Sabina Fulloni
Gioia del Colle. Il restauro di un castello svevo nelle foto di Arthur Haseloff
(Traduzione dal tedesco di Emilio Biagini)
Nel 1905 il medievalista Arthur Haselhoff (Fig. 1)[1] fu inviato, per volere del Kaiser Guglielmo da Berlino a Roma, con l’incarico di organizzare un reparto di storia dell’arte e di compiere ricerche sui castelli svevi dell’Italia meridionale, operando in qualità di terzo segretario dell’Istituto Storico Reale Prussiano, fondato nel 1888 e presieduto dal 1903 da Fridolin Kehr. Nell’ambito di tale progetto, Haseloff compì tra il 1904 e il 1911 sette lunghi viaggi nel Mezzogiorno d’Italia. Uno dei suoi obiettivi era il castello di Gioia del Colle, che egli visitò più volte, come tutte le costruzioni di maggiore complessità, per completare e controllare le sue descrizioni (Fig. 2). Il carteggio con Kehr (1907-1911) documenta quattro escursioni a Gioia del Colle. I risultati della sua ricerca sono esposti in una relazione inedita inviata al Kaiser. Questa descrizione era accompagnata da fotografie che vengono alla luce per la prima volta dopo quasi 100 anni. L’ordine cronologico originario è tuttavia sconosciuto. Nel 1907 il castello era in condizioni precarie, l’occasione per un’indagine più ravvicinata del sito si presentò inaspettatamente nello stesso anno, come Haseloff riferì per lettera a Kehr: “Ho parlato di recente del castello di Gioia col marchese Luca Resta, che lo farà rimettere in ordine da Pantaleo. Si presenterà così l’occasione di studiare con grande accuratezza questo castello.”[2]
Storia e stato della ricerca
Il castello di Gioia, ad una quota di 360 m sul livello del mare, forma il nucleo centrale del villaggio, che sorge sul tragitto Trani-Bari (Fig. 3).
La pianta originale si è conservata nei lati orientale, meridionale e occidentale, mentre Haseloff riteneva che il lato nord fosse di differente origine. Sul lato meridionale si ergono due torri quadrate a quattro piani: la torre de’ Rossi, alta m 26,40 e larga m 10.50, e la torre dell’Imperatrice, alta m 24,10 e larga m 9,70, quelle del lato settentrionale mancano, secondo la tipologia dei castelli svevi (Fig. 4).
L’attuale ricerca ha dimostrato che si trattava in origine di un avamposto bizantino[3]. Ivi, all’inizio del sc. XII, venne costruito un castello normanno da Riccardo Siniscalco, figlio di Drogo d’Altavilla e quindi nipote di Roberto Guiscardo[4]. Nel 1180 venne menzionato in un documento che parla della chiesa di S. Stefano, dicendo che “si trova nel quartiere del castello, non molto lontana dal muro di esso”.[5] Sembra che intorno al 1230 Federico II, di ritorno dalla Crociata, abbia sostato a Gioia del Colle. In questa occasione avrebbero avuto luogo definitivi interventi costruttivi, grazie ai quali il castello fu incorporato nella cintura imperiale di fortificazioni.[6] Questa inclusione viene datata dal fatto che le fortezze di Bari, Trani e Brindisi furono ristrutturate nel 1233. Ricerche scientifiche più precise per documentare l’eventuale ristrutturazione di Gioia non hanno finora avuto successo. Haseloff menziona una visita imperiale dell’anno 1222, durante un viaggio da Messina a Brindisi, nel quale Federico II dovette visitare la costruzione normanna di Siniscalco[7].
A partire dal sec. XVI il castello perdette il suo valore strategico e divenne proprietà privata. Dopo i principi Acquaviva d’Aragona, il castello appartenne alla famiglia De Mari, fino al 1868 a Donna Maria Emanuela Caracciolo. In questo periodo l’edificio subì l’inserzione di molte sovrastrutture come pure demolizioni, finché, al principio del sec. XX, il marchese Luigi Resta, nuovo proprietario, tramite il viceispettore alle Belle Arti, l’architetto Angelo Pantaleo, diede inizio a vasti restauri, che a quel tempo destarono grande clamore.
Come molti edifici medievali dell’Italia meridionale, si riteneva che il castello fosse svevo. La leggenda popolare si basava sulla storia di Bianca Lancia che, sospettata di adulterio e rinchiusa nel castello vi partorì Manfredi. Per provare la sua innocenza, ella avrebbe mandato all’imperatore il bambino e i suoi seni tagliati. Questo racconto ebbe origine dall’esistenza di due arrotondamenti in una lastra quadrata nella parete sud della torre meridionale all’interno del carcere semisotterraneo. Inizialmente considerati rarità, simili particolari scultorei sono stati rinvenuti in gran numero in edifici medievali del Mezzogiorno d’Italia, ad esempio sulla torre del castello di Monte Sant’Angelo e sul campanile dell’abbazia della Santa Trinità sul Monte Sacro nel Gargano. A tutt’oggi una delle torri porta il nome “torre dell’Imperatrice”, sebbene Bianca Lancia non sia mai stata imperatrice. La seconda torre invece prese il nome dalla famiglia fiorentina De Rossi la quale, a giudicare in base a fonti tarde, nel 1217 si mise in contatto con la corte imperiale per ottenere il permesso di insediarsi a Gioia del Colle[8].
Tuttavia fra il 1930 e il 1960 il castello decadde, finché l’ingegner De Vita restaurò l’edificio e attuò estese misure di consolidamento (1969-1974)[9].
Il restauro all’inizio del sec. XX
I lavori interessarono le ali occidentale e meridionale, con le relative torri, e furono effettuati dal viceispettore alle Belle Arti, architetto Angelo Pantaleo [il testo reca: Antalw, sic], conosciuto da Haseloff fin dal suo viaggio del 1904 lungo l’Adriatico.
In applicazione delle pratiche di restauro allora in uso, il cosiddetto “isolamento”, l’edificio, nella prima fase fu “isolato”, in modo da mettere in evidenza la muratura originaria. Questo intervento interessò soprattutto le facciate esterne, che in epoche più recenti erano state perforate da numerose finestre e porte, dato che il pianterreno era stato trasformato per ospitare negozi e abitazioni (Fig. 5). La muratura fu completata con pietre intagliate antiche originali e con altre moderne ma simili, finestre e aperture di porte furono integrate nelle parti dove mancavano. Maggiori difficoltà presentava la copertura, sia delle ali come delle torri, tuttavia non vi furono scrupoli ad intervenire anche su vasta scala (Fig. 6). Sul lato nord vi era uno spalto difensivo completo, mentre lo spalto occidentale si era invece conservato solo in parte, per cui venne completato con muratura a feritoie e senza merlature, a parere di Haseloff correttamente.
Il medievalista tedesco riconosceva quanto fosse difficile ripristinare le facciate interne, che nel corso dei secoli erano state profondamente alterate da costruzioni ad esse addossate.
Alla facciata meridionale della corte furono demolite due piccole scale aperte che conducevano alle abitazioni del piano superiore (Fig. 7). Di conseguenza vennero portati a giorno due portali e una serie di piccole finestre, come pure un portale maggiore ad architrave rettilinea. Al piano superiore, dopo la rimozione degli “ingredienti moderni”, per citare Haseloff, venne scoperta una grande bifora, che fu ripristinata reinserendovi i frammenti ritrovati che le appartenevano.
Il lato occidentale richiese l’adozione di misure radicali, poiché l’ingresso principale all’angolo di nord-ovest era stato drasticamente trasformato da un grande arco che sosteneva una terrazza antistante il piano superiore dell’ala nord (Fig. 8). Dopo la demolizione di tale struttura venne alla luce un avancorpo che si elevava sull’ampia arcata del portale e un piccolo arco murato in precedenza. Al disotto si stendeva il passaggio all’ala occidentale.
Secondo Haseloff questo avancorpo poté essere costruito solo per offrire un collegamento simile ad una scala all’aperto, come quella costruita con grande sfarzo da Pantaleo (Figg. 9, 10).
Il grande portale principale al piano superiore era ben conservato. Nel corso di questi costosi lavori furono ritrovati numerosi frammenti delle lastre della balaustra che erano state riutilizzate nella terrazza adiacente. Lavorate a bassorilievo con uno sfondo profondo, queste rappresentavano animali e scene di caccia in stile orientalizzante. La loggia restaurata fin dal 1909 venne quindi completata e strutturata con questi ritrovamenti come pure con parti moderne.
Sopra il portale principale venne collocato uno stemma rappresentante un’aquila, ricostruito da diversi frammenti, che tuttavia Haseloff identificò come non svevo e datò con certezza ad un’epoca più recente. Accanto alla bifora furono restaurate anche diverse finestre più piccole. Nell’insieme il restauro del piano inferiore non si rivelò complicato, dato che le stanze erano prive di decorazione (Fig. 11).
Al contrario il piano superiore aveva una ricca decorazione, che si manifesta anche nei seggi ai lati delle finestre, così che gli spazi ne ricevono una molteplice suddivisione (Fig. 12). Nella sua relazione al Kaiser, Haseloff riferisce che erano stati scoperti in questa zona dei notevoli frammenti scultorei, che dimostrano ulteriormente la ricchezza di queste stanze. Distinti esempi di ciò sono i frammenti in base ai quali, insieme a numerosi completamenti moderni, sono stati assemblati nella grande sala un trono e un camino (Figg. 13, 14). Non mancavano tuttavia dubbi sull’esattezza con cui i pezzi erano stati assemblati (Fig. 15). In particolare ciò vale per il trono, i cui bassorilievi sono i più belli dell’intero castello. Vi si vedono falchi contrapposti di fronte ad un fregio, una composizione nella quale si inseriscono croci. Haseloff era in dubbio se questi pezzi eccezionali appartenessero a un trono. La loro posizione sembra essere stata scelta in modo del tutto casuale.
Nonostante queste divergenze di opinione, Haseloff fu nell’insieme d’accordo con le misure adottate da Pantaleo. A suo parere, il lavoro alle mura del castello, la ricostruzione della scala esterna, l’integrazione e la riapertura di porte, finestre e portali, erano stati eseguiti in modo corretto. Le critiche erano dirette piuttosto alla ricostruzione dell’arredo interno, che probabilmente era stata affidata ad operatori privati. Le intenzioni dell’architetto Pantaleo non sono chiaramente precisate su questi come su altri punti.
Datazione del castello
Nell’ambito di questa ricerca appare degna di nota l’opinione di Haseloff per quanto riguarda la datazione. Il medievalista tedesco resta finora l’unico che non assegna il castello di Gioia all’epoca sveva. Se il viceispettore alle Belle Arti fosse d’accordo non si sa, dato che le sue annotazioni non sono state finora oggetto di ricerche.
Le tesi di Haseloff furono tuttavia sostenute dai lavori di Pantaleo: molti dei dettagli portati alla luce facevano dubitare che si trattasse di un edificio svevo. Secondo Haseloff, il castello di Gioia è un edificio unitario, simile nella pianta ai castelli svevi, ma l’allestimento degli interni apparterrebbe a un’epoca più recente. Le sue solide argomentazioni, qui di seguito esposte, erano il risultato delle sue osservazioni e della vasta esperienza accumulata nel Mezzogiorno fin dal 1904[10].
Anzitutto l’inserzione di numerose finestre nella facciata esterna del piano superiore – appena al di sopra del pianterreno – era incompatibile con le misure di sicurezza dell’epoca sveva. Per lo stesso motivo le mura della fronte meridionale del castello erano troppo deboli ed assolutamente non in grado di sostenere un eventuale assedio. Inoltre la torre sud-ovest – descritta come capolavoro dell’architettura medievale – nella sua struttura con forni, prigione sotterranea e stanze, gli pareva molto superiore alla tecnologia dell’epoca sveva. Infine vi sarebbe un marcato contrasto tra la decorazione interna, caratterizzata da un gotico orientalizzante e fiorito, e il classico ma rigido gotico degli ultimi anni dell’imperatore Federico II, come ad es. a Castel del Monte.
Di conseguenza Haseloff si orientò verso l’epoca angioina, senza da principio impegnarsi per una data più precisa[11] Sotto Carlo I di Anjou il castello era di proprietà del suo consigliere Giovanni di Cleriac, più tardi passò ai principi angioini di Taranto. Dopo che questi si furono estinti, l’edificio appartenne alla famiglia Balzo-Orsini, finché nel sec. XV venne in possesso dei duchi d’Acquaviva d’Aragona (1464-1614). In effetti sulla chiave di volta di uno dei portali sono scolpiti quattro stemmi aragonesi pendenti da un bastone. Sul portale si vedevano pure graffiti del sec. XV. E proprio a quest’epoca di dominio aragonese Haseloff attribuisce il castello, con riferimento alle osservazioni citate sopra. Tuttavia ammette che per consolidare la sua tesi occorrono ulteriori ricerche di archivio e rilevamenti, almeno nell’ala orientale.
Ad ogni modo il viceispettore Pantaleo si adeguò alla tendenze contemporanee in fatto di restauro, e sicuramente del suo committente Luca Resta anche per venire incontro ai desideri di costui, così che sostenne l’idea di un castello medievale recante sovrapposizioni successive, e che nell’Italia meridionale doveva ovviamente appartenere all’epoca sveva, come Haseloff ancora una volta affermò: “… e poiché la maggioranza dei ‘ricercatori’ prendono sistematicamente per svevi gli edifici più tardi, lo fanno anche nel caso di Gioia”[12].
La tutela dei monumenti in Italia all’inizio del sec. XX
Nella seconda metà del sec. XX l’ingegner De Vita restaurò l’intero sito per ospitare nell’edificio allora in rovina la biblioteca civica e il museo della collezione archeologica di Monte Sannace con numerose sale per conferenze.
In tale contesto fu demolita la scala esterna edificata “in stile”; oggi non resta quasi nulla dell’opera di Pantaleo, che nell’insieme viene giudicata molto negativamente.
Tali interventi peraltro si accordano con la concezione che Pantaleo aveva del Medioevo, o meglio, precisando più esattamente per la Puglia, l’interpretazione in chiave “sveva” si accorda con le inclinazione estetiche dell’epoca. Nel suo lavoro coesistono le due tendenze di allora riguardo alla tutela dei monumenti: da una parte il “restauro stilistico”, pesante eredità del sec. XIX, per cui un monumento, in base a criteri di analogia, poteva essere integrato, corretto, riscoperto e inventato (Figg. 15, 16). Questo è il concetto di fondo, da cui scaturirono nuove idee che, infine, all’inizio del sec. XX, condussero al “restauro storico”, in base al quale venne abbandonato il concetto dell’unità stilistica e della simmetria a favore di un restauro basato su ritrovamenti inconfondibili. Questo criterio dà quindi luogo a un intervento unico molto adattato in modo specifico.
Angelo Pantaleo si conforma in qualche modo ad entrambi i criteri, nell’insieme sembra propendere verso la seconda scuola di pensiero. Se le osservazioni di Haselhoff sono esatte, le “invenzioni” si limitavano all’interno e ad alcune parti della scala esterna. Pantaleo si dedicò con forte consapevolezza al restauro dell’edificio e probabilmente in qualche punto fece concessioni al gusto neogotico del proprietario.
Un giudizio scientifico deve tuttavia finora restare sospeso, dal momento che né il castello, né l’opera dell’addetto alla tutela dei monumenti Pantaleo sono stati ancora esaustivamente investigati.
Foto
Fig. 1 – Arthur Haseloff a Melfi, S. Maria Nuova, 1906 Inv. 0701
Fig. 2 – Gioia del Colle. Veduta d’insieme, 1907 Inv. 2401
Fig. 3 – Gioia del Colle. Castello, Pianta
Fig. 4 – Gioia del Colle. Castello, Sud, Le torri prima del restauro, 1907 Inv. 4294
Fig. 5 – Gioia del Colle. Castello, Veduta esterna dalla piazza, 2 Inv. 240 o.J.
Fig. 6 – Gioia del Colle. Castello, Ala meridionale, OG, Operai e Panteleo [sic], 9 Inv. 576 o.J.
Fig. 7 [erroneamente numerata 8, come si deduce dal fatto che nel testo, a proposito di questa figura, si parla delle scale] – Gioia del Colle. Castello. Corte interna, Ala meridionale prima del restauro, 1 Inv. 575 o.J.
Fig. 8 [erroneamente numerata 7, come si deduce dal fatto che nel testo si nomina il “grande arco”] – Gioia del Colle. Castello, Corte interna prima del restauro, o.J. Inv. 2419
Fig. 9 – Gioia del Colle. Castello, Lato occidentale, Scalinata in costruzione, o.J. Inv. 15337
Fig. 10 – Gioia del Colle. Castello, Scalinata, o.J. Inv. 5752
Fig. 11 – Gioia del Colle. Castello, Ala occidentale, EG, o.J. Inv. 5792
Fig. 12 – Gioia del Colle. Castello, Ala meridionale, OG, Sedili, o.J. Inv. 5770
Fig. 13 – Gioia del Colle. Castello, OG, Camino, o.J. Inv. 4320
Fig. 14 – Gioia del Colle. Castello, Sala del trono, o.J., o. Inv.
Fig. 15 – Gioia del Colle. Castello, OG, Trono in costruzione, o.J., o. Inv.
Fig. 16 – Gioia del Colle. Castello, OG, Pantaleo con operai prima del montaggio, o.J. Inv. 5765
Fig. 1
Fig. 2
Fig. 3
Fig. 4
Fig. 5
Fig. 6
Fig. 7
Fig. 8
Fig. 9
Fig. 10
Fig. 11
Fig. 12
Fig. 13
Fig. 14
Fig. 15
Fig. 16
[1] Uwe ALBRECHT: Arthur Haseloffs Beitrag zur kunsthistorischen Dokumentarfotgraphie, in Arthur HASELOFF und Martin WACKERNAGEL. Mit Maultier und Kamera durch Unteritalien. Forschungen zur Kunst im Südreich der Hohenstaufen (1905-1915), Kiel 2005, 8. 33-46.
[2] Deutsches Historisches Institut (DI-II) Rom, Archiv R3 Personal 18-1, Haseloff, Prof. Dr. Arthur, 1915-1922, Lettera a P.F. Kehr del 13 luglio 1907, fol. 95.
[3] Marcello BENEDETTELLI: Gioia del Colle. Il castello: i restauri, in: Castelli e cattedrali di Puglia, a cent’anni dall’Esposizione Nazionale di Torino; Bari 1999, pp. 552-558.
[4] Giovanni GUERRIERI: Il conte normanno Riccardo Siniscalco ed i monasteri benedettini cavesi in Terra d’Otranto, Trani 1899.
[5] Raffaele LICINIO: Castelli, foreste, masserie. Potere centrale e funzionari periferici nella Puglia del secolo XIII, Bari 1991, 8, 40.
[6] Jean Marie MARTIN, Errico CUOZZO: Federico II. Le tre capitali del Regno, Palermo – Foggia – Napoli, Napoli, 1995, pp. 69-78.
[7] Arthur HASELOFF: Architettura sveva nell’Italia meridionale: Bari 1992, p. 355.
[8] Historia della vita, miracoli, traslazione e storia dell’illustrissimo confessore di Cristo San Nicolò il Magno, arcivescovo di Mira, patrono e protettore della città di Bari/composta dal padre Antonhio Beatillo da Bari – Et in questa terza edizione con nuova aggiunta delle chiese fabbricate in Palermo; Palermo 1620, p. 712.
[9] Raffaele DE VITA: Gioia del Colle, Castello, in: Restauri in Puglia 1971-1983, II, Fasano 1983, pp. 166-169.
[10] Sabina FULLONI: Il progetto di Arthur Haseloff sui castelli normanno-svevi (1905-1915). Cento anni di archeologia e storia dell’architettura medievale nel Mezzogiorno d’Italia, in: Archivio storico per la Calabria e la Lucania 71, 2004 (2006), pp. 128-146.
[11] Haseloff trovò forti analogie fra la torre di sud-ovest di Gioia e il castello di Montecorvino, che con l’architetto Pietro di Agincourt apparteneva agli Anjou al tempo di Carlo I. [Nota poco chiara. Anche l’architetto “apparteneva”?]
[12] DI-II Roma. Archivio R3 Personale 18-1 (come nota 2), Lettera a P.F. Kehr del 5 agosto 1911, f. 161.
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