•  
  •  
  •  

IV

Finalmente il poeta, diventato serio, appare in veste di moralista con un lungo trattato di mille trecentotrentasei versi variamente distribuiti in quattro canti. Sebbene non se ne conosca la data di composizione, è fuor di dubbio che si dedicò a questo lavoro già vecchio, perché è tutto pervaso di sapienza, ma non di quella sapienza frutto di meditazione e di studio, che si può raggiungere a qualunque età, ma di quella saggezza spicciola ed empirica che solo si acquista col volger degli anni e colla quotidiana pratica della vita. E poiché inizio della sapienza è il timor di Dio, neppur questo manca nelle sue “Rime morali”. Ma è un timor di Dio “sui generis” che non procede da convinzione ragionata e profonda né da rapida intuizione, ma timor di Dio che si affaccia quando incalza il pericolo, quando la morte minaccia: timore che è proprio delle anime e delle “menti grosse” sebbene non interamente corrotte.

Comincia il 1° Canto con tre ottave armoniose e ispirate che hanno in sé qualche cosa della solennità e grandiosità dei salmi che in certi punti parafrasa:

L’ommo chi peù ciamase un Dio terren

Con l’annima chi ha squaesi dro divin

Patron do mà, dra terra e dri seù ben,

Dri animè terrestri a dri marin;

Per liè fast’è ro Mondo e ri terren

Produan tanti fruti, e pan e vin

Tutt’in servixo de sta creatura

Miracoro sì grande dra Nattura

Segnò non solo a st’inferioì,

Cose, ovre, ma ancon abilitoù

Per fàse ancon segnò dre Superioì

Poco manco dri Angeri adornoù

Da Dio eletto a posta per impì

Re sedie dond’avè prevaricoù

Luzifero e chi vose ese con liè

Scaccio da ra virtù de San Michè;

E quest’ommo con tè prerogative

In cangiu de servì chi l’ha creoù

D’amaro, reveveriro fin ch’o vive

Per govero de peuscià i çe bioù,

Ingrato, sconoscente o se ne prive,

Ch’offende un tanto Dio con ro peccoù

L’è ra maggiò miseria e cecitè

Che posse muoè trovà l’iniquitè.

Ma il tono si abbassa presto: il poeta, non sentendo l’ispirazione dentro di sé, la cerca fuori e la trova nel Capitolo della “Salsiccia” del Lasca (sic). Poi si ferma a sillogizzare e definire; crede di riuscire sottile ed è pedante; si illude di ragionare e vaneggia. Così, ad esempio, confonde il savio con l’umile, l’ignorante col presuntuoso; fa consistere tutta la sapienza nel saper tacere a tempo che è piuttosto atto di prudenza; si compiace di una serie di distinzioni stolte e di paragoni assurdi, come l’ozioso e l’ignorante paragonati al lupo, l’uomo bizzarro al cavallo; il virtuoso ai buoi, alle vacche, ai montoni; quello vizioso al porco.

La definizione del savio e dell’ignorante è più volte ripresa, allargata, ristretta, confusa, finchè alla fine del I° Canto crede di renderla perfetta con questa affermazione puerile:

Ro savio ancora ha questa qualitae

Ch’o peù ingannà de tutte sorte gente

Basta acquistàse nomme de bontae

Che l’è creduo da tutti façilmente

Onde lè interponne autoritaè

Ogn’ommo gh’aderisce e ghe consente

A tà che ra scienza anco in tro mà

Si ben contra raxon, ve peù zovà.

Comincia il Canto II formulando precetti di pedagogia non certo scolastica, ma ispirata a quel largo buon senso che emerge a tratti nella selva di errori che fascia la sua mente. E anche qui appare talvolta qualche piccola cosa buona come la definizione che dà del fanciullo:

Un figgeù de poc’anni è comme seira

Che piggia impronta d’ogni qualitae,

L’è comme tora rasa e comme teira

Gianca, missa per quadri sciù i terè

Ch’un pitto ra depenze sì che in veira

Ve ghe pà drento ra divinitè

Ma se ghe gusta mette ro contrario

Ve ghe fa veì l’inferno e l’avversario.

Ro figgeù è un erborin ancon novello

Chi ven spinoso s’o non è inserìo;

Per questo dère a un meistro a fè che quello

Ghe insegne e imprimae ro timò de Dio.

Così pure dà ai genitori un ottimo consiglio quando dice loro:

E perché ch’o v’aggia in bon concetto

De candido, veridico, sincero;

Ch’o no saccia de vui nisciun defetto

D’operà mà, ni manco per pensiero

Perché l’è un fàse perde ro respetto

Oltre lo mal’esempio, e quest’è vero

Che s’un poere cattivo o vive ma

Ro figgio ne ghe veù rassomeggià.

Poi riprende a parlare dell’ozio; accenna al modo di ben governare; cerca di definire la giustizia e la definisce male perché ne fa una cosa sola con la carità parafrasando San Paolo; poi con la santità contraddicendo Socrate che da venti secoli aveva dimostrato essere la giustizia una parte della santità. Si ferma poi a considerare la giustizia, i medici, le malattie, il peccato e chiude così il II Canto.

Dal peccato comincia il III Canto e indugia lungamente a esaminare il vizio della superbia, del gioco, della crapula, tratta dell’amicizia, della falsità, dell’avarizia, dell’ingratitudine, dell’invidia, per tornare ancora sull’avarizia: volge uno sguardo a tutti i vizi in generale e ai propri in particolare e prorompe in un atto di dolore che gli concilia la simpatia del lettore, già messa a dura prova.

Apre il Canto IV un’ottava che se non è bella, è almeno buona e morale davvero:

Cose deve studià l’ommo da ben?

Sol de vive virtüsamente

Per receive ra morte quand’a ven

Comme messo de Dio allegramente

Ra morte serra liè ri magazen

Dre miserie dell’ommo che son tante:

Famme, sé, freido, càdo e marrottie,

Amareghi desgrazie ancon assie.

Le umane miserie gli richiamano alla mente una disgrazia ben terribile: la prigionia, e si diffonde perciò a considerarne le sventure e i danni che porta seco: le condizioni morali e materiali dei carcerati, l’amministrazione della giustizia. Ma trova poi che esiste un male anche peggiore del carcere, della prigionia, delle malattie: questo male è l’amore che mette l’uomo a discrezione di una donna qualunque. Sulle donne si avventa, si accanisce con tale astio che si potrebbe anche pensare che da loro avesse ricevuto qualche grave torto:

Ciere fàse, che oreì crovì l’etè

E ri anni ch’avei con ro belletto,

Con tante menne d’ègue lambicchè

Ve creì mostrà ro moro zovenetto;

Ro tempo che spendì a ri dinè

A fa rossetto, pevere e gianchetto,

Dre lesce da tenze e da imbiondì

No ch’è lengua chi ro posse dì.

Dopo aver mostrato delle donne tutti i difetti fisici e morali possibili; dopo averne svelato tutti i più profondi misteri della toeletta, termina con un consiglio: belle o brutte, buone o cattive, saggie o stolte, tutte devono essere fuggite da chi ana la propria pace.

Ma non si potrebbe aspettare di più da un pover’uomo del carattere di Giuliano Rossi, così frivolo che in certi casi eccede nello scherzo, ad esempio, quando narra la condanna di un pollaiuolo ladro e rapinatore. Costui, colpevole di avere, con l’aiuto di complici, rubato un anello di valore, venne condannato alla forca. Per quel disgraziato, il poeta non sa trovare che celie macabre sul soprannome dei complici, sul nome della vittima e sulla pena stessa che sta per subire:

E a questo meschinetto

Per zointa ro Poistè

No gh’ha avuo manco tanta caritè

De lasciaghe intre ongie quell’anello

Chi ghe poeiva a livello

Mentre meistro Vincenzo ro remorca,

Servighe per sposaze con ra forca,

Ma liè responde che esto macciarello;

L’anello chi ghe tocca e l’ha a ro collo.

Soltanto la peste che imperversò dal 1656 al 1657, parve infondergli qualche pensiero più serio. La sua lunga “Lezenda dra Peste” comincia infatti:

Mi non ve staggo a dì chi che Pandora

Haggie versoù ro vaso in tra Cittaè

Perché, vorando di ra veritae

No me pà ben de mesciaghe ra fora.

E ra musa in sto caxo cura oura ne canta

Misericordia e cria in ata voxe

E a s’accompagna a i pè d’unna gran Croxe

Con re tenebre chì de zeuggia santa.

Certo la gravità del disastro che seminava la desolazione dovunque, spegnendo intere famiglie nello spazio di poche ore, doveva suggerire pensieri cupi; la paura doveva gravare su tutti, anche sugli spiriti più leggeri e costringerli a pensare per forza. Non tenendo conto di tali circostanze, il copista di uno fra i tanti manoscritti avverte, un po’ ingenuamente, che questa poesia non è da ritenersi opera di Giuliano Rossi perché “non vi si sente il suo spirito”. Il quale spirito invece suona lugubre e sinistro in accordo con le tristi circostanze:

D’unna gran quantitae de beccamorti

Sciù l’inprinsipio semmo restè privi

E unna gran quantitae de becchi vivi

Son restae de spavento belli morti.

Alla paura si aggiunge un vago presagio della morte non lontana e terribile, accompagnata dallo spettro del ricovero nel lazzaretto di San Michele:

Chissà che ancora mi che fasso versi

Doman no sé portou a San Michè

Chissà che li che cura scrivo scherzi

No dighe a verità chi sciù dai pè.

Paura, dubbio, presentimento, dolore, si abbattono finalmente su quell’anima che cade in ginocchio e scongiura:

Pietoso Iddio, da questa gran morìa

Sarvene perché femmo penitenza

Dra mae pecchè ferma ra gran sentenza,

Misericordia, Vergine Maria.

Finiscio che per no va dà ciù tedio

Intanto vui preghè divotamente

Per placà l’ira dell’Onnipotente

Che in man ha ro contaggio e ro remedio.

Se Giuliano Rossi non ebbe profondità di pensiero, non gli mancò l’abbondanza della vena, l’originalità della trovata, l’umorismo dell’espressione, segno di un ingegno caustico, arguto, versatile, non di rado divertente, pieno di tenerezza verso la moglie e, di fronte alla fine imminente, anche capace di accenti tragici.


  •  
  •  
  •