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Nella mitologia mesopotamica le cose del mondo erano “prive di nome”, e cominciavano quando gli dei le nominavano. Nella mitologia indiana, il mondo era teatro della ciclica azione della Trimurti. Anche nella mitologia scandinava si concepiva un eterno ritorno: dopo il Ragnaròk (battaglia finale tra dei e demoni che si distruggevano a vicenda e annientavano il mondo), il mondo rinasceva. Nella mitologia classica vi erano diversi miti delle origini, ma nessuna chiara idea di un Dio creatore. Regnava, in definitiva, l’ignoranza, colmata con miti fascinosi.

Giordano Bruno, l’“eroe” dei laicisti, con i suoi “heroici furori”, smaniò per un universo, “infinito” ed “eterno”, in una sorta di panteismo neopagano che poteva fare a meno del Creatore. Dal panteismo all’ateismo non vi è infatti che un passo: se c’è il mondo, ed esiste di per sé in modo indipendente, e non ha bisogno d’altro per sussistere, Dio diventa inutile.

Ahimé, la fisica seria la pensa diversamente. Già verso la fine dell’Ottocento il grande fisico austriaco Ludwig Boltzmann postulò la fine dell’universo come fine di ogni mutamento, e quindi del tempo, in seguito al raggiungimento del livello massimo di entropia (esaurimento dell’energia potenziale e massimizzazione del disordine), in base alla seconda legge della termodinamica.
All’università ho avuto come testo di fisica l’Ageno, della rinomata scuola della “Sapienza”, quella delle sprangate, dei colpi di pistola dalla finestra e del bavaglio al Papa, per intenderci. Ebbene, trattando dell’entropia, il testo rigettava frettolosamente questa scomoda eventualità, affermando che la seconda legge della termodinamica poteva applicarsi solo ai sistemi isolati, e non all’universo. Non avevo ancora vent’anni, ma questo già allora mi ha dato decisamente fastidio. Cosa significava? Che l’universo riceve energia dal di fuori? Da dove? E se l’universo è l’universo, ossia, per definizione, è tutto ciò che di materiale esiste, come potrebbe non essere un sistema isolato?
L’unico modo per sfuggire all’idea dell’universo isolato sarebbe pensarlo infinito, come voleva Giordano Bruno. Ma se fosse infinito manderebbe infinita luce (paradosso di Olbers), avrebbe infinita forza gravitazionale e nessun movimento sarebbe possibile (paradosso di Mach), ed emetterebbe infinite radiazioni ionizzanti che renderebbero impossibile la vita (paradosso biologico). Se Giordano Bruno fosse stato quel “genio” che i laicisti descrivono, avrebbe certamente potuto arrivare al paradosso di Olbers, che risponde ad una domanda elementare: “Perché di notte il cielo è buio?”. Dunque l’universo non può che essere limitato e isolato, quindi destinato a finire, preda della morte entropica.
È inutile invocare, a questo proposito, il mito del relativismo (che non ha nulla a che fare con la relatività), dicendo che: “La scienza è probabilistica, la scienza cambia in continuazione”. Questo è vero solo in parte: nella trattazione matematica dei dati scientifici si seguono, a secondo del problema trattato, l’una o l’altra di due diverse strade: o quella matematica in senso stretto, che è deterministica, o quella statistica che è probabilistica.
Alcuni fatti scientifici sono incontestabili. Sappiamo, ad esempio, con certezza, che la guarigione naturale di una malattia richiede tempo, richiederà sempre tempo, non si può sfuggire a questo fatto: se una guarigione avviene istantaneamente, non può che essere miracolosa, ed è questo il criterio rigoroso seguito dalla Chiesa nell’accertamento dei miracoli. I paradossi di Olbers, di Mach e quello biologico appartengono alle certezze incontestabili: non si vede proprio come possa accadere che il numero delle stelle diventi infinito, mandando luce infinita, energia gravitativa infinita, radiazioni ionizzanti infinite.
L’universo è in espansione a partire da una singolarità, la “grande esplosione” (ingl. Big Bang, ted. Urknall), avvenuta intorno ai 15 miliardi d’anni fa. Sebbene esista materia oscura, questa, sommata a quella visibile, non ha massa sufficiente a richiamare l’espansione dell’universo e causare una nuova singolarità, e quindi una nuova “grande esplosione”, ciò che rende la bizzarra ipotesi dell’universo “che pulsa come un cuore” altamente improbabile.
La massa conosciuta non raggiunge neppure il 10% di quella necessaria a richiamare indietro l’espansione e far collassare l’universo in vista di una nuova espansione. Si era ipotizzato che i neutrini potessero fornire la massa mancante, ma si è visto che viaggiano a velocità quasi pari a quella della luce, e quindi hanno massa trascurabile. Di più, la velocità di espansione, invece di rallentare o rimanere costante, addirittura è in aumento, ciò che fa apparire ancor più improbabile che possa invertire l’espansione e collassare formando la mitica “nuova singolarità”. Sembra che sia più realistico aspettarsi il miracolo di una nuova creazione dal nulla, piuttosto che l’universo esistente sia in grado di “ricaricarsi” e ripartire da solo.
Limitato nello spazio e limitato nel tempo, l’universo è destinato ad espandersi indefinitamente verso una geometria sempre più piatta, mentre tutte le stelle si esauriscono e si spengono. È la morte dell’universo per entropia, come già aveva intuito Boltzmann, altro che universo “infinito ed eterno”.
Il concetto di spazio infinito è puramente astratto e non ha riscontro nel mondo fisico. La geometria euclidea, con le sue rette parallele che proseguono all’infinito senza mai incontrarsi, resta applicabile alle modeste distanze dell’esperienza quotidiana, ma la struttura dell’universo, piuttosto, è quella di Riemann: una geometria curva, nella quale ogni osservatore vede se stesso al centro e non esistono rette in senso euclideo, ma ellissi. Pianeti e lune seguono orbite ellittiche, perché si muovono seguendo la curvatura dello spazio generata dai corpi maggiori intorno ai quali gravitano. Lo spazio stesso è generato dalla gravitazione, indefinito perché percorribile senza limiti, ma non infinito. Quindi non eterno, quindi privo di esistenza indipendente. Ha avuto un’origine ed avrà una fine.
A differenza di tutti i miti pagani e neopagani, solo la Genesi, Parola di Dio, afferma chiaramente la creazione e, stranamente, questo antichissimo testo, redatto in un’epoca che a malapena conosceva il fuoco e la ruota, è quello che più si avvicina all’immagine dell’universo dataci dalla scienza moderna.
È possibile addirittura tradurre in termini scientifici i misteriosi primi versetti della Genesi che precedono la “grande esplosione” della luce: “In principio Dio creò il cielo e la terra, e la terra era informe vuota e le tenebre ricoprivano l’abisso. E lo Spirito di Dio si librava sulle acque.” Certamente la Bibbia, allora, non poteva usare termini che non sarebbero stati compresi da gente non proprio al massimo come terminologia scientifica.
Si possono tradurre i termini “cielo” e “terra” come lo spazio-tempo e le diverse forme di energia, mentre le tenebre e l’abisso indicano un’entità immensamente vasta, vuota e fredda: uno spazio piatto privo di ogni interazione. In assenza di interazioni la materia è infatti oscura, perché non si produce radiazione e quindi luce. Le condizioni iniziali dell’universo dovevano essere analoghe a quelle di un oceano dominato da onde caotiche. Il soffio di vita su queste “acque” potrebbe essere rappresentato dalle oscillazioni quantistiche del dilatone e della geometria, tali da avviare il processo di inflazione, che conduce alla nascita dell’universo a noi noto attraverso la fase esplosiva.
L’astrofisico Maurizio Gasperini (che naturalmente non mi risulta sia stato mai invitato alla televisione, la quale insiste a deliziarci con le esternazioni atee di Margherita Hack) arriva a tradurre in termini moderni i primi versetti della Genesi con: “In principio Dio creò i campi e le sorgenti. Le sorgenti erano incoerenti e immerse nel vuoto e questa materia oscura aveva interazioni nulle. E il dilatone fluttuava sul vuoto perturbativo di stringa”, mentre il momento successivo, dell’universo supercompresso, quando Dio dice “Sia fatta la luce”, corrisponde al momento della “grande esplosione”.
Le più recenti concezioni astrofisiche sull’argomento si basano infatti sulla teoria delle “stringhe”, o delle “corde”. Le stringhe sono forme filamentose che la materia assumerebbe ad altissima energia. In un’epoca anteriore alla “grande esplosione”, si aveva un vuoto perturbativo di stringa, ossia un regime molto piatto, vuoto, freddo e instabile. In queste condizioni non valgono le leggi fisiche quali noi le conosciamo. La teoria delle stringhe ci dà delle equazioni gravitazionali diverse da quelle della relatività generale, perciò è stata introdotta una nuova forza rappresentata dal cosiddetto dilatone: una particella senza carica e non orientata, già ipotizzata da Einstein. Con la crescita del dilatone aumentava la costante gravitazionale, l’universo tendeva a contrarsi e crescevano perciò sia la curvatura che lo spazio-tempo.
Man mano che la curvatura cresceva, la massima distanza entro la quale erano consentite le interazioni fra punti diversi dello spazio, ossia l’orizzonte degli eventi, si restringeva. Quando una stringa si trovava ad essere più lunga dell’orizzonte, la parte rimasta fuori smetteva di oscillare e seguiva passivamente l’evoluzione della geometria circostante. L’insieme dei segmenti di stringa così “congelati” si comportava come un gas dotato di pressione negativa e tendeva ad accelerare la crescita della curvatura e del dilatone e a far restringere ulteriormente l’orizzonte, restringendo quindi anche lo spazio-tempo.
La crescita della curvatura portò l’universo ad addensarsi e a diventare sempre più caldo, finché la radiazione prodotta a livello microscopico divenne dominante, con tutto l’universo concentrato in uno spazio di un centesimo di millimetro cubo. La densità arrivava ad essere 1080 (una cifra pari a uno seguito da ottanta zeri) volte più grande di un nucleo atomico: la “densità limite planckiana”, così detta perché postulata da Max Planck, al di sopra della quale lo spazio, il tempo e la materia non seguono le leggi della meccanica quantistica, ossia della meccanica basata su particelle elementari, mentre a densità minori cominciano a seguirle.
L’universo multidimensionale, ma estremamente compatto, doveva essere popolato da un denso gas di stringhe prodotte in seguito alle altissime energie. Le stringhe si muovevano ad enorme velocità e si attorcigliavano intorno a tutte le dimensioni spaziali compatte, formando una “rete” che impediva all’universo di espandersi. Infatti, non appena aumentava l’espansione, aumentava l’energia delle stringhe attorcigliate, che è proporzionale al raggio dello spazio-tempo, controbilanciando e annullando la forza di espansione.
Ad altissima temperatura, esistevano in pari quantità stringhe attorcigliate in un senso e nel senso opposto che, scontrandosi, reciprocamente si annullavano. Scomparso un numero sufficiente di stringhe, la rete si ruppe, e permise all’universo di espandersi, in tre dimensioni, mentre le altre dimensioni non si sviluppavano.
Abbiamo quindi un’evoluzione “duale” dell’universo, caratterizzata da due fasi simmetriche: la prima di contrazione, la seconda di espansione. Il confine tra le due fasi è costituito dalla “grande esplosione”. La stessa grande esplosione e l’attuale fase espansiva sono confermate da numerose prove sperimentali (radiazione di fondo, conteggio dei quasar, percentuale di elio cosmico). Quella antecedente, di contrazione, invece, è nota solo sulla base di una ricostruzione data da equazioni di fisica teorica. Insieme, però, danno un quadro coerente e quanto mai persuasivo.
Nonostante ciò, continua ad ogni costo la barzelletta atea dell’universo “eterno”, della quale un popolare esponente è il tedesco Bojowald. Il segreto è nel rinverdire la vecchia illazione dell’universo che “pulsa come un cuore”, e cioè che alternativamente si espande e si contrae, dichiarando al tempo stesso “suicide” per la fisica tutte le prove che puntano verso l’inevitabile morte dell’universo. La bestia nera di Bojowald è la “singolarità” del “big bang”, contro il quale manifesta un granitico pregiudizio. Il fatto che in corrispondenza di tale evento la densità della materia scenda al di sotto del limite planckiano tendendo ad infinito lo mette in crisi. La teoria delle stringhe viene sbrigativamente dichiarata incapace di descrivere l’universo antecedente al “big bang”. Solo grazie alla “combinazione di rigorosa matematica e inflessibile aderenza alla natura si può salvare la fisica dalla mera speculazione e dai miti e solo in tal modo essa diventa credibile”: così proclama l’autore (tra i miti vi è evidentemente quello della creazione). Peccato che poi Bojowald si sprofondi nei miti pagani dell’eterno ritorno, citando a piene mani la mitologia orientale, il cimiteriale Nietsche e il fosco Schopenhauer. Il tutto è infiorettato da racconti autobiografici di nessun interesse, e da lunghe citazioni da un delirante racconto di fantascienza, presumibilmente del medesimo autore, nel quale l’umanità arriva a sfruttare l’energia dei “buchi neri”, spinta da un parassita cieco che le è penetrato nel cervello.
A questi patetici sforzi di rinverdire l’“eterno ritorno” alla Nietsche si uniscono, da parte di talebani dell’ateismo e cristiani “adulti” (costantemente amici e compagni di merende) gli avvertimenti: “non si deve legare la religione a prove scientifiche”, “la religione è solo questione di fede”, e simili negazioni del potere umano di giungere alla certezza dell’esistenza di Dio (e allora gettiamo a mare San Tommaso d’Aquino e la sua Summa contra gentiles?).
E chi si sogna di voler “legare la religione a prove scientifiche”? Ma se scienza e religione indipendentemente concordano, che possiamo farci? Proibirglielo? Proclamare il dogma che la scienza deve per forza essere atea? Vietare agli scienziati di essere credenti? Lo stesso Einstein, come moltissimi grandi studiosi, era credente e proclamava: “Rifiuto di credere che il buon Dio giochi a dadi con l’universo”.
Si impongono alcune domande scomode. Come mai l’avanzata della scienza produce modelli che vanno d’accordo con l’esistenza di Dio Creatore e del tutto incompatibili con il materialismo e lo scientismo atei che pretendono di imporci la barzelletta dell’universo eterno? Se l’universo non può assolutamente essere eterno, come mai esiste? Chi lo ha fatto? Come mai gli atei, fino a ieri, si facevano una bandiera delle “certezze” del “progresso scientifico” che avrebbe fugato le “tenebre” della superstizione religiosa, mentre oggi si rifugiano nel “pensiero debole”, ossia nello scetticismo, nel nichilismo, nel relativismo, rifiutando di confrontarsi con i fatti che contrastano con i loro pregiudizi?
Mai come oggi siamo stati così vicini ad avere in mano le prove certe, palpabili dell’esistenza di Dio, della necessità di Dio Creatore. Mai come oggi l’umanità occidentale è stata così istericamente apostata, così lontana da Dio, così furiosamente in preda alle tenebre della superbia e degli altri vizi, che la spingono a coprirsi gli occhi per non vedere la luce.

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EMILIO BIAGINI


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