extraeuropeo e, attraverso la “satellizzazione” alternata dei paesi continentali giunge allo stabilimento di un vero e proprio impero mondiale. Una costruzione che sin dagli inizi trova il suo fondamento nell’economia e passerà sotto la gestione degli Usa a partire dalla I guerra mondiale.
La trattazione è prevalentemente di tipo geostorico, essendo sacrificati i riferimenti alle teorie dello sviluppo che l’A. ha affrontato con diversi scritti tra gli anni ’60 (sic, in realtà ‘70) e ’80. A questi precedenti è però necessario rifarsi per comprendere la prospettiva adottata nell’analisi, che individua una espansione attraverso tipi di “frontiere”.
Si inizia con la presentazione fisica della Gran Bretagna, un’isola “naturalmente” vocata al predominio, nonostante le numerose invasioni da essa subite. Ne vengono ricordate quattro: quella romana, anglosassone, danese, normanna. Una volta espulsa dal continente con la guerra dei Cent’anni, avrà inizio il processo a cui Biagini dedica la parte sostanziale del lavoro.
Una caratteristica fondamentale è la scelta di utilizzare il legame concettuale tra le religioni e lo sviluppo delle civiltà quale chiave di lettura dei processi che conducono all’attuale società post-industriale attraverso l’affermarsi del “potere globale anglo-sassone”. Da qui una rimeditazione che parte dalle modalità e dalle conseguenze dello “scisma d’Inghilterra”. Uscita dalla perifericità geografica con la scoperta dell’America, sotto i Tudor l’Inghilterra si oppone alla visione geopolitica fondata su una comunità universale (“cattolica”) di stati, per appoggiare strenuamente l’ideologia nazionalista. Da strumento di dominio interno, questa verrà dapprima utilizzata per assumere il controllo delle Isole Britanniche e quindi costantemente riproposta all’esterno come mezzo per dividere e quindi indebolire i potenziali concorrenti all’egemonia mondiale.
Vediamo così la Gran Bretagna non solo combattere spagnoli e francesi, ma anche appoggiare la divisione del grande stato dei Paesi Bassi uscito dal Congresso di Vienna. Appoggiare quindi la distruzione del Regno delle Due Sicilie e l’unificazione di Italia e Germania in funzione antiaustriaca e contemporaneamente antifrancese. Per poi impegnarsi a puntellare in ogni modo l’impero turco, contrastando la nascita della Grecia indipendente, in una prospettiva che va ben oltre alla ostilità nei confronti della Russia zarista. Sul piano economico, Biagini rileva altri aspetti importanti, quali l’appoggio all’industrializzazione del Belgio, della Germania e perfino dell’Italia, di contro all’ostilità verso i Paesi Bassi.
È una politica che Biagini vede oggi riproposta, in un orizzonte caratterizzato dall’eclisse degli stati-nazione, attraverso la creazione di una pletora di organismi sovranazionali, attivi specialmente nel settore ambientalista. Organismi i cui denominatori comuni vengono individuati sia nella composizione dei vertici (provenienti dalla più esclusiva nobiltà nordeuropea e dal management delle grandi industrie, ovvero dai principali “inquinatori”), sia nella loro azione. Questa si traduce infatti in uno sforzo teso ad impedire l’accesso alle tecnologie più moderne ai paesi europei potenzialmente concorrenti sul piano economico. Fra queste tecnologie l’A. cita il nucleare civile quale fonte di energia a basso costo e gli Ogm quali strumenti per una moltiplicazione delle rese agrarie.
Con la terza rivoluzione industriale e l’emergere delle guerre “asimmetriche”, cambia apparentemente la natura dei conflitti internazionali, oggi non più alla portata di un paese che ha perduto l’Impero. Un impero che è costato, solo tra il 1815 e il 1880, 13 guerre principali e 150 campagne minori, la maggior parte al di fuori dell’Europa. Oggi come ieri, lo strumento principale delle politica britannica risiede però nell’uso combinato della sovversione e della affiliazione delle élites straniere alle quali agevola l’accesso al potere. Il risultato atteso è una modifica dei rapporti di mercato, che anche in un contesto post-industriale fanno riferimento principalmente al controllo delle risorse naturali. Allo stesso modo in cui, agli inizi, Enrico VIII aveva sequestrato le terre della Chiesa ed i suoi successori avevano espropriato le popolazioni dell’Irlanda e delle Highlands scozzesi. Passaggi tutti che nel volume sono ben documentati nella loro tragicità, ricollegata ad una prassi, più volte ripetuta, di “protestantizzazione” del territorio, i cui effetti sono ancor oggi percepibili nell’Ulster. Una prassi che è insieme elemento di trasformazione territoriale e carattere distintivo di una cultura fortemente ideologizzata.
Ne esce un’immagine decisamente in contrasto con quella corrente di una democrazia pacifica e rispettosa della legalità internazionale che ci viene quotidianamente proposta dalla letteratura. Un paese che non ha mai visto l’Europa come la propria collocazione naturale, posizione che si riconferma tuttora. Un paese sempre attento, peraltro, a curare la propria immagine all’esterno, anche e soprattutto attraverso l’editoria specializzata, intesa come strumento di dominazione culturale. Cosa possibile grazie al principio secondo il quale la storia viene scritta sempre dai vincitori.
Per concludere, siamo di fronte ad un’opera impegnativa, di largo respiro, sorretta da una bibliografia ineccepibile, che può sconvolgere il lettore impreparato, così come ha sconvolto per primo l’A. man mano che la ricerca andava avanti. Si vedano le precisazioni in merito alle vicende di casa nostra, che vengono inquadrate secondo le nuove tendenze della storiografia risorgimentale, all’interno della politica di riorganizzazione dell’Europa in funzione degli interessi britannici.
Gianfranco Battisti
Ordinario di Geografia
Università di Trieste
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