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POESIA GENOVESE NEL SEICENTO

GIULIANO ROSSI

Contemporaneo al Cavalli, ma molto diverso da lui, fu Giuliano Rossi, nato, non si sa quando, a Sestri Ponente, dove passò tutta o quasi tutta la sua vita. Si compiaceva di nascondersi sotto lo pseudonimo burlesco di Todaro Conchetta. Tra gli antichi lo ricorda l’abate Spotorno che della sua opera gli consacra non più di tre righe e Raffaele Soprani che ripete le scarse notizie dello Spotorno aggiungendo per conto suo che “hebbe molto familiari le Muse e tra coloro ai quali riuscì di ben poetare nella genovese favella fu egli senza dubbio il più gratioso, il più facile, il più gradito”. Le poesie del Rossi non furono pubblicate, ma raccolte in numerose copie manoscritte, e custodite nelle biblioteche. I manoscritti sono attualmente conservati, digitalizzati, nella Società Ligure di Storia Patria come “Poesie in Lengua Zeneise dro Signor Giurian Rosso”.

I

Per comprendere l’uomo e la sua opera, sarebbero indispensabili ampie e sicure notizie sulla sua vita e sull’educazione ricevuta, perché ogni scrittore riproduce nelle sue opere, oltre le proprie qualità personali, anche i caratteri dell’ambiente e dell’età in cui visse. Questa indissolubile congiunzione di qualità naturali e di influssi ambientali, si avverte chiara quando si esaminano opere di uomini tanto profondamente diversi come Gian Giacomo Cavalli e Giuliano Rossi. Nel primo, spirito assai più individuale ed elevato, le qualità personali ebbero così assoluta prevalenza, che la sua opera si potrebbe indifferentemente assegnare al secolo XV, XVI, o XVII; nel secondo, spirito leggero, il carattere personale fu così sopraffatto dal mondo esteriore, che si rivela immediatamente come figlio del suo secolo.

Questo per ciò che riguarda il contenuto. Per quanto concerne la forma accade il contrario: mentre il Cavalli accolse talvolta e fece suoi gli eccessi secenteschi, nulla o quasi nulla di simile si trova nel Rossi. E questo perché il Cavalli prese parte attiva alla vita letteraria del suo tempo, tanto da acquistarne anche i difetti, mentre Rossi restò sotto l’influsso dei poemi eroici ed eroicomici del secolo XVI. Si manifesta nei suoi versi una cultura non profonda, ma abbastanza larga e varia, bizzarramente infarcita di storia e leggenda, di dottrina sacra e di mitologia pagana; di classici italiani e latini; di poesia eroica ed eroicomica. Un curioso saggio della sua erudizione e dei suoi gusti, ce lo fornisce egli stesso in una poesia diretta al Padre Borsa, gesuita:

Reverendo Carissimo,

Se n’erra ro lunario

Omero in tra buccolica

Theofrasto in tra Physica

Virgilio in tra Retorica

Terentio in l’Asinaria

Plauto in tra Georgica

Baldo, Giason e Bartolo

In lege conculcatio

Paragrapho tentummodo

Codice ab alio latere;

Pontanus de prodigiis,

Seneca de officiis,

Cicero de controversiis,

Da puoè con ri mae prossimi

Autoi cuì celeberrimi

Ra Nazon con ro Bartoli

In çerte suoe bell’opere

Con duxent’atri savii

Intorno a sta sostanzia…

Questo Bartoli, per il quale mostra di avere una speciale predilezione, è il gesuita Daniello Bartoli, autore di parecchi trattati morali, ma specialmente noto per la sua “Storia della Compagnia di Gesù”. Data la familiarità che Rossi dimostra al Padre Borsa e la simpatia per il Bartoli, si ha ragione di ritenere che egli compisse i suoi studi in una delle scuole condotte dai Gesuiti. Terminati gli studi, si dedicò tutto agli affari: pare che esercitasse la professione di procuratore perché a una dama che gli chiedeva una poesia, rispondeva di non aver potuto finirla per l’eccessivo lavoro:

Stemm’a sentì, Signora, mi son chi

Pin stivoù fin all’orlo de daffà

Che no fasso atro moe che litigà

Per atri tanto sé quanto per mi.

E aggiando pin ra forma dro cappello

De comandi, de sgraxiore, de protesti

Con Bartoli, paragrafi e digesti

Sta Rota me fa voze ro servello.

Attendeva anche ad affari commerciali e teneva a Sestri un negozio forse appartenente alla moglie perché molte spedizioni, commissioni, vendite, diceva di farle per suo incarico. Nelle “Rime morali” ecco come consiglia i genitori:

… puoè mariero (il figlio) com’è usanza

Fè ch’o piggia dinè ciù che se pò

Impieghero in negosii e s’o l’avanza

Animero con dì che quello e sò

Comm’o guste ro guagno non occorre

Speroin a co cavallo quand’o corre.

Della moglie di lui, che dovette essere una donna eccellente, con l’unico difetto di avere la  lingua un po’ più lunga del necessario, non si conosce che il nome proprio, Cecilia, e il grande affetto che ella portava al marito il quale, a sua volta, mostrava di avere per lei una grande tenerezza. Tanto che, quando vuol raccontare a un’amica il tormento provato nel vedere la sua Cecilia soffrire, sa trovare espressioni delicatissime in cui è manifesta l’ispirazione dantesca:

… gh’oeggio tanto ben

Puoe l’è raxon, se l’è ra mae meità

Patì tanto per mi, ni ciù, ni men.

Anzi queste son còse naturè

No me stae a dì che Plinio se l’assoenna

Metteì lì doì instromenti ben accordà

Se puoessia l’un appresso l’àtro soenna

Eccove per occulta simpatia

Per ascosa virtù l’atro reseunna…

La famiglia era assai numerosa – otto o dieci figli almeno – e la necessità di provvedere ad essi non gli lasciava il tempo di occuparsi di poesia: egli se ne doleva con una dama sua amica, fortemente rammaricato perché i poeti godevano di scarsa considerazione:

Sicché faè pù ro conto: gran famiggia

Moggiè, diavi, triboli, boghezzi

Cieti, negozii, careghi, angarezzi

Povero Giurian, vattel’a piaggia

Poscia, patronna, me direi: da poco

T’è donca sì mincion da spaventate?

Ma che. Son cose umane, cose usate

Scusème se con voì ne scioro un poco.

Veuggio solo inferì che ri travaggi

No se confan con ro versificà

Oltre che in questo magro temporà

Ri poeti son magri personaggi

Chi va derrè a re Muze resta in zero

L’è morto Mecenate un pezzo fà

Fin ro grande Ariosto ro provà

Ni ghe zovà cantà ben de Ruggero.

Onde lè ne lascia scrito coscì:

Di ciarle scioperate immagin’hanno

Le cantilene che i poeti fanno

E se ro dixe liè ch’ho da dì mi?

Nonostante tante occupazioni, trovava tuttavia il tempo di frequentare le case dei nobili che in Sestri, Cornigliano e nei dintorni si recavano in villeggiatura. I rapporti che intercorrevano fra lui e costoro erano gli stessi che in epoca romana passavano tra patrono e cliente: lo invitavano a pranzo; lo incaricavano di piccoli servigi, gli facevano talvolta qualche piccolo regalo in denaro ed egli li compensava con doni del suo orto; si mostrava ossequioso e pronto a eseguire i loro ordini; li divertiva a pranzo con i suoi versi e le sue facezie e si permetteva anche di consigliarli o di pungerli come un giullare. Di persona era piccolo e sottile; di viso “non gueri bello de natura”, ornato di un gran naso di cui si burlava egli stesso. Negli ultimi anni della sua vita usava frequentare in Genova la località di Banchi, centro, già fin d’allora, della vita commerciale della città, e a Genova si prese la peste e morì nel 1657. La sua fu dunque una vita agitata ma deprimente e monotona. Il tribunale lo metteva in contatto con una folla di minchioni imbrogliati e di furfanti arruffoni; speculatori, affaristi, gente senza coscienza e senza scrupoli; la bottega con facchini, serve, bottegai, contadini: gente d’ogni sorta, d’ogni levatura, d’ogni moralità: tra i nobili che frequentava avrebbe potuto trovare sollievo ma, infrolliti nella mollezza, costoro non sempre gli offrivano esempi particolarmente edificanti.

La sua attività fu quindi circoscritta ad un mondo piccolo, di gente affaccendata e inquieta nei piaceri, nei bisogni, negli interessi materiali; poco attenta allo spirito, un mondo soffocante e mortificante da cui un genio sarebbe uscito o separandosene o dominandolo; a cui invece un uomo d’ingegno vivace sì, ma non vigoroso doveva ineluttabilmente adattarsi. E questo spiega il carattere delle sue poesie: ora basse, grossolane e volgari; ora futili, argute e leggere, ora sagge e contegnose, ma che comunque offrono una ricca fonte per lo studio dei costumi.

II

Le poesie di Giuliano Rossi varie per metro, per valore, per argomento, non sono ordinate secondo un qualsiasi criterio di tempo, forma, contenuto, ma sono affastellate in un amalgama curioso e stravagante. Volendo dar loro un certo assetto, si potrebbero dividere in poesie erotiche, giocose, serie. In quelle erotiche è l’atteggiamento sfrontato dell’Aretino e la volgarità del Folengo, senza il mirabile artifizio di quel suo maccheronico che un po’ mostra e un po’ nasconde, con quel gioco di luci ed ombre che sa rendere piacevole la materia. La lingua genovese, usata con tanto garbo e tanta signorile eleganza da Gian Giacomo Cavalli, diventa, fra le mani di Giuliano Rossi, tutt’altra cosa. Egli non rispetta nessuno: a un gentiluomo suo “patrono”, che ha sposato una donna magra, manda, per complimento, un sacco di trivialità; a una dama che gli ha chiesto informazioni sul conto di una balia, gliele manda, ma tali che peggiori non potrebbero essere; infiora di ambiguità un biglietto a una monaca; a un abate che gli ha chiesto in prestito un canarino, risponde con un lungo sonetto che è tutto una pornografia. Tuttavia più tardi, in due commoventi ottave, espresse il suo pentimento:

Quando penso a ra vitta ch’ho passoù,

Pà che m’asseunne e che a no sé coscie,

Che veggo in quanto laççi son incaimpoù

D’odii, d’amoì e di vaganterie;

D’avei ro camin drito sempr’erroù,

Daeto in tre rà dro fumme e dre pazzie

Senz’attastà ro guado e ro sò fondo

Che m’era daeto a ri piaxei dro mondo.

De tutto, se ben tardi, aura pentìo

Conoscendo ro tempo haveì mà speizo,

Haveì, peccando, tanto offeiso Dio

Per dà gusto a ro senso e a quell’atteiso,

Pa roba e sanitae desmenuio

Né daet’oreggia a chi me n’ha repreiso

Scandalizoù ro mondo in mille bande

Sento desgusto e pentimento grande.


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