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Le macchine hanno sconfitto la fatica e aumentato la produttività in agricoltura, come negli altri campi dell’economia. Per raccogliere il grano da un ettaro di terreno agrario col falcetto occorrono un centinaio di ore di lavoro, con la falce circa 75 ore, con la falciatrice e legatrice poco più di di tre ore, con la mietitrebbia un’ora. Alla sconfitta della fatica ha contribuito anche la chimica: liberare un terreno dalle erbacce infestanti con la zappa è una fatica massacrante che evidentemente né gli euroburocrati, né i dirigenti delle multinazionali, né gli ambientalisti che schiamazzano nelle dimostrazioni, hanno mai provato; con i diserbanti questo lavoro è diventato accessibile persino a gente con le mani bianche come loro, se solo si degnassero di sporcarsele con un poco di lavoro autentico. Nel 1950 un agricoltore poteva sfamare 15 persone. Grazie a diserbanti e pesticidi, oggi ne può sfamare quasi 50. Ma, auspice l’impostura ecologista, è arrivata l’era delle malifiche. Gli interventi degli euroburocrati della CEE stanno facendo del loro peggio per comprimere la produzione agricola: quote di produzione, argini alle “eccedenze” (il famigerato set-aside), tasse di corresponsabilità per veri o presunti inquinamenti causati da fertilizzanti, tagli di bilancio per l’agricoltura, premi per l’abbattimento dei vitelli (che la vicenda della “mucca pazza” rientri in un piano per accelerare la distruzione delle risorse? ha già provocato, nella sola Gran Bretagna, l’abbattimento di milioni di mucche), premi per lo sradicamento dei vigneti, riduzione degli aiuti all’esportazione dei prodotti, aumenti dei prezzi di fertilizzanti e pesticidi. In parallelo ecco la nascita di aziende dove si produce in modo “naturale” con la cosiddetta “agricoltura biologica” (che vorrà dire?), come se quella che usa pesticidi e fertilizzanti fosse agricoltura “mineralogica”. Le accuse ai fertilizzanti di provocare proliferazioni algali in mare sono assolutamente infondate. Questi, è vero, sono costituiti sopratutto da nitrati e/o da fosfati che, se fertilizzano il terreno, possono “fertilizzare” anche le acque interne e i mari dove finiscono per scaricarsi, trasportati dal dilavamento operato dalle piogge. Ma la teoria è una cosa, la pratica un’altra: resta da spiegare come mai le proliferazioni algali (che riguardano essenzialmente alghe microscopiche appartenenti ai Flagellati o alle Diatomee) siano sempre avvenute, fin da epoche preindustriali quando i fertilizzanti (e i detersivi fosforati, anch’essi sotto accusa) neppure esistevano. Inoltre, nutrienti capaci di sostenere una proliferazione algale sono presenti nelle acque in quantità più che sufficienti a sostenere una proliferazione in ogni momento, dato che le riserve si accumulano per apporto dai fiumi alla scala dei tempi geologici, prima della stessa comparsa dell’uomo sulla Terra. Infine, come si spiega il fatto che queste proliferazioni colpiscano una sola specie per volta (spesso la fosforescente Noctiluca miliaris, oppure il Prorocentrum micans, o la Gonyaulax polyedra) e non tutte le altre, dato che le specie presenti sono di solito parecchie decine? La spiegazione è che il moltiplicarsi della specie coinvolta non ha nulla a che fare con la disponibilità di nutrienti, ma con la presenza di biostimolanti specifici come le vitamine, contenute in notevoli quantità nei fiumi e nelle acque “pulite” riversate in mare dai depuratori: i biostimolanti non favoriscono una proliferazione indiscriminata, ma sono efficaci ciascuno su una determinata specie e non su altre. Ciò è stato dimostrato con riferimento all’alto Adriatico (Biagini 1990), ma si tratta di un risultato scientifico di applicabilità generale. Proliferazioni algali del tutto analoghe a quelle adriatiche sono state infatti riscontrate in molti mari costieri, inclusi quelli che circondano le Isole Britanniche. Le proliferazioni algali possono causare gravi fenomeni di anossia (carenza di ossigeno), dovuta al fatto che l’enorme biomassa di alghe durante la notte non produce ossigeno perché non può compiere la fotosintesi ma, dato che si tratta di organismi aerobici, la loro respirazione continua, e continua quindi il consumo di ossigeno. L’anossia produce stragi di organismi acquatici che restano soffocati, con gravi danni alla pesca e produzione di grandi quantità di materia organica in putrefazione. Nel formarsi delle condizioni di anossia l’uomo non è responsabile: il fenomeno è facilitato da condizioni di alta pressione, e quindi con tempo buono e stabile, che non provoca rimescolamenti della colonna d’acqua, così che gli strati profondi anossici non ricevono ossigeno da quelli superficiali. Siamo al paradosso: si tratta di fenomeni assolutamente naturali, aggravati se mai dai depuratori, ossia proprio da misure di disinquinamento, ma il dito è sempre puntato sull’uomo, il “grande inquinatore”. E i pesticidi? Abbiamo già accennato ai risultati catastrofici (e ai veri motivi) della messa al bando del DDT. Ma vi sono molti altri pesticidi. Dobbiamo rinunciare ad usarli? Che vantaggio ne verrebbe? Nei cibi che ingeriamo essi sono già presenti in quantità enormi (talora fino al 5-10% del peso secco). I vegetali si difendono naturalmente dai parassiti, producendo pesticidi naturali, solitamente alcaloidi, spesso altrettanto tossici quanto quelli prodotti dall’uomo. Ananas, anice, banane, basilico, carote, cavolfiori, finocchi, lamponi, mele, meloni, patate, pompelmi, sedano, sono solo alcune delle specie che producono antiparassitari. A differenza dei pesticidi artificiali, che vengono spruzzati alla superficie dei prodotti e vengono poi dilavati dalla pioggia e/o dai lavaggi che precedono il consumo, i pesticidi naturali fanno parte integrante del frutto, foglia o tubero consumati, e vengono ingeriti integralmente. L’unico modo per evitarli è quello di smettere di mangiare. Dopo un digiuno sufficientemente lungo, ciò realizzerebbe, fra l’altro, l’ideale ambientalista di un mondo felicemente libero dal “cancro” dell’umanità. Un altro, e più recente, spauracchio ambientalista è quello dei cibi transgenici: il primo pomodoro transgenico venne ottenuto negli USA nel 1987, e la vendita di tale tipo di alimento vi fu autorizzata nel 1992. Si dicono alimenti transgenici quelli derivati da piante o animali che hanno subìto modificazioni genetiche. Grazie alle approfondite conoscenze sul DNA, le tecnologie di intervento sul patrimonio genetico sono ormai estremamente evolute. È possibile usarle anche sull’uomo, e questo non deve essere permesso, per motivi evidenti a chiunque non consideri l’uomo un animale come gli altri. Ma se gli interventi genetici servono ad ottenere piante e animali con caratteristiche utili di elevata produttività e resistenza ai parassiti, perché opporvisi? Incredibilmente, invece, contro questi nuovi prodotti si è scatenata una campagna di terrorismo ambientalista a livello parossistico. Le piante e gli animali modificati vengono presentati come mostri pronti a divorare l’umanità, in caricature grafiche e verbali tanto rozze da far pensare che i propagandisti dell’ambientalismo ritengano di avere a che fare con minorati mentali, o di avere ormai talmente condizionato l’opinione pubblica da non esservi più bisogno di un minimo di verosimiglianza. In compenso, prosperano produttori e venditori di alimenti presentati come “biologici”, ossia “non manipolati”, come se un organismo geneticamente modificato non fosse ancora un essere vivente, e quindi, per definizione, biologico. E, naturalmente, quello dell’agricoltura “biologica” è un affare di vaste proporzioni, che vende i prodotti a caro prezzo, mentre gli alimenti transgenici potrebbero essere prodotti in quantità enormi a basso prezzo. Ma forse è proprio questo che si vuole: tenere alti i prezzi, facendo al tempo stesso baccano sulla fame nel mondo in modo da far credere che l’agricoltura transgenica non sia la soluzione e che gli unici a preoccuparsi dei poveri del “terzo mondo” siano loro, i contestatori ecologisti. L’assurdità di questa campagna ecologista risalta non tanto dal fatto che non vi è assolutamente alcuna prova che alcun cibo transgenico abbia mai arrecato danni alla salute, quanto dal fatto che tutti i cibi derivano da organismi manipolati. Se non disponessimo di tali organismi moriremmo di fame. A parte la cacciagione, le more occasionalmente raccolte durante una gita in campagna e, in parte, i funghi, qualche insalata selvatica e qualche altra modestissima eccezione, non facciamo altro che nutrirci di organismi geneticamente modificati. Sono millenni che modifichiamo le specie che ci forniscono da mangiare. Fin dalla “rivoluzione agraria” del Neolitico, la selezione cosciente dei diversi ceppi di piante e animali utili e l’uso degli incroci hanno dato luogo ad organismi del tutto geneticamente trasformati che, infatti, senza le cure dell’uomo, sarebbero totalmente sopraffatte e annientate dalle specie selvatiche, assai meglio attrezzate a competere e a combattere: il campo di grano abbandonato a se stesso si ricoprirebbe in breve tempo di “erbacce”, e non ci vuole molto ad immaginare la sorte di un branco di pecore abbandonato a se stesso in un bosco. Quale differenza c’è dunque fra le manipolazioni genetiche del passato e quelle di oggi? Nessuna, se non che quelle odierne sono più precise e più accuratamente mirate, essendo frutto di una scienza più avanzata e non di tentativi empirici. I cibi transgenici potrebbero risolvere il problema della fame nel mondo? Non possiamo saperlo senza metterli alla prova, ed è improbabile che mai ci si riesca, data la demonizzazione di cui sono stati fatti oggetto. Si noti che, come per i CFC, il DDT ed altri prodotti entrati nel mirino degli ambientalisti, il problema è avulso da una valutazione razionale e dai risultati delle ricerche scientifiche. Dopo le urla e gli schiamazzi degli ecologisti, arrivano le scomuniche a suon di proibizioni e messe al bando, mediante leggi accompagnate da relative sanzioni civili e penali, con le quali non si discute. Ma non è difficile capire il perché di tutto questo. Se i poteri forti di considerano l’umanità un cancro, è evidente che tutto quello che potrebbe aiutare a sfamarla deve essere distrutto.

INDICAZIONI BIBLIOGRAFICHE
BIAGINI E. (1990) La Riviera di Romagna: sviluppo di un sistema regionale turistico, Coll. “Geografia e organizzazione dello sviluppo territoriale. Studi regionali e monografici”, No. 5, Bologna, Pàtron
ENGDAHL E., FILIPPONI G., GASPARI A., PRINZI G., ROSSI C., SCHAUERHAMMER R., GALLIANO SPERI M. & TENNENBAUM J. (1991) Lo sviluppo dell’Europa ed il pericolo del movimento ambientalista, Roma, Vita Nova


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