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Nel “paradiso dei lavoratori” il divario di paghe e stipendi fra dirigenti e operai era molto più forte che negli USA, e addirittura ancora più forte di quanto non fosse nella Russia zarista. Negli anni antecedenti alla seconda guerra mondiale un operaio sovietico “lavorante a catena” [di montaggio, si spera] era pagato 125 rubli al mese (circa 50 dollari), ossia 1500 rubli all’anno, ma i dirigenti sovietici dell’azienda (direttore, ingegnere capo, amministratore generale, direttore di produzione) ricevevano fra i 24.000 e i 36.000 rubli annui se la produzione dell’officina era buona.

[Ossia se aveva raggiunto o superato le quote stabilite dal piano; se poi la merce prodotta serviva davvero, quella era un’altra questione. Una barzelletta corrente era che un’azienda era stata premiata per aver superato di gran lunga le quote di produzione ma, andando a vedere cosa produceva, veniva fuori che fabbricava cartelli con la scritta “Non funziona”.]

Nello stesso periodo di tempo un operaio americano non qualificato riceveva in media 1200 dollari l’anno e il suo direttore d’officina o ingegnere capo era pagato fra i 10.000 e i 15.000 dollari. Ciò significa che i tecnici dirigenti nelle industrie guadagnavano nell’URSS da quindici a venti volte quanto era pagato a un lavoratore non qualificato e negli Stati Uniti da otto a dieci volte tanto. La differenza di salario tra un dirigente tecnico e un operaio era il doppio nell’URSS rispetto agli USA. In tale paese le imposte sul reddito gravavano assai sul bilancio di un dirigente industriale: su un introito di 15.000 dollari l’imposta poteva essere del 30%.

Nell’URSS i dirigenti di officine o erano esenti da tasse o ne erano colpiti assai leggermente: l’aliquota più alta era del 10% e la maggior parte dei direttori e degli ingegneri industriali non la pagava; infatti era raro che un cittadino sovietico potesse occupare un incarico direttivo se non aveva meritato almeno una delle molte decorazioni e onorificenze esistenti, ognuna delle quali comportava esenzione parziale o totale dalle tasse.

Si aggiunga che, più ancora dello stipendio, contava il fatto che i proventi di un dirigente industriale sovietico consisteva in premi in denaro e ricompense in beni e servizi, spesso di tale valore che nessuna somma in denaro avrebbe potuto procurarli in un paese di così scarse disponibilità; poteva ad esempio ricevere una casa appositamente costruita, e i sui figli godevano di un monopolio pressoché totale dell’accesso all’istruzione superiore.

Privilegi analoghi e talora ancora maggiori potevano toccare ai dirigenti statali, ai più eminenti professionisti e agli artisti. Già nel 1938 oltre metà degli studenti universitari era composta da figli di dirigenti industriali o statali e meno del 10% proveniva da aziende agricole, benché gli agricoltori costituissero ancora oltre il 50% della popolazione sovietica. Nel 1940 erano state introdotte tasse scolastiche per le università, allo scopo dichiarato di sbarrare la strada ai ceti operai perché i loro figli non accedano a professioni da “colletti bianchi”.

Dopo l’attacco tedesco all’URSS il divario si accrebbe ulteriormente: un dirigente industriale che nel 1938 guadagnava 1.500 rubli al mese, nel 1945 ne guadagnava 10.000 o più, e riceveva premi in denaro ancora più sostanziosi, i “Premi Stalin” di 50.000, 100.000, 150.000 rubli. Al contrario, i divari salariali negli USA si erano ridotti per i forti aumenti agli operai. Sebbene il denaro in URSS contasse poco, essendovi poco o nulla da comprare, questi confronti sono altamente significativi.

Essi infatti svelano la vera natura dell’ideologia comunista. Ecco perché la cosiddetta “rivoluzione di ottobre” non fu affatto un movimento operaio, ma un colpo di stato militare; ecco perché, durante la guerra civile, come testimonia anche Boris Pasternak ne Il dottor Zivago, gli operai parteggiarono per i bianchi o addirittura si arruolarono negli eserciti bianchi, mentre i proprietari di aziende sostennero i rossi: per loro si prospettava infatti la possibilità di scambiare il rischio imprenditoriale con la più tranquilla posizione di funzionari statali aventi l’unica preoccupazione di consegnare le quantità di prodotto richieste dai piani.

I privilegi della Nomenklatura, così efficacemente descritti da M.S. Voslensky (1984, Nomenklatura: la classe dominante in Unione Sovietica, Milano, Longanesi, 2ª ed., trad. d. tedesco) nei paesi afflitti dal comunismo iniziano dunque fin dai primordi del dominio degli sciagurati rivoluzionari di professione. Questo dunque è sempre stato il comunismo: un comodo sistema di occupazione di posti privilegiati e di sfruttamento ai danni dei più deboli da parte di una scaltra e spietata banda di parassiti di regime.

A questo precisamente aspiravano anche i rivoluzionari nostrani, gli striscianti blateratori dei salotti buoni e delle televisioni okkupate e avvelenate, i kani da guardia delle kase editrici blindate, i mirakolati improvvisamente konvertiti dal fascismo al verbo komunista, i kapò della kontestazione sessantottarda, tutti quelli che hanno intossikato l’Italia e continuano a intossikarla. È sempre la stessa identica storia, perché il diavolo è monotono.

EMILIO BIAGINI


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