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STRALCIO DAL ROMANZO “LA NUOVA TERRA”

 

DI EMILIO BIAGINI

 

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Volume ordinabile via <edizioni@fedecultura.com>

 

Prologo

 

1

Le trafitture venivano a ondate, sempre più frequenti e profonde, dal ventre gonfio della donna che si muoveva con disperata lentezza, come un animale ferito. Eppure la legna doveva portarla fino alla cucina, altrimenti la padrona l’avrebbe battuta di nuovo.

La padrona era molto più vecchia di lei e sformata dalle continue gravidanze, e non amava certo che il marito trascorresse le notti con la schiava. E poi la casa era già piena di bambini o, come diceva il predikant girovago, “benedetta da abbondante prole”. Perché aumentare ancora il numero degli hotnot? Ce n’erano già a sufficienza per tagliare la legna e trasportare l’acqua. Questo diceva la padrona, questo ripeteva sempre la padrona alle amiche delle fattorie vicine, la Visser, la Schoeman e la van der Merwe, sempre le stesse amiche, sempre le stesse parole. Per raggiungere le altre fattorie occorreva un viaggio di alcuni giorni sul carro trainato da buoi, e si finiva per andarci assai di rado. Le poche idee non circolavano molto velocemente.

La donna aveva anche un nome, con cui i padroni avevano deciso di chiamarla. Ma in quel momento non riusciva neppure a ricordarlo. Troppo atroce era il dolore. La legna le sfuggì e si sparse per l’aia. Ella si accucciò, poi si distese nella polvere e urlò.

La padrona si affacciò sulla porta:

— Che c’è, cagna? È il tuo bastardo che arriva? —

Un’altra schiava, giovanissima, dal corpo ancora acerbo, uscì di corsa dalla grande casa, si precipitò giù dallo stoep (lo zoccolo rialzato che correva tutto intorno alla casa) e corse ad aiutarla. Anche lei aveva un nome: ed anche un cognome, quello stesso dei padroni: van der Ross. Nessuno schiavo aveva un cognome di sua scelta, e del resto a che serve un nome se si è schiavi? “Ehi tu”, o “cane”, o “lurido hotnot” sono più che sufficienti. La nuova arrivata aveva i lineamenti marcati della mezzosangue ottentotta. Quella che giaceva a terra aveva i tratti più fini, orientali, ed era molto scura di carnagione.

Quando l’ondata del dolore si ritirò per un attimo, la donna si alzò, sostenuta dall’altra, ed entrò, il volto contratto e madido di sudore, nella casa dei van der Ross. Anche lei era una van der Ross, in fondo. Non aveva nessun altro cognome.

Nel grumo di case di mattoni e di vie fangose, che solo da poco era apparsa sulle carte geografiche come Kaapstad (e non sapeva ancora che sarebbe stata tradotta in Cape Town, Città del Capo), dove sedeva il governatore e tutta la gente importante della colonia, il divieto della Nederlandsche Oostindische Compagnie, la Compagnia Olandese delle Indie Orientali di detenere schiavi cristiani era stato proclamato da due settimane, ma nessuna notizia ne era ancora giunta in quella remota valle. Sessantaquattro anni dopo, nel 1834, la schiavitù sarebbe stata abolita dal governo britannico, causando le ire dei coloni Afrikaner, molti dei quali dovevano emigrare all’interno fondando le repubbliche boere. Ma le comunicazioni ufficiali, col sigillo in ceralacca rossa, che differenza avrebbero fatto? Le leggi non possono cambiare il colore della pelle. Così erano condannati ad esistere, nelle generazioni a venire, van der Ross bianchi, e van der Ross meticci, e van der Ross dal colore incerto.


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