III
Si possono comprendere tra le rime giocose di Giuliano Rossi anche quelle che vanno, di solito, sotto il nome generico di “poesie di occasione”. Ve ne sono anche per gli avvenimenti più frivoli. Deve inviare gli auguri a una dama, fare un invito, raccomandare un facchino o una balia? Vuol ringraziare un’amica, commentare una predica, annunciare una nascita? Ogni pretesto è buono per far versi: tutto, per lui è oggetto di poesia. Non importa se essa viene abbassata all’umile ufficio di accompagnare una cagnetta imbalsamata, di rivedere un conto sbagliato, di riferire al medico gli effetti di un purgante; sembra che egli non sappia pensare, parlare, scrivere che in rima: egli potrebbe a ragion dire con Ovidio: “quidquid tentabam dicere versum erat”. La quantità però va a scapito della qualità e che in tutta quell’abbondante congerie poetica gettata giù alla meglio non resta da ammirare che la facilità con la quale il Rossi, pur in tante altre faccende affaccendato, sapesse inventare versi sempre pronti. Qualcuna, tuttavia, si fa notare per l’arguzia piacevole e le facezie spiritose, come la seguente, scritta per dare avviso di una spedizione di riso.
Lustrissimo Patron,
A ro patron Rattin
Ho daeto stamattin
Ve serve per aviso
Ri rubbi trei de riso
Stimmo che o sarà bon
Che diligenza n’ho mancoù d’usà
Perfin a fàro avanti serneggià
Per servive de fèti comme don
Dro riso in coneruxion
Questa è ra mae raxon; si no me cangio
No m’intra in bocca a mi, miegio boccon
Non posso non gustà
E se quarch’un se fonda
Per piggiame in sermone
Che ro riso dri matti in bocca abonda
E mi pro conclusione
Ch’ora piggie in concreto o pù in astratto
Che diggo che dro riso se son matto…
Ma il difetto principale di queste poesie consiste nel fatto che, trovato un motto arguto, un tratto spiritoso, il poeta dovrebbe toccarlo e procedere oltre, invece lo riprende, lo diluisce, e tanto vi insiste, che tutto lo spirito evapora. Ma quando Giuliano Rossi riesce a mantenersi breve, è degno davvero d’esser definito “facile, grazioso, gradito”. Ecco un esempio:
Stanse improvvisar in unna villa,
donde era ra Signoa Laura
con atre Damme.
Belle, oh che bello stàsene fra noi
in paxe sccorcettè per sta campagna,
onde spira l’auretta aren d’odoi,
treppa in scoso all’erbetta ra vivagna.
Con queste ciere e in paragon di scioì
L’oeuggio e ro naso uman se pà in cuccagna;
Ste bellesse, quest’ere, sto diporto,
drizzà fareivan l’appetito a un morto.
– Allegra in questo proù l’aora tranquilla,
Baxa cian cian l’erbetta e via trapassa,
l’ava intorno re scioi mormora e brilla
ro ventixoè giroxo ra descassa.
Fin ra roèsa sarvega s’inaxilla
Perché appè tante Venere ghe passa,
ma infin sotto l’erbetta bella e liscia
per proverbio intanà ghe sta ra biscia.
Donca a ro ben ro mà sempre è attaccaò
Bellezza è un vento che a ra fin svanisce,
l’ava ne dà l’amè si delicao,
ma poè con ro sagoggio se ferisce;
Ra rossa sì ne ha spinne da ro loù;
Ro so mesmo è soggetto anco all’ecrisse,
amò l’è bello e bon, ma poè l’è guerso,
ogn’indrito in restreito ha ro so inverso.
Anche più grazioso è il seguente madrigale:
BAXO RAPIO
Perché v’ho daeto un baxo donca tante forò
Con dime can e azonseghe tretò.
Se me trattae da can
N’importa ninte, ni chi sta ro faeto
Perché zà tutti san
Che mi de fedeltae son ru reatraeto;
Ma quello matratàme
Giusto comme se fosse un giuda infame.
N’avei raxon a ro peu di chi gh’era
Se mi ve son vegnuo da ciera a ciera;
Ma se dappoi vorrei
Un baxo che v’ho daeto
Stimaro tradimento,
Fae re vostre vendette
Tradime a questo meu che me contento
E s’o no basta d’un, daemene sento.
Il culto anche troppo evidente per l’Ariosto, il Tasso e i poemi eroicomici, ispirò a Giuliano Rossi un poemetto in tre canti intitolato “Ro Viaggio a Venezia con Dame”. Mentre pullulavano le Accademie, sorte per discutere gravi questioni letterarie, tra le persone spensierate e gaudenti era consuetudine riunirsi in piacevoli adunanze al solo scopo si celebrare allegre feste e godersi lauti banchetti. Una di queste brigate, composta di cavalieri e dame della più eletta società, si propone di fare un viaggio di piacere fino a Venezia:
L’anno sinquanta sinque in ra saxon
che porta le serexe per assazo
quando cantan ra sorfa e ra canzon
li arossigneu da basto per o ciazo,
un giorno che n’aveimo in coneruxion
per divera intr’un scioù sette de mazo
dixe unna voxe, o via, che ressorvemmo?
dènno poi andà? Ognun risponde: Andemmo.
Fanno parte della compagnia due cameriere e il poeta stesso che assume per l’occasione il nome di Nicherosio Rostio. Il viaggio si annunzia piacevole, ma è turbato da una serie di incidenti. Il poeta, mentre aspetta che si compiano gli ultimi preparativi, sta sull’angolo della via suonando la chitarra: le mule, già attaccate alla carrozza imbizzarriscono e sbalzano in un fossato vicino le dame costrette così a fare un bagno involontario, ma poi ciascuno riprende il proprio posto e si parte. A Campi prima tappa e relativo banchetto. Il giorno dopo si riprende il viaggio non più in carrozza, ma a cavallo di mule.
La brigata giunge a Voltaggio ove è accolta e festeggiata da un amico, poi vanno a Novi, Tortona, Voghera. Ogni tappa è segnata da famose cene, pranzi luculliani, brindisi abbondanti e prolungati. A Voghera prendono alloggio in un’osteria ove albergano pure in gran numero certi animaletti contro i quali il Signor Gian Paolo Riccardi – un colosso del peso di duecento cinquanta sei chili – e il poeta Nicherosio, sono costretti a ingaggiare fierissima pugna. Quando poi si rassegnano a dormire per terra spunta il giorno e devono tutti prepararsi a partire. Arrivano a mezzogiorno a Pavia: mentre le carrozze attraversano il ponte sul Ticino, una cameriera – episodio degno di nota – vede guizzare nell’acqua… un’anguilla. Dopo aver abbondantemente mangiato e dormito, prendono consiglio sul modo di proseguire il viaggio. Poco consigliabile è la via di terra, infestata da soldatesche e ladroni, meglio scegliere la via acquatica. Prendono subito una barca, un cuoco, rematori e si riparte: i pellegrini del piacere si abbandonano beati alla dolcezza del mattino primaverile e giungono presto a Piacenza:
Cantando infin ro verso dro Petrarca
Passa la nave mia colma d’oblio
No scuggia, ma presipita ra barca
Andamo sciù con un piaxei de Dio
In quello leugo insomma arriva l’arca
Che in nome e faeti a ro piaxei unio
Piaxenza amata sì onorata tanto
Quel che seguì dirò nell’altro canto.
Nel canto secondo sono diffusamente narrate le poco liete avventure del Riccardi e Nicherosio. A Piacenza è offerta e accettata l’ospitalità dell’amico Gian Giacomo Grimaldi: cavalieri e dame fanno onore ai lauti banchetti. Senonché il vino e l’amore giocano al grande e grosso Gian Paolo e al piccolo poeta, un brutto tiro; il primo spasima per una dama, il secondo per una sguattera che ha scoperta e spiata attraverso la fenditura di un muro. Il galante cavaliere è bellamente schernito dalle allegre dame che lo portano in giro per la città; l’indiscreto poeta è bastonato di santa ragione dalla servetta infuriata. Così ha termine il secondo canto. Nicherosio si ripara dalle bastonate fuggendo precipitosamente in uno stanzino ove se ne sta rintanato, ma non tarda ad addormentarsi e a russare forte. Un cameriere, attratto dal rumore, crede di aver da fare con un ladro e sta per bastonarlo a sua volta, ma poi, persuaso dell’errore, lo lascia libero.
Il disgraziato se ne torna all’osteria, ma la fortuna lo perseguita. La camera che egli occupa, è occupata pure dal Riccardi il quale, pensando alle delusioni della giornata, non può dormire ed effonde il suo dolore in sospiri; per conto suo il poeta pensa ai suoi e non può fare a meno di imitare l’amico. Ma quest’ultimo è assalito da un sospetto: è forse Nicherosio il suo rivale fortunato? Cominciano ad offendersi, poi si sfidano: gli amici intervengono a sequestrare le armi, ma la lotta avviene ugualmente: il piccolo e sottile Nicherosio combatte con semplice bastone che gli serve come una lancia; l’altro si accontenta di un osso di prosciutto e una vecchia padella che sfonda sulla testa del malcapitato. Infine, per l’intervento dei comuni amici, rifanno la pace e poiché nessuno ha più voglia di andare a Venezia, si riprende la via del ritorno. Ma il buon umore non è esaurito: signore e cameriere pensano ancora a divertirsi. Colto il momento opportuno, gridano di aver visto un topo paralizzando così di terrore il grosso Riccardi; il poeta che cantava seduto su un pagliericcio vi è destramente cucito da una cameriera, così che quando fa per alzarsi, i suoi calzoni vanno in pezzi. Vedendolo in quello stato tutti ridono e ride anche il lettore per la soddisfazione di essere arrivato alla fine.
Anche solo da un rapido riassunto, è facile capire come l’unico vero pregio del poemetto sia quello di conservare tra le sue pagine la veneranda polvere dei secoli. Il pomposo titolo “A Venezia con le dame” non è adatto alla vacuità del contenuto. Intanto il viaggio finisce a Piacenza, e poi questa prolissa narrazione, di ben mille settantasei versi, non è che una monotona enumerazione di cene, pranzi e brindisi. Gli episodi di sapore eroicomico sono di scarsa comicità e di gusto discutibile. Non manca qua e là qualche trovata originale, qualche arguzia felice, ma l’iniziale vena di umorismo si intorbida e sparisce ben presto sotto il cumulo di troppe chiacchiere.
Il genere letterario in cui Giuliano Rossi avrebbe potuto esercitare il suo ingegno con frutto, e forse raggiungere l’eccellenza, è la satira, come dimostra la risatina beffarda del: “Testamento de l’Aze”, che è il suo capolavoro. L’argomento è tratto da un fatto reale: il marchese Gian Andrea Spinola nella sua villa di Sestri teneva un asino che gli era molto caro, ma l’animale si ammalò e nonostante le cure prodigate, morì. Il poeta ne dà l’annuncio dopo un lungo preambolo che sembra l’ode funebre di un imperatore; indi passa in rassegna tutti i famosi asini della mitologia e della storia per concludere che nessuno avrebbe potuto reggere il confronto con quell’unico asino mai abbastanza compianto; quindi ne ricorda le preziose virtù e riferisce il suo testamento:
Re mae mascelle se re piggia in don
Un tà che a Sestri è nominou Sanson,
E che se dagghe ancon
Subito morto, l’unna e l’atra oreggia
A un sordo che re Mida s’assemeggia
…
Ancon ro piè con l’ongia lassia veuggio
A quarch’un chi patisce de mà d’oeggio
E lascio in so desgoggio
Ra lengua a tutto Sestri e in gratia soa
A re so donne lascio ancon ra coa…
Dopo i suoi tesori naturali, l’asino lascia, a chi ne ha più bisogno, le sue virtù:
Dre virtù sopra tutto
Lascio in primis con ogni reverensa
A ri frati vexin ra pasiensa;
E lascio l’astinensa
A quelli chi no han ni farinna
Ro silenzio a ri pesci in tra marinna
E ra virtù si finna
Dra castitè ra lascio a ri cappoin
L’obedienza a ri azeni mincioin
E ro voto meschin
Dra povertè comme re leze vuoeran
A quelli che de manco no ne pueran:
A ri azeni che s’oeveran
Idest in corte lascio unna medaggia
Con ra speranza sciù un saccon de paggia
Lascio ancon unna gaggia
De matti pere certi ommi abbalordii
Chi se fian d’azenetti travestii
…
Et item de mattò
Lascio unna quinta essentia a ri poeti
Perché ragnan comme azeni indiscreti
E perché miegio quieti
Restan dell’aro, mì ghe lascio in pegno
Un po’ de calamitta tira legno
E per dà in tro segno
Lascio unna pasta ancon straordenaria
A ri avari per fa castelli in aria
Lascio ancon una varia
Quantitè de fantastiche chimere
A quelli che predixan cose vere
Compassando re sfere
Lascio a chi in tre pecchè troppo se gloria
Sisifo, Titio, o Tantalo in memoria
E per finì l’istoria
Lascio ancon ben tappoù che o no consumme
Dui fiaschi grandissimi de fumme
Un per i beccafumi
Dri etiopici umoristi…
E l’atro per i stitichi archimisti;
A ri azeni ciù tristi
Lascio ra segretezza perché muè
No digan furbarie dri Morinè;
Lascio ancon per usanza
In-tro vende dro vin, ra temperanza
E lascio a ri çitten ra mae creanza;
Lascio ancon per usanza
Ra fortezza de schenna ri camalli;
Lascio ra vigilanza ancon a ri galli;
Lascio allegrezza e balli
A quelli che in sto mondo se ne stan
Mangiando a speise d’atri ro so pan;
Lascio ancon a ro can
Ra fedeltae zà che in sto mondo chie
De nominare l’omo se ne rie;
E ra giustisia assìe
Ra lascio a ri Dotti de l’atro mondo
Zà che in veira chi morta me confondo;
Ancon la zù a ro fondo
A ri antipodi lascio l’amicizia
Per contro chi l’invidia a ra marizia,
Ra gora e l’avarizia
L’ozio, ambizion, ra farsitè,
L’ira, l’ipocrisia; tanti atri muoè
A zi azeni nostrè;
Ra descordia no levo ni descosto
De donde zà ra misse l’Ariosto;
Mentre de là m’accosto,
Lascio ro ben de là, de sa ro vitio;
Da là ra quiete e de chi ro presipitio
Lascio perché in sperditio
L’onò, ra fè, ra verité, l’amò
Per cangio a tutti un poco dro mae umò
Che tanto acquista onò
Quanto l’omo deventa, in fa de l’aze,
Se non tutto, ro manco un pezzo d’aze…
Un’altra satira, lunghissima, è intitolata: “Ra predica dro naso dita da o padre Stoppa”. Il secentismo era penetrato anche nell’oratoria sacra. A volte si poteva vedere il predicatore mutarsi in una specie di istrione che, dimentico della santità del luogo e della dignità del sacro ministero, si sbracciava per divertire gli ascoltatori: uno di essi è appunto descritto vivacemente nel dialogo di due comari che Giuliano Rossi sembra avere colto dal vero:
Coma, elo ertuoso
O l’è un gran religioso
Ma pù ve ra dirò
Patiscio in cangio sò
De veiro montà sciù allandrigoù
Che pà che o n’haggie appointo ciù de scioù
Ma a veiro come presto o se ghe mette
Da foego ai mortaletti
Lascia annà e rosette
E prica, e sbatte, e mescia, e tocca e dalli
De chì, de lì, da là, de sciù, de zù
E picca, e vozi e cria de lungo ciù
E gratia Dè o ne sciuppa, cxome falo
Moè de Dè ghe n’halo
De roba d’in tra tiesta.
Giexo che tromba è questa.
Dopo esser passato di argomento in argomento, e da una burla all’altra, il predicatore, dice una facezia sul naso:
V’arregordaù quand’o se voze
Così in tro ciù bello in sciù dui pè
A quello chi ghe stava lì promiè
Che o ghe disse coscie:
Mi veggo un naso in questa giexa chie
Che pre di unna bonombra
Ghe stan sotto sinquant’anni all’ombra
Naso che quando appointo ro patron
Voè fase a ro barcon
Ghe beseùgna che compaisce avanti
Questo gran nazo de mioez’hoa inanzi
E con razon sciù questa banca a viezo
Tante nasecche se l’han misso in miezo.
La poesia non è brutta, anzi per un buon tratto diverte, anche se il poeta si lascia prendere la mano dalla sua smania di aggiungere parole, e con prolissità esagerata, finisce per rovinarla.
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