Mettendo in ordine gli scatoloni dopo gli ultimi due traslochi abbiamo ritrovato documenti interessanti che riguardano il passato della nostra famiglia. Questa foto del 1934 è stata scattata a mio zio Gian Giuseppe detto Pino il giorno della sua laurea in Giurisprudenza. Il segno di lutto che porta sul risvolto della giacca è dovuto alla morte di sua nonna materna Virginia avvenuto poco tempo prima. In un altro scatolone abbiamo trovato la tesi di laurea, documento interessante, oltre che per il contenuto anche per lo stile molto elegante sebbene appartenente ad un’altra epoca.
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Università di Genova
Facoltà di Giurisprudenza
IL GIUDICE DELL’AZIONE È IL GIUDICE DELL’ECCEZIONE
Tesi di Laurea di Gian Giuseppe Bonanni, 1934
Sommario
Proposizione
Parte prima
1 Le regole di diritto in genere
2 Le regole di diritto e il nostro Codice Civile
3 Origine della regola “Il giudice dell’azione è il giudice dell’eccezione”
4 Importanza della questione
5 L’azione
6 L’eccezione
7 Meccanismo e funzionamento delle eccezioni
8 Recezione della regola nel nostro diritto
9 Opinioni degli scrittori
10 Stato della giurisprudenza
11 Esame delle varie teoriche
12 La legge nelle sue relazioni colla Regola
13 La Regola in relazione ai rapporti fra la giurisdizione civile e penale
Parte seconda
14 I fatti giuridici
15 Le questioni pregiudiziali
16 Questioni di Stato
17 Rapporti giuridici semplici
18 Rapporti giuridici complessi
19 Rapporti giuridici incompatibili col principale
20 Della sentenza, concetto generale
21 Distinzione fra sentenza di accertamento e di condanna
22 Le sentenze di mero accertamento, concetto
23 Cenni storici
24 Incertezze nel processo odierno
25 L’azione di accertamento nel processo italiano
26 Natura giuridica dell’azione di accertamento
27 Oggetto della sentenza di accertamento
28 Effetti della sentenza di accertamento
29 L’accertamento incidentale
30 Rapporto fra la domanda di accertamento incidentale e l’eccezione
31 La cosa giudicata, concetto
32 Risoluzione di questioni logiche nel processo
33 Conclusione
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PROPOSIZIONE
Il tema che mi propongo di trattare in questo mio studio è rappresentato da un principio, ormai dominante nel diritto moderno, tuttavia assai controverso presso di noi, e conosciuto dalla dottrina francese e nostra attraverso l’enunciazione della nota regola “Il giudice dell’azione è il giudice dell’eccezione”, formula, del resto che, se presa alla lettera, lo inquadrerebbe tutt’altro che colla dovuta esattezza.
Con altre parole, l’oggetto di questo mio studio si può così impostare, e cioè “se le questioni, che si presentano come pregiudiziali in un giudizio avente altro oggetto, possano essere decise dallo stesso giudice senza effetto di cosa giudicata (incidenter tantum), cioè al solo fine di preparare la pronuncia finale, anche quando non rientrino nella sua competenza.
Mi si vorrà concedere che, sulla questione, siamo tuttavia ben lungi dall’aversi raggiunto un accordo sopra una soluzione definitiva. Le opinioni che in proposito si sono manifestate, così in dottrina come in giurisprudenza, sono ormai tante e così disparate che sarebbe assai arduo il volerle tutte raggruppare e ridurre a sistema.
Lo stato attuale della questione aggrava quindi il compito di chi oggi imprende a trattarne, giacché, oltre la difficoltà somma di poter recare alla soluzione della stessa qualche nuovo contributo, riesce, per sé stesso alquanto arduo lo scegliere una teorica fra le molte state proposte, e tutte valentemente e sapientemente combattute e difese.
Chi scrive non si è proposto altro compito, e per quanto modesto non scevro di difficoltà, che quello di scegliere appunto, fra le diverse teoriche, quella di un maestro che, con piena convinzione, si sentisse di poter seguire, e di detta teorica farne possibilmente una ordinata esposizione.
Il lavoro è stato diviso in due parti: nella parte prima si tratta della questione in generale, chiudendo con una esposizione critica delle varie teoriche, a cui è fatto seguire un ultimo capitolo nel quale si espone e si spiega il comportamento non uniforme della legge in relazione alla regola, nei vari casi da essa espressamente disciplinati; nella parte seconda si parla, limitatamente a quanto può interessare e a chiarire la questione, di quegli istituti giuridici che hanno una più o meno stretta correlazione con la teorica seguita; la quale, e poi, come conclusione del lavoro, trova la sua esposizione nel capitolo finale.
Quanto alla bibliografia, lo scrivente fa risaltare che gli autori da esso compulsati sono quelli stessi che vengono citati nel corso del lavoro, in occasione dello svolgimento di ogni singolo argomento.
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PARTE PRIMA
1.Le regole di diritto in genere.
In un frammento del Digesto si trovano tutti gli elementi e i requisiti che possono servire a definire con esattezza il concetto di “regula iuris”. Tale definizione è data dalla L.I.D., De regulis iuris, L.17: “Regula est, quae rem, quae est, breviter ernarrat. Non ut ex regula ius sumatur, sed ex iure quod est regula fiat. Per regulam igitur brevis rerum narratio traditur, et, ut sit Sabinus, quasi causa connectio est; quae simul com in aliquo vitiata est, perdit officium suum”. Paulus, lib. 16, ad Plautium.
Questa definizione è dovuta al contributo di tre grandi giureconsulti, poiché, come nota Gotofredo, la prima parte del frammento sino a “regula fiat” venne tolta da Plauzio e la parte rimanente è di Paolo che illustra la definizione di Sabino.
“Regula est, quae rem, quae est, breviter enarrat”; cioè la regola di diritto non è che una dichiarazione concisa del diritto esistente, ossia una breve esposizione di quei principi che in determinati argomenti devonsi osservare. “Non ex regula ius sumatur, sed ex iure quod est regula fiat.” La regola cioè, dovendo dichiarare solo il diritto quale è, non può essere essa stessa produttrice di norme giuridiche, ma dal diritto che si osserva rispetto a certi rapporti, come da preesistente materia, deve formarsi la regola. È contenuta in queste parole appunto la essenziale differenza che corre fra la “regula iuris” e la “norma agendi”: questa è il precetto legislativo medesimo, ossia il diritto oggettivamente considerato ed esistente come norma obbligatoria per tutti; la “regula iuris” invece è una derivazione delle stesse norme di diritto, una dichiarazione del diritto oggettivo, un mezzo utilissimo per facilitarne l’applicazione ai vari casi pratici, tanto per designarla la si disse regola che vale regolo, quasi a dire che essa è per il giurista quello che il regolo è per gli architetti.
Segue da ciò, e anche tale concetto è contenuto nella frase “ex iure quod est regula fiat”, che la regola essendo una derivazione dei precetti legislativi, non può essere che una produzione degli interpreti del diritto, ossia opera di privati, come precisamente lo fu, poiché l’origine formale della “regula iuris” è dovuta ai responsi che i giureconsulti romani davano sui casi che loro venivano sottoposti. In sostanza segue il testo, “per regulam igitur brevis rerum narratio traditur, et, ut sit Sabinus, quasi causae connectio est; quasi simul cum in aliquo vitiata est, perdit officium suum.”
La regola cioè è una concisa esposizione di una massima di diritto da paragonarsi a quella esposizione breve dell’argomento della lite che l’oratore faceva al giudice, prima di discuterla, in quanto la regola nella cosa di cui si tratta fissa appunto il diritto ristretto in grave argomento.
Però essendo essa null’altro che frutto della interpretazione della legge, non si deve applicarla con dannosa facilità a qualunque caso ma si deve avere riguardo al diritto, a quei casi, onde fu dedotta; poiché se in qualche parte viene male applicata, ossia a rapporti e a casi che non possono rientrare nel contenuto di essa perde la sua forza ed autorità. Concetto questo che Giavoleno ribadisce con le parole: “Omnis Definitio in iure civili periculosa est; parum est enim ut non subverti potest” (L.202, D. De Reg. iuris, L.17); ogni regola in diritto civile è pericolosa, tanto nello stabilirla come nell’applicarla, poiché è facile cosa che venga viziata.
2. Le regole di diritto e il nostro Codice Civile.
L’aiuto che la regola di diritto, tramandataci dalla tradizione ed in ispecie dalle fonti romane, apportano alla pratica giudiziaria, nella risoluzione dei casi singoli, è senza dubbio notevolissimo: bisogna però andare molto guardinghi, perché è oltremodo pericoloso fare appello ad una di dette regole, senza averle sottoposta in antecedenza ad un serio esame circa la sua applicazione al caso concreto. Con ragione pertanto la dottrina eleva la sua voce onde ammonire gli interpreti circa l’uso che delle “regulae iuris” può farsi nel nostro diritto. Così, l’Oudot, parlando delle regole, dice: “Elles sont de ressources dangereuses de mnémotechnie et rien de plus… Elles ne peuvent guère échapper au reproche d’être inexactes dans la forme, ou de constituer de pure cercles vicieux” (Prémière essais de philosophie du droit, pag. 82).
Con precisione il Gandolfo: “Le regole non forniscono all’interprete un sussidio sicuro, uno strumento di precisione. Come il navigante per procedere con sicurezza nelle incerte e silenziose vie dell’oceano non può credere ciecamente alle indicazioni che gli dà la bussola marina, ma occorre le corregga col calcolo delle variazioni, così il giudice, per orientarsi nell’immenso mare dei casi pratici, non deve fidarsi delle regole se non dopo avere a sua volta istituito un calcolo delle variazioni che gli permetta di commisurare il grado della loro credibilità. Non epurate attraverso il crogiuolo di questo processo le regole non presentano che argomenti ingannevoli e leggeri, i quali perciò dovranno essere accolti con grande circospezione: solo gli inesperti fanno grande, incondizionato uso delle regulae iuris che scambiano per veri principi, non avvedendosi, che mercé di esse arrivano talora alle conseguenze le più erronee, le più perniciose.” (E. Gandolfo, Catone e le Regole di diritto in Archivio giuridico, vol. XLIII, pag. 409).
Crediamo tuttavia, sulla fede anche di autorevoli scrittori, di poter affermare che, in determinati casi, le regole di diritto possano, nella nostra legge, acquistar valore di principi generali di diritto. È vero che l’art. 3 delle Disposizioni preliminari del Codice Civile fa richiamo ai principi generali del diritto, quando una controversia non si possa decidere con una precisa disposizione di legge e non esistano disposizioni che regolino casi simili o materie analoghe. Come pure è indubitabile che i principi generali del diritto, a cui è fatto richiamo dal nostro codice come uno dei mezzi dei quali l’interprete può servirsi nella applicazione della legge, sono i principi generali del diritto italiano, cioè i principi generali del nostro sistema positivo, le massime cui esso si informa, principi non vaghi e indefiniti, ma concreti, determinati, emergenti dallo stesso organismo del nostro diritto oggettivo. “Conviene partire, osserva lo Scialoja, dalle disposizioni delle leggi ed astraendo risalire da concetto a concetto sempre più generalizzando, e dal generale tornando a discendere nel particolare, si giudicherà, per dirla con Aristotile (Et. Nicom. V, 10), “come lo stesso legislatore avrebbe detto se fosse stato presente, e come avrebbe prescritto se lo avesse preveduto.” (V. Scialoja, L’Equità e il nostro diritto civile, pag. 24; e Fadda, nota al Libro I della traduz. del Diritto delle Pandette di Windscheid).
Ma può verificarsi, in dati casi, che la regula iuris venga dalla legge elevata a principio generale di diritto.
Di qui una ricerca non meno importante: quando cioè le regulae iuris possono valere come principi generali del nostro diritto. È questa un’indagine altrettanto utile quanto sterminata, poiché è manifesto che essa non può farsi che relativamente a ciascuna delle innumerevoli regole a noi pervenute.
In tesi generale osserveremo che gioverà anzitutto precisare il contenuto della regola e i limiti della sua applicabilità, secondo la sua origine materiale e formale; determinare inoltre quale consacrazione essa riceva dalle molteplici disposizioni del nostro diritto, onde sapere se ed in quanto siano stati corretti, allargati o modificati i confini della sua applicabilità dalla evoluzione dei singoli istituti giuridici, e se debba accogliersi o no come uno dei principi generali del nostro diritto positivo.
3. Origine della regola “Il giudice dell’azione è il giudice dell’eccezione” e casi di sua applicazione nel diritto comune.
La formazione di questa regola non appartiene al diritto romano, ma al diritto comune; con essa si intese di stabilire che il giudice, in forza della competenza che ha rispetto alla causa, conosce delle controversie incidenti in essa, “licet de his principaliter cognoscere non possit”.
Dalla dottrina della prevenzione venne stabilito il principio che non è lecito dinanzi a diversi giudici; aditone uno, egli rimane l’esclusivo decidente della medesima. “Ubi acceptum est semel iudicium, ibi et finem accipere debet, non debet mutare iudicium, idest causam coram uno iudice acceptam, trahere et prosequi coram alio iudice”.
Le fonti positive di questa dottrina furono, per lo ius civile: la L.30.D de iudic., V.1 colle concordanti; L.7 D. eod.; L.19 pr. D. de iurisdict., II,1; L.4 C. de in ius voc. II,2 e L.1 p. 3 c. de adsert. toll., 17. Per lo ius canonicus il C. 19, X, de foro compt., II,2 coi concordanti; C. 20, X de off. et pot. iud., del I, 29, C.8 in sexto cod., I,14 ed Clem. 2, Ut lite pend. nih. innov. II,5.
Questa dottrina si concreta in tre regole fondamentali:
1) L’attore, proponendo la sua causa ad un determinato giudice, non può più deferirla ad un altro, nam ubi incepit iudicium ibi finiri debet (L.30 D.V,1). L’adizione del giudice, ripetono i D.D. sull’esempio di Bartolo (ibid.) tam ad incommodum rei citati quam ad incommodum actoris, ad cuius petitionem fit citatio: laonde, una volta fatta, non può essere ritrattata dalla sola volontà dell’attore, non enim potest actor desistere et ire ad alium iudicem (Arg. Auth. Qui semel ad. L.1, C; VIII 43). E l’attore rimane così legato dalla prevenzione che egli ha fatta verso quel giudice, che se poi, alterius fori factus sit, non può declinarlo.
2) Il convenuto non può insorgere contro il foro, sebbene egli sia in grado di opporre che, in corso di lite, la sua competenza è venuta a cessare: “citatus ad causam, et sic praeventus, tenetur coram ipso iudice preveniente respondere, licet postea mutet forum”, “ubi semel acceptum iudicium ibi et finem accipere debet”.
3) Il giudice adito, appunto per effetto di questo divieto alle parti di mutarlo, trasforma la competenza, che concorrentemente aveva sulla lis coepta, in una competenza unica ed esclusiva: “Iudex proper ipsam preventionem acquirit, seu consolidat iuristictionem in causa intentata, et alius iudex… non potest a modo se impedire de dicta causa.
Le prime due regole racchiudono questi concetti: “Che il giudice adito resta giudice della lis coepta usque ad finem.” Che il giudice rimane tale, malgrado che, in corso di lite, sopraggiunga per una delle parti una causa di incompetenza. Ossia la prevenzione non è solo indicazione unius iudicis de eadem re, ma eventualmente può essere derogazione di competenza, in quanto conserva il giudice proveniente la decisione della lite etsi adveniat novus forus de iure communi, sive ex novo superveniente privilegio.
La terza regola riguarda l’effetto della prevenzione rispetto al giudice, e stabilisce quanto espresso:
- a) Che il giudice adito per la causa, ne rimane totalmente investito in modo che non può in seguito esserne spogliato. Affinché la prevenzione generasse questo suo effetto positivo, si richiedeva: 1) che si tratti di una identica lite, 2) che il giudice adito sia competente della causa, 3) che effettivamente un giudice competente sia stato adito ut constet de praeventione.
- b) Che nessun altro giudice può ingerirsi della causa. Affinché la prevenzione eserciti questo suo effetto negativo, e cioè che altri giudici non possano ingerirsi del giudizio della causa preoccupata, bisogna che tali giudici abbiano, rispetto ad essa, competenza uguale.
La prevenzione presuppone dunque il concorso di più giudici competenti tutti per la stessa causa e, intendendo fissare che uno solo possa e debba deciderla, risolve il concorso stesso a favore di colui che fu adito prima degli altri. Essa non proroga la competenza del giudice preveniente, ma la preferisce alle altre eguali, talché se il giudice prevenuto ha una competenza esclusiva di quella del giudice proveniente, la prevalenza di questi non è più ammessa. Onde è da notarsi il divario importante che, mentre la preventio conserva la competenza del giudice preveniente, malgrado le mutazioni di foro sopraggiunte post litem coeptam, e così virtualmente scende a prorogarla, viceversa poi non la estende affatto ab initio, lasciando che ad essa prevalga, come d’ordinario, la competenza del giudice prevenuto, la quale sia per avventura esclusiva.
In seguito, questa dottrina della prevenzione, contenente il divieto di mutar giudice per la stessa causa, venne ampliata; il giudice proveniente non solo acquista il giudizio della sedem litis, rigorosamente tale, ma acquista altresì il giudizio delle controversie connesse con la medesima, ciò affinché non si scinda nel giudizio quella intima colleganza che è tra la lite pendente e le controversie colla medesima connesse.
Ed in forma di questa applicazione si formò la regola che il giudice della causa conosce anche delle controversie incidenti nella medesima; la sua adizione rispetto alla questione principale, opera prevenzione rispetto alle questioni incidentali, le quali, appunto, perché tali, sono connesse con quella. Sono note le formule dei canonisti: “Idem est iudicium connexorum,” “Iurisdictio super principale exercetur etiam in connexis”, ecc.
Così la dottrina civile come la canonica trassero come effetto caratteristico da questa regola, che in forma della medesima, la competenza supposta nel giudice rispetto alla causa principale, lo rendeva capace di conoscere della controversia incidente su cui normalmente egli non sarebbe stato competente. E così sorge nella connessione la virtù derogatrice dell’ordine comune della competenza, al fine di conseguire sempre, anche quando vi osterebbe, il proprio scopo che della controversia tra cui interceda questa regola identico sia il decidente.
Ma la regola, con questa sua energia derogatrice, è ammessa con una duplice cautela. La prima attiene alla natura delle controversie, le quali devono essere realmente e soltanto incidenti. La seconda concerne la potestà del giudice, la quale si estende, è vero, dalla questione principale alla incidente, ma solo ai fini che egli possa esaminare che questa può avere nelle decisioni di quella. Il giudice non può esprimere sulla controversia incidentale quel giudizio che, sovra di essa, proposta “per modum actionis seu principaliter” non potrebbe profferire. “Tamen non debet de statu pronunciare, sed debet pronunciare solummodo super petitionis hereditatem reum condemnando vel absolvendo”.
L’applicazione del principio in discorso si trovò dinanzi ad un grave ostacolo, allorché si trattava di quei casi nei quali la controversia incidentale spettava, per natura sua, ad una giurisdizione diversa da quella del giudice preveniente. Dapprima, fra i civilisti, prevalse l’applicazione pura e semplice della regola in tutti i casi, ma poi a questa regola si finì per ammettere una eccezione quando la controversia incidentale spettava, per la natura sua, ad una giurisdizione diversa, e così, in omaggio al diritto canonico, si ammise che il foro secolare non poteva conoscere delle controversie incidenti, ma doveva rimetterne la decisione al foro ecclesiastico, mentre questo poteva conoscere quelle che sorgevano nelle cause di sua competenza, sebbene principaliter appartenessero al giudice civile.
Dalla teoria della prevenzione così ampliata sorse la regola per la quale il giudice che conosce della causa principale conosce, altresì, delle controversie in essa incidenti. Ma, come abbiamo visto, per l’applicazione di questa regola si richiedevano queste condizioni, e cioè:
1) che la competenza del giudice si intendesse estesa soltanto all’effetto di esaminare la controversia incidentale esorbitante, e non a quello di giudicarne;
2) che la quaestio incidens non fosse esibita per modum actionis seu principaliter;
3) che il giudice, rispetto alla quaestio incidens non fosse stato un incompetente tantum, sed incapax.
La regola che, come sopra, trae origine dalla prevenzione, ha rispondenza perfetta, non solo di espressioni ma di sostanza, con quella che entrò nell’uso della dottrina e della giurisprudenza francese: “Le juge de l’action est juge de l’exception”, e dal diritto francese passò presso di noi nella letterale sua versione.
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Ritengo che sia così dimostrato esaurientemente da qual fonte ci sia pervenuta la regola di cui ci occupiamo, e mi pare, d’altra parte, che non sia togliere autorità alla stessa negandole i più illustri natali ad essa attribuiti da coloro che la fanno discendere dal diritto romano.
La procedura, quale attuazione pratica del diritto offeso, è funzione pubblica dello Stato, che trovasi in stretto rapporto col suo interno organamento, ed è perciò che, lungi dall’essere immutabile come i sommi principi del diritto puro è stato oggetto di successivi cambiamenti, a seconda che si sono modificati i concetti sulla personalità dello Stato in genere, ed in specie sulle sue funzioni in rapporto ai cittadini.
La differenza sostanziale dei principi che in diritto romano governano la podestà di giudicare, e soprattutto il suo esercizio affidato separatamente alla magistratura e allo iudex e alla sua ampia prorogabilità per consenso dei litiganti, pongono un ostacolo insormontabile a che tali norme si possano invocare in questioni di competenza sorte nel diritto odierno.
È con sincero compiacimento che a suffragio di questo mio punto di vista posso invocare l’autorità dell’illustre romanista, e mio Maestro, il prof. On. Pietro Cogliolo, il quale annotando in Foro It. (Vol. VII, pag. 388) la sentenza 10 agosto 1881 della Cassazione di Roma, mentre tratta di questa regola, fra l’altro dice quanto appresso: “Devo premettere che il Diritto Romano non va posto né sugli altari né tra le ciarpe: è un diritto morto, mentre il nostro è vivo, e questo è tanto superiore a quello per quanto la vita è più della morte. Però quel vecchio cadavere è un campo fecondo di studi per l’anatomo, e povero giureconsulto colui che non vi ha esercitato i suoi ferri. Una gran parte di quelle norme sono rivestite dal parce sepulto, in ispecie per quanto concerne la procedura, la quale ha stretta amicizia con le funzioni pubbliche dello Stato. Però per il diritto privato pure, non essendosi nella vita mutato i rapporti del meum e del tuum e le norme romane per proprietà logica, per purezza giuridica, per elementi pratici vitali, sono ancora oggi la migliore soddisfazione del bisogno reale.
La divisione del giudizio nella procedura romana in due parti distinte servì di norma per l’esercizio pratico delle azioni non solo durante l’epoca storica, ma anche durante l’epoca classica e perdette la sua importanza solo al tempo di Diocleziano. Per regola il magistrato innanzi al quale si istituiva l’azione giudiziale non faceva che assodare il vero punto di contestazione (procedura de jure), e rimetteva in seguito le parti ad un giudice delegato, iudex per la decisione della controversia (procedura in iudicio). Se a ciò si aggiunge l’istituto delle legis actiones quali formula simboliche ispirate dalla superstizione religiosa, e le specialità della procedura per formulas, che mitigò, è vero, il soverchio rigorismo delle legis actiones, ma che lasciò intatta la duplice cognizione in iure e in iudicio, si avrà un intero ordinamento processuale che non ha la benché menoma analogia coi riti moderni.
Che se da tali considerazione generali sulla procedura romana si scende alcun poco ad esaminare la parte che si riferisce all’oggetto di questo studio, si ravviseranno anche più facilmente alcuni istituti speciali che attualmente hanno importanza solo come monumenti storici.
È noto che i dottori che disputano sul significato che nel Diritto Romano si dava alla parola iurisdictio. Cujaccio ha proposto su questo significato la celebre definizione “iurisdictio est notio sive statuendi pronuntiantive potestas quae iure magistratus competit” (Tit. de iurisdictione C.2), definizione che è stata vivamente combattuta perché secondo qualche autore non rappresentava chiaramente la differenza che in quella legislazione intercedeva fra la semplice notio e la iurisdictio. La notio apparteneva al giudice delegato, la cui giurisdizione era determinata esattamente dalla contestatio all’epoca delle legis actiones, e dalla formula all’epoca della procedura formulare: la iurisdictio poi apparteneva al magistrato che aveva la facoltà di far eseguire la decisione. Simplex notio in nuda cognoscendi iudicandique facultate consistit executione illis relictis qui iurisdictionem habent, ad eamque spectant quae cognitioni subservire queunt (Vost, tut. De iurist., 2). Hubero non accetta completamente un tale concetto così esprimendosi: “Recte equidem illi imperium mixtum a iurisdictione discernunt cum leges ea duo passim distincta commonent” (leg. 1 leg. Ult. Par. I de off. si cui mand. I,3, M.t. I,6 de Tutel.). Quia et res loquitur esse res separatae: siquidem coercitione in qua mixtum imperium maxime consistit non semper est opus, uti in iurisdictione voluntaria quae redditur in volentes; non enim in contentiosa, si iudicis sententiae sponte pareatur; ideoque realiter oportet differre quorum unum sine altero tam facili negotio existere potest (ad lit. de iurisd., par. 2).
Tale sottigliezza di concetti per ciò che riguarda i vari significati della parola iurisdictio, non è affatto accettata nel diritto moderno. “Nel nostro diritto, dice il Saredo, il concetto di giurisdizione si è meglio caratterizzato, mediante la divisione dei poteri quasi ignota nelle istituzioni romane. Il magistrato competente ha la pienezza dei poteri necessari per l’esercizio del suo ministero, ed in esso si compenetra la notio, la vocatio, la coercitio, lo iudicium e la executio.”
Ma, a prescindere da tali considerazioni che pure mi sembrano abbiano una certa gravità, il mio assunto si avvalora quando si porti l’esame sulle varie distinzioni della iurisdictio secondo il diritto romano. La giurisdizione era in primo luogo volontaria e contenziosa e su questo punto non v’ha differenza sensibile col diritto moderno. La giurisdizione era inoltre propria ed aliena. La propria era quella che de iure competit magistratui, l’aliena si suddistingueva in delegata e prorogata. Intorno alla giurisdizione delegata ho fatto parola sopra, quando ho accennato alla base del sistema processuale romano consistente nella divisione in iure ed in iudicio. Quanto alla proroga della giurisdizione, credo opportuno il soffermarmi alcun poco nell’esame di questo istituto, poiché il medesimo ha una strettissima attinenza con la presente quistione.
Prorogare la giurisdizione significa in senso tecnico rendere competente per consenso privato un magistrato a conoscere di una certa causa che per norma generale sfuggirebbe alla sua competenza. Secondo il diritto moderno è noto che non si ammette mai la proroga di giurisdizione nei casi di incompetenza assoluta, cioè per materia e valore (art. 69 C.P.C.). Tale espresso divieto trae il suo fondamento dal concetto che i principi i quali regolano la materia giurisdizionale essenzialmente d’ordine pubblico, si legano i più vitali interessi della società, e che perciò non sono soggetti a veruna modificazione per consenso privato. In diritto romano la cosa era ben diversa: “Il diritto romano, dicono gli illustri commentatori del Codice Sardo, ci offre i germi delle distinzioni circa i pubblici poteri: ma né le attribuzioni dei vari magistrati erano da quelle leggi prescritte con precisione, né erano formate le opportune garanzie per infrenare chi trasmodasse; l’arbitrio prevaleva (Commento, pag. 11). Una delle conseguenze dirette della accennata deficienza di precisione fu appunto il potere concesso alle parti di prorogare la giurisdizione a loro piacimento. Qualunque magistrato poteva essere scelto dai litiganti per la definizione della controversia che fra di loro si dibatteva, e solo si richiedeva che nel magistrato adito esistesse ad ogni modo una qualche giurisdizione, potendo i privati prorogarla ma non crearla (Cost. 3 de iurisd.). La proroga della giurisdizione, al dire di Hubero, trovava luogo in ordine a quattro concetti diversi: de tempore ad tempus, de loco ad locum, de causa ad causam, de persona ad personam. Si faceva distinzione solo per i giudici che avevano una giurisdizione limitata quanto al tempo, nonché per quelli che non potevano conoscere specialmente di alcune cause. Per es.: non poteva esistere prorogazione di giurisdizione dal foro civile al criminale, né il pretore fedecommissario poteva conoscere della tutela etc. Ma queste sono semplici eccezioni le quali assodano viemmeglio la regola generale secondo la quale le parti potevano di loro consenso prorogare la giurisdizione. Siccome tale proroga non era che una pura manifestazione di consenso, così è naturale che la proroga medesima potesse essere espressa o tacita.
La espressa avveniva quando due litiganti si presentavano di mutuo accordo innanzi ad un giudice incompetente. La proroga tacita poi avveniva per effetto della litis contestatio, istituto anch’esso tutto proprio dell’ordinamento processuale romano. La litis contestatio poneva fine alla procedura in iure e determinava il quasi contratto giudiziale. Un aforisma romano accettato senza discussione ed applicato perennemente sanciva ubi semel acceptum iudicium ibi et finem accipere debet (Fr. 30 de iudicis). Quindi si può sostenere, a mio credere, che per effetto della litis contestatio la quale rendeva acceptum il giudizio, la proroga della giurisdizione piuttosto che tacita, dovrebbe dirsi presunta con presunzione irrefragabile contro la quale non valeva opporre una prova contraria.
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Dai suaccennati principi che vigevano nel diritto romano, i quali emettevano, per consenso dei litiganti, la prorogabilità della giurisdizione, sarebbe assurdo voler trarre la dimostrazione che il giudice delle cause, quantunque incompetente, può conoscere incidenter della eccezione.
Ma questo diritto ritengo tuttavia che si possa ragionevolmente invocare, come da molti scrittori è stato invocato, per rintracciare in esso, sotto la forma caduca di ordinamenti giudiziali estinti, la conferma del principio durevole che, per mantenere la integrità del giudizio sopra azione ed eccezione, si può abilitare il giudice sopra azione ed eccezione che normalmente non gli apparterrebbe, purché limitato, nella sua natura ed efficacia, a quanto è necessario per il giudizio dell’azione.
4. Importanza della questione
Non può mettersi in dubbio che la disamina del tema oggetto di questo mio studio si presenti molto importante, sia dal punto di vista teorico che dal lato pratico.
In ordine alla teoria, basta ricordare che la questione ha stretta attinenza con quella parte che costituisce la base dello ordinamento processuale, quale è lo studio delle attribuzioni spettanti ai singoli magistrati in materia contenziosa.
Un pensiero dominante in tutte le legislazioni giudiziarie moderne è quello che sia impossibile conseguire una buona amministrazione della giustizia affidandone l’incarico ad una classe unica di magistrati. Si ha perciò un frazionamento più o meno ampio dell’Ufficio giurisdizionale fra magistrati, i poteri dei quali sono graduati in modo diseguale.
Il definire più o meno esattamente i limiti di detti poteri nelle varie categorie dei giusdicenti è cosa che essenzialmente ha vita da un più o meno retto organamento interno dello Stato. Ciò riesce assai manifesto, ove si ponga mente che tutto intero lo studio dei riti processuali, a capo del quale trovasi l’esame sulla competenza dei magistrati, si lega intimamente allo studio sullo svolgimento più o meno completo delle singole libertà in confronto alla tutela dell’ordine pubblico.
Non si può quindi mettere in dubbio che la questione vertente sulla influenza che esercita la eccezione in ordine alla competenza, non offra un grande interesse per quello che riguarda il campo teorico.
Non meno importante può dirsi in ordine alla pratica, poiché, come è noto, assai gravi possono essere le conseguenze derivanti da un giudizio istituito davanti a un magistrato incompetente. Tanto più che l’eccezione di incompetenza, se per materia e valore non abbandona mai il giudizio (art. 87), il quale, dopo aver suscitato tante speranze e timori nei diversi gradi di giurisdizione, può, per questo vizio, essere annullato anche nel suo ultimo stadio, dinanzi alla Corte Suprema di Cassazione. Ma dopo avere con criteri esatti determinata la competenza, non è finito ancora ogni doveroso compito per chi deve proporre delle azioni in giudizio, poiché, in molti casi, può accadere che la causa nelle sue varie fasi istruttorie si aggravi e si complichi in maniera che possa legittimamente sorgere il dubbio se il conoscere della stessa sia ancora di competenza del giudice adito.
Così, ad es. Tizio istituisce una causa di petizione di eredità dinanzi al Pretore, perché il valore dell’asse ereditario non supera le L. 5000.
Il convenuto eccepisce che Tizio non è figlio legittimo del de cuius e che perciò non ha diritto alcuno all’eredità. Nella causa vertente viene così ad inserirsi una questione di stato: sarà ancora il foro adito competente a decidere?
In presenza a eccezioni le quali portino dinanzi ad un giudice minore controversie di molta importanza e ampiezza, la dottrina moderna, osserva il Mortara (Commentario IV, pag. 115) oscillò tra l’influenza di due correnti d’idee tradizionali: una, che prende le mosse dal diritto giustinianeo, e precisamente dal testo: “pertinet enim ad officium iudicis qui de hereditate cognoscit universam incidentem quaestionem quae in iudicium devocatur examinare, quoniam non de ea sed hereditate pronuntiat” (I.I, Cod. de ord. iudic. 3,8); l’altra che negò ai giudici inferiori singoli idoneità e potere a conoscere di certe controversie, non solo se proposte in forma di azione, ma anche se dedotte in via di eccezione.
Per quanto, dunque, sia nella legge determinata con criteri esatti la competenza dei magistrati, nella pratica può accadere che, dopo proposta una azione in giudizio, questa, durante il suo svolgersi, aumenti di importanza per lo incidersi in essa di nuove questioni, in modo da far sorgere dei dubbi sulla competenza del giudice adito.
5. L’azione
Preso nel suo significato originario il termine azione significa fatto, operazione, e questo suo significato non perde neppure in materia di diritto. Tra le varie azioni umane è giudiziaria in questo senso quella che sia diretta o connessa all’esercizio del diritto, nella forma della difesa mediante la lite ed anche l’insieme degli atti costituenti il giudizio.
Da questa prima accezione ne discendono altre, e si giunge così all’actio nella classica definizione del Digesto: “ius quod sibi debetur, iudici persequendi” (L.51 Dig. De obl. Et act. XLIV, 7), dove l’azione è raffigurata come il diritto all’azione, che nasceva, in una grande quantità di rapporti giuridici, dalla mancanza di una propria norma obbiettiva, supplita dall’intervento del magistrato romano. Come è ormai accertato, nel diritto romano, l’azione era quella che rendeva possibile la realizzazione giudiziale di una pretesa, tanto che da taluni si poté dire che allora si aveva un numero di diritti uguale al numero delle sezioni.
Ma sino alla prima metà del secolo scorso non era ancora ben conosciuto il vero concetto che dell’azione si aveva nel diritto romano, finché ad osservarlo sotto ad una chiara luce, venne in buon punto l’opera del Windscheid (Die Actio des römisch., Düsseldorf 1856). Il pensiero fondamentale di questo grande romanista, pensiero che domina anche nelle sue “Pandette”, è il seguente. Mentre oggi intendiamo per diritto d’agire quel diritto che ci deriva da un torto patito, il risultato, insomma, dell’urto fra la facoltà e le sue offese, si commetterebbe grave errore credendo che i romani abbiano in ugual modo parlato dell’actio. Questa non ha per essenziale presupposto una offesa al diritto, né è implicito nel concetto di essa che essa sia un mezzo per far valere un diritto. Essa non è qualche cosa che sta dietro al diritto, non è alcunché di derivato, ma di sostanziale, non è derivazione ma espressione del diritto. Quando i Romani dicono: taluno ha un’azione, ad alcuno spetta un’azione, intendono esprimere lo stesso che noi vogliamo dire quando ascriviamo a taluno un diritto, una pretesa giuridica. Che i Romani parlino di actio in quel senso si spiega, secondo il Windschied, principalmente con la circostanza che presso di loro il cittadino non aveva ciò che è il diritto, ma ciò che il tribunale gli attribuiva. Quindi a lui, criterio veramente decisivo non appariva se il diritto, ma se il tribunale gli fosse favorevole, non avesse un diritto, ma potesse agire.
Il giudice, nel diritto odierno, ha un campo più ristretto: il suo compito consiste nell’accertare, nel maggior numero dei casi, se determinati interessi dei cittadini sieno o no tutelati dal diritto positivo vigente; ed anche nei casi eccezionali di applicazioni analogiche o di decisioni secondo i principi generali del diritto, egli non concede, ma riconosce ed ammette l’azione, cioè il diritto di agire.
La recente dottrina, seguendo le direttive e i criteri scientifici adottati o semplicemente manifestati nel più vasto campo del diritto in genere, ha variamente elaborato il concetto tradizionale dell’azione, perciò stimo più che utile indispensabile un rapidissimo cenno ed una breve disamina di queste teorie.
La teoria tradizionale, considerando l’azione come un momento del diritto materiale: un diritto cioè rivolto contro l’avversario, non contro lo Stato, è ancora influenzata dall’ormai vieto e condannato principio della difesa privata, e tuttavia non risponde alle esigenze di un preciso ordinamento giuridico, basato su di una giusta valutazione del diritto in genere, e dei singoli diritti delle parti in contrasto.
Appunti di non lieve momento potrebbero muoversi contro coloro che concepiscono l’azione come diritto verso lo Stato alla tutela giuridica. Secondo tale concetto il diritto d’azione sarebbe il diritto di ottenere dallo Stato una sentenza favorevole; sicché l’azione sarebbe un diritto distinto dal vero e proprio diritto materiale, per quanto da concepirsi pertinente ad esso.
Il concetto dell’azione come diritto potestativo presenta una lacuna direi costituzionale, basandosi sui cosiddetti “diritti potestativi”, a cui gran parte della dottrina nega cittadinanza nel campo del diritto.
In ultimo alcuni (Kohler) scorgono nell’azione una semplice facoltà, compresa nel più ampio diritto di personalità: il diritto dell’azione, negatagli autonomia, è solo facoltà spettante a chiunque, e compresa nel diritto all’integrità delle propria persona, di porre in essere la domanda giudiziale. In tal caso il diritto, o meglio la facoltà di agire, essendo una semplice esplicazione del diritto di personalità, muterebbe il processo in un perfezionamento della difesa privata, allontanandolo dalla vera funzione di accertamento e reintegrazione dei diritti comunque lesi.
Ragioni di preferenza sostanziale, unite a tutti gli elementi di incertezza contenuti nelle teorie sopra esposte, mi fanno completamente accogliere la lucida e completa illustrazione che del concetto in questione offre il mio Maestro Prof. Avv. Ugo Rocco, illustrazione che or ora passeremo in esame[1].
Concetto dell’azione. La struttura del diritto d’azione e l’attuale ordinamento giudiziario rivelano nel diritto in questione due elementi essenziali: il primo sostanziale e precisamente l’interesse del singolo all’intervento dello Stato per l’accertamento e la realizzazione coattiva degli interessi tutelati dal diritto.
Diviso l’argomento dalla natura stessa dell’oggetto, passeremo all’esame dei singoli elementi, per giungere quindi ad una completa apprensione. Il concetto dell’interesse, costituente l’elemento sostanziale del diritto d’azione, deve ricercarsi risalendo al concetto stesso del diritto. Il diritto è manifestazione della volontà collettiva dello Stato, per mezzo di organi speciali a ciò destinati, gli organi legislativi. E, poiché ogni volontà è volontà concreta, cioè volontà di qualche cosa costituente lo scopo a cui è diretta la volontà, così anche la volontà collettiva dello Stato, per mezzo dei suoi organi legislativi, è indirizzata ad uno scopo o fine del diritto, il quale come la volontà che in vista di esso si determina, è uno scopo pubblico e sociale. Questo scopo o fine del diritto consiste nel garantire le condizioni dell’esistenza della vita degli uomini in società, il diritto cioè è una funzione di garanzia: garanzia di scopi individuali e collettivi, o tutela di interessi. Ma poiché la vita degli uomini è vita sociale, nascono di necessità, tra i vari soggetti conviventi in società, rapporti di vita sociale. Da queste relazioni deriva che la soddisfazione degli interessi di un soggetto trova di necessità ostacoli e limiti nella soddisfazione di altri interessi opposti di altri soggetti. Ora, poiché la vita sociale pone, come il diritto stesso vuole, essere assicurata e garantita, occorre che tali conflitti si diramino: è necessario, cioè, che il diritto coordini gli interessi, le volontà e le azioni umane nei loro rapporti di vita sociale, distinguendo e limitando. Il diritto appare, così, non solo come ordinamento dei rapporti di vita derivanti dalla convivenza, ma anche come limitazione, cioè come un sistema di limiti tra gli interessi, le volontà e le azioni umane, nelle reciproche relazioni nascenti dalla vita sociale. Il diritto esercita questa finzione di limitazione e integrazione delle reciproche relazioni umane mediante la norma giuridica, che ha il carattere specifico di essere assolutamente obbligatoria. Il diritto appunto per la sua specifica funzione di garanzia, deve ad ogni costo attuarsi, ed esige quindi l’osservanza delle sue prescrizioni. Esso si presenta perciò con un carattere di necessità correlativo ed inerente alla imprescindibilità del fine che esso vuol raggiungere.
Il diritto nell’annunciare norme fa largo affidamento in un complesso di moventi egoistici ed etici che spingono i destinatari all’osservanza, ma prevede il caso della trasgressione e vi pone un freno mediante sanzioni giuridiche. La minaccia di un male o di uno svantaggio, emanante da un potere capace di tradurla in atto è quello che garantisce la normale osservanza delle norme giuridiche. Lo Stato ponendo delle norme coattive crea nei soggetti a cui sono rivolte degli stati psicologici, consistenti nel timore di un male e, quindi, di un danno (sanzione) il quale garantisce la conformità al diritto della loro condotta.
Se nonostante ciò, l’attuazione del diritto viene a mancare, e può avvenire sia per non volere scientemente sottoporsi ai comandi o divieti del diritto, o per ignoranza del diritto, ovvero perché essendo dubbi e incerti i termini dei fatti e dei rapporti che la norma regola, o in qualche caso, per il suo carattere di astrazione e generalità necessariamente incerta è per il soggetto agente l’esistenza e la portata del suo obbligo giuridico; in tali circostanze la garanzia della osservanza delle norme stesse si trova nella forza fisica o meccanica sia per ottenere direttamente, quando è possibile, mediante l’uso di essa (coercizione) l’esecuzione del comando, sia, ancora, quando l’inosservanza delle norme non può essere impedita o riparata, per colpire colui che la norma trasgredisce con la sanzione che ad ogni norma è congiunta, cioè facendo a lui subire le conseguenze, che dalla inosservanza della legge derivano.
Resta ora da determinare a chi competa il lecito uso della forza fisica, cioè chi sia giuridicamente autorizzato a valersi della forza fisica o meccanica per la tutela del diritto. Evidentemente, poiché gli obblighi giuridici nascenti dalle norme di diritto obbiettivo, sono obblighi verso subbietti determinati a cui spetta un corrispondente diritto cioè una pretesa all’adempimento, e poiché ogni titolare di diritti subbiettivi determinati a cui spetta un corrispondente diritto cioè una pretesa all’adempimento, e poiché ogni titolare di diritti subbiettivi è libero di valersi oppur no delle facoltà a lui concesse dal diritto, solo al titolare di un diritto subbiettivo dovrebbe logicamente riconoscersi la facoltà e il potere di usare della forza fisica, per costringere il subbietto passivo del diritto all’adempimento dell’obbligo giuridico. Ed, infatti, nei primitivi ordinamenti tale principio è incondizionatamente adottato come il più semplice, il più logico e più rispondente alla ancora malferma organizzazione statuale. Ritornando alla mira del diritto di voler comporre, coordinare, limitare gli interessi dei singoli per il benessere sociale, appare insufficiente il principio secondo il quale la potestà di usare la forza fisica verrebbe direttamente commessa al titolare del diritto subbiettivo. E, invero, in caso di incertezza della norma giuridica, essendo dubbio a chi il diritto subbiettivo effettivamente competa nel caso particolare, il presunto titolare non può dirsi certamente il più adatto a decidere se e fino a quanto il diritto subbiettivo a lui spetti. Ma vi è di più: il singolo titolare di un diritto subbiettivo che a buon diritto usasse della forza, si troverebbe sempre a lottare contro la forza di resistenza del titolare dell’obbligo corrispondente. Di qui, da un lato deriverebbe che l’ordinamento degli interessi delle volontà e delle azioni umane, non sarebbe più un ordinamento giuridico, ma un ordinamento puramente di fatto, venendo così meno lo scopo e la funzione medesima del diritto; dall’altro avverrebbe che la vittoria e l’affermazione del diritto diventerebbe un evento puramente accidentale, potendo trionfare la forza bruta di chi non ha diritto. In tal modo l’ordinamento giuridico non metterebbe più la forza fisica a servizio del diritto, ma lascerebbe il diritto in balia della forza.
Ma giunto il diritto alla sua perfetta maturità e rafforzatasi l’autorità dello Stato, la realizzazione degli interessi tutelati dalle norme giuridiche divenne una funzione pubblica, che lo Stato avocò a sé per quei motivi di interesse sociale che abbiamo ricordato. Di qui derivò anche, e logicamente, il divieto della difesa privata, divieto che venne sempre più a restringersi, sino a ridursi il lecito uso della forza da parte dei privati a pochi ed eccezionali casi. Il soddisfacimento, adunque, degli interessi tutelati dal diritto, in caso di incertezza e di inosservanza, oggi non avviene più per opera degli stessi interessati (subbietto della pretesa e subbietto dell’obbligo giuridico) ma è divenuto una delle funzioni più importanti dello Stato: la funzione giurisdizionale.
In regime di difesa privata non poteva esistere un interesse speciale ed autonomo del singolo alla attuazione degli interessi tutelati dal diritto obbiettivo, in quanto l’attuazione medesima era rimessa alla volontà e all’azione diretta del titolare stesso dell’interesse tutelato dal diritto. Sicché interesse tutelato dal diritto, e interesse all’attuazione dell’interesse tutelato dal diritto, sparivano come interessi concorrenti e anzi coincidenti.
Col divieto della difesa privata il diritto perdeva la maggiore sua caratteristica, la possibilità di essere coattivamente attuato dall’interessato, possibilità che ne induceva la realizzazione a tutti i costi. Da qui la necessità, perché il diritto potesse adempiere alla sua funzione di garanzia, di provvedere alla realizzazione di quegli interessi, che dal diritto obiettivo erano tutelati, quando per incertezza della tutela accordata dal diritto o per inosservanza, non potessero o non volessero essere soddisfatti. Nell’ordinamento dello Stato moderno dal divieto della difesa privata derivava come naturale conseguenza un nuovo bisogno dei singoli soggetti di interessi giuridicamente protetti, e un nuovo interesse: l’interesse cioè alla realizzazione degli interessi tutelati nel diritto obbiettivo quando per una qualunque ragione rimanessero insoddisfatti. Ma lo Stato, insieme col divieto della difesa privata, aveva avocato a sé il potere di provvedere all’attuazione del diritto, tanto nella funzione di determinazione (accertamento) quanto in quella di realizzazione coattiva (esecuzione). Egli aveva cioè istituito un organo specifico all’attuazione del diritto (giurisdizione) il quale sostituiva la propria attività all’attività dei singoli titolari di interessi giuridicamente protetti, nella funzione di attuare il diritto, venendo così a proseguire gli interessi dei singoli direttamente, mediante atti sovrani dell’autorità statale.
Questa sostituzione della attività pubblica dello Stato, alla attività privata del singolo nell’accertamento e nella realizzazione coattiva degli interessi tutelati del diritto obbiettivo in caso di incertezza o inosservanza, portava come naturale conseguenza, che ogni singolo titolare di diritti subbiettivi avesse interesse che lo Stato intervenisse per la realizzazione degli interessi tutelati dal diritto, quando fossero insoddisfatti.
Sicché, mentre in un primo momento, anteriore al divieto della difesa privata e all’attività giurisdizionale dello Stato, l’interesse alla realizzazione dell’interesse tutelato, non è che un aspetto o momento dell’interesse stesso, in quanto non venga soddisfatto e conserva, quindi, la medesima direzione personale e il medesimo contenuto; in un secondo momento, esso viene ad essere distinto e separato dall’intervento la cui tutela si tratta di accertare o realizzare. L’interesse tutelato dal diritto è diretto sempre verso la persona giuridicamente obbligata a fare o a non fare qualche cosa: l’interesse all’accertamento o alla realizzazione dell’intervento tutelato dal diritto, è diretto verso lo Stato; il primo tende ad un’azione od omissione del singolo; il secondo ad un’azione positiva dello Stato (prestazione dell’attività giurisdizionale).
L’interesse all’intervento dello Stato è sorto con l’istituzione del divieto della difesa privata: poiché se in ogni caso fosse sempre possibile al titolare di interessi tutelati dal diritto, direttamente realizzare la tutela del diritto conceduta e soddisfare i propri interessi, senza dover ricorrere all’opera degli organi giurisdizionali dello Stato, questo interesse non assumerebbe un’individualità distinta, ma si confonderebbe con lo stesso interesse tutelato, in quanto rappresenterebbe la medesima utilità e costituirebbe il medesimo scopo al quale la volontà individuale si indirizza.
L’interesse di cui parliamo è l’elemento sostanziale del diritto d’azione e può definirsi: l’interesse all’intervento dello Stato per l’accertamento o la realizzazione coattiva degli interessi tutelati dal diritto obbiettivo, quando per incertezza o inosservanza restino insoddisfatti.
L’interesse del singolo all’intervento dello Stato nasce direttamente dall’evoluzione per cui al sistema della difesa privata si sostituisce il sistema della giurisdizione di Stato. Esso è un interesse ideale, secondario, astratto e generale, immutabile, distinto, autonomo dagli interessi costituenti l’elemento sostanziale dei singoli diritti subbiettivi, coi quali non può confondersi, e ai quali non può sostanzialmente ricondursi.
Abbiamo veduto come il sistema del divieto della difesa privata e la istituzione e organizzazione della giurisdizione di Stato, conducessero necessariamente a far sorgere nel singolo un interesse secondario all’intervento dello Stato per accertare o realizzare coattivamente gli interessi tutelati dal diritto obbiettivo rimasti inattuati. Orbene: questo interesse per il suo contenuto e per la sua importanza occorreva fosse in ogni caso soddisfatto, senza di che era in gioco il concetto del diritto subbiettivo, in funzione del quale, per così dire, era sorto, ma anche l’esistenza stessa di tutto l’ordinamento giuridico.
E, poiché, al concetto di interesse si lega indissolubilmente l’idea di una volontà che possa realizzarlo, nel senso che un quid diventa interesse sol quando si sia voluto o possa essere voluto dall’uomo, occorreva riconoscere alla volontà individuale una tale potestà, che fosse sempre possibile ai singoli titolari di diritti subbiettivi pretendere il soddisfacimento di questo interesse. Con ciò solo veniva assicurato, di fatto, a ciascuno la realizzazione di questo interesse secondario e quindi, in ultima analisi, era resa possibile la soddisfazione degli interessi primari tutelati dal diritto.
D’altra parte, poiché lo Stato aveva assunto la funzione di attuare il diritto mediante atti sovrani dell’attività statale, in modo che, agendo quasi in regime di monopolio, solo mediante l’opera dello Stato era resa possibile la realizzazione di questo interesse secondario, si delineava come una necessità imprescindibile che lo Stato stesso, come organo specifico del diritto, riconoscesse e tutelasse l’interesse del singolo di fronte a sé stesso, accordando a ciascun titolare di diritti subbiettivi la potestà di pretendere atti sovrani dell’attività dello Stato, per accertare o realizzare coattivamente gli interessi, che benché tutelati dal diritto obbiettivo, fossero per una qualsiasi causa rimasti insoddisfatti. Dimodoché, quello che lo Stato aveva tolto alla capacità naturale dell’individuo, imponendo per alte necessità sociali il divieto della difesa privata, esso veniva a restituire sotto altre forme, riconoscendo la potestà di pretendere atti sovrani dell’attività dello Stato, diretti all’accertamento e alla realizzazione degli interessi materiali tutelati in astratto dal diritto obbiettivo.
Ma in che cosa precisamente consiste il potere giuridico riconosciuto alla volontà individuale per il soddisfacimento di questo interesse secondario? Nel diritto soggettivo d’azione, il potere giuridico riconosciuto dalle norme giuridiche alla volontà del soggetto per la soddisfazione dell’interesse secondario all’intervento dello Stato, riguarda esclusivamente l’azione positiva dello Stato nell’esercizio della funzione giurisdizionale. Questo diritto, come una intera categoria di diritti subbiettivi individuali pubblici (diritti civici), consiste in una mera facoltà di pretendere o di esigere che lo Stato agisca per la soddisfazione del proprio interesse, cioè in una pura pretesa o ragione individuale a quella azione o a quella attività positiva dello Stato, che ha per iscopo l’accertamento o la realizzazione coattiva degli interessi tutelati dal diritto obbiettivo. Tale diritto subbiettivo o potere giuridico individuale costituisce, quindi, sempre il riflesso dell’obbligo giuridico imposto dallo Stato a sé stesso (obbligo della giurisdizione civile). Nel rapporto giuridico di azione il prius è l’obbligo giuridico dello Stato, il posterius è il diritto soggettivo individuale del cittadino alla prestazione dell’attività giurisdizionale dello Stato. Oggetto del diritto d’azione è quindi la prestazione dell’attività giurisdizionale dello Stato; oggetto della prestazione dello stato è la sua azione positiva diretta ad accertare o a realizzare coattivamente gli interessi materiali dei singoli, tutelati dal diritto obbiettivo.
All’obbligo giuridico dello Stato di prestare l’attività giurisdizionale, per accertare o realizzare coattivamente gli interessi tutelati dal diritto obbiettivo, quando sieno rimasti per una qualsiasi ragione insoddisfatti, corrisponde, innanzitutto una pretesa giuridica individuale, che lo Stato intervenga e spieghi tutte quelle attività, che sono connesse al conseguimento di quello scopo. La pretesa giuridica individuale al rendimento della prestazione giurisdizionale, unica nel suo complesso, si scinde in relazione ai singoli stadi e momenti del processo, in una molteplicità di ragioni o pretese al rendimento dei singoli atti giuridici di cui la prestazione giuridica si compone. Questa molteplicità di ragioni o pretese comprese in una ragione unica, tende a una molteplicità di prestazioni e ogni singola prestazione si può concepire come oggetto di una singola pretesa. In altri termini: la pretesa individuale si scinde nel suo esercizio in una serie di facoltà di esigere o di pretendere singoli atti dell’attività giurisdizionale, a cui corrisponde l’obbligo giuridico degli organi giurisdizionali di compiere gli atti richiesti.
La pretesa giuridica individuale astratta comprende in blocco tutte le facoltà di esigere, che le norme processuali riconoscono all’attore di fronte agli organi giurisdizionali.
Poiché l’attività giurisdizionale si distingue in attività diretta all’accertamento di concreti rapporti giuridici incerti, e attività diretta alla realizzazione, dei concreti rapporti giuridici la cui tutela sia accertata, la pretesa giuridica individuale può presentarsi in una triplice forma: come pretesa all’accertamento (azioni di puro accertamento), come pretesa all’esecuzione (azioni esecutive), come pretesa all’accertamento e alla esecuzione (azioni di condanna).
In relazione a ciascuna prestazione giurisdizionale, sia che abbia per oggetto il puro accertamento o la semplice esecuzione del diritto, la pretesa giuridica individuale si scinde a sua volta in tante facultates exigendi, quanti sono gli atti, che gli organi giurisdizionali dello Stato sono giuridicamente obbligati a compiere a richiesta dell’attore, nella esplicazione di ogni singola funzione.
Il rapporto giuridico d’azione comprende, quindi, varie facoltà e vari determinati doveri il cui esercizio e la cui prestazione nella forma e nell’ordine stabiliti dalle norme giuridiche processuali, costituiscono lo svolgimento del rapporto. Tra ogni singola facoltà giuridica individuale e ogni singolo dovere giuridico dello Stato vi è perfetta corrispondenza, come perfettamente corrispondente è nel complesso la pretesa giuridica astratta che tutte le facoltà singole e concrete riunisce e l’obbligo giuridico astratto dello Stato, che le norme processuali agli organi giurisdizionali impongono.
Noi concepiamo, quindi, la pretesa giuridica individuale al rendimento della prestazione giurisdizionale, che comprende tutte le possibili facoltà di esigere, che le norme processuali riconoscono all’attore del processo, e l’esercizio di quella pretesa come comprendente tutti gli atti processuali dell’attore.
Il rapporto giuridico di azione esiste ed ha vita indipendente da qualsiasi rapporto giuridico sostanziale, pubblico o privato, di cui, mediante l’esercizio del diritto di azione, si chiede l’accertamento o la realizzazione coattiva. Altro è, infatti, la pretesa giuridica individuale spettante a ciascun cittadino, ed a tutti, di richiedere l’intervento dello Stato e la prestazione dell’attività giurisdizionale per l’accertamento di un rapporto giuridico incerto o per la realizzazione di un rapporto certo, altro è il rapporto giuridico stesso di cui si chiede l’accertamento o la realizzazione coattiva. Il primo è sempre un rapporto di diritto pubblico, in quanto intercede fra gli attori e gli organi giurisdizionali dello Stato, nell’esercizio della funzione sovrana giurisdizionale; il secondo è un rapporto ora privato, ora pubblico, in quanto o intercede fra due privati o tra privati e lo Stato.
Concludendo: il diritto di azione è un diritto subbiettivo pubblico individuale del cittadino verso lo Stato (diritto civico), che ha come elemento sostanziale l’interesse secondario ed astratto del singolo all’intervento dello Stato per la eliminazione degli ostacoli, che per una qualsiasi ragione (incertezza, inosservanza) si frappongono all’attuazione del diritto. Oggetto di tale diritto è la prestazione da parte dello Stato della sua attività giurisdizionale, diretta allo scopo di accertare il diritto incerto o di realizzare. Mediante l’uso della sua forza collettiva, gli interessi di cui la tutela sia legalmente accertata.
Il diritto di azione può quindi definirsi: il diritto di pretendere l’intervento dello Stato e la prestazione della attività giurisdizionale, per l’accertamento o la realizzazione coattiva degli interessi (materiali o processuali) tutelati in astratto dal diritto obbiettivo.
È da rilevarsi che nei nostri Codici tanto azione come domanda si vedono usate promiscuamente in contrapposto di eccezione (Cod. Civ. art. 1302, 1366, 1367, 1375; C.P.C. art. 102, 417, 436, 460, 490), quantunque talvolta l’eccezione abbia la stessa materia dell’azione, comprenda cioè l’esercizio di un diritto o di una pretesa che avrebbe potuto svolgersi anche senza l’azione promossa in contrario e indipendentemente da questo, e assume il nome di eccezione solo perché proposta in contraddizione d’una azione precedentemente spiegata da altri (Cod. Civ. art. 1302; C.P.C. art. 102).
La legge qualifica in un caso come azione la domanda diretta a far dichiarare l’incompetenza del magistrato adito (C.P.C art. 456). Si ritiene concordemente che il termine trovisi qui, per un errore materiale, in luogo d’eccezione.
Altre volte poi la legge parla di azione in un senso affatto formale, quasi nel senso di domanda giudiziale: e ciò di solito nelle norme che regolano il procedimento (C.P.C. art. 70, 71, 82, 90 e segg., 98 e segg. ecc.).
Indefinito è il numero delle azioni, come è indefinito il numero dei rapporti giuridici che possono intercedere fra i cittadini.
6.L’eccezione
In certi casi il giudice può rigettare la domanda dell’attore anche senza particolare istanza del convenuto, perché è dovere di esso di respingere le domande infondate in diritto o in fatto, anche se il convenuto, ad esempio, è contumace. Ciò avviene:
1) quando al giudice risulti inesistente il fatto costitutivo del diritto affermato dall’attore, ovvero quando, pure esistendo il fatto costitutivo, il giudice ha negato allo stesso la idoneità a produrre effetti giuridici, per difetto di una norma astratta di legge che lo contempli;
2) quando il giudice, pur ammettendo l’esistenza di un fatto costitutivo, ha insieme considerato come esistente anche un fatto impeditivo, così, ad es. quando l’attore stesso espone che la vendita fu simulata, il giudice respingerà senz’altro la domanda di consegna della cosa; se l’attore stesso espone una causa dell’obbligazione che il giudice ritiene illecita, il giudice rigetterà la domanda;
3) quando il giudice ha considerato come esistente un fatto estintivo, ad es. se l’attore stesso espone che il diritto è a termine, ma che il termine è interrotto; che il debito fu rimesso, ma che la rimessione non è valida; il giudice che ritenesse non avvenuta l’interruzione, oppure valida la rimessione, dovrebbe rigettare la domanda.
Vi sono però altri casi in cui l’istanza del convenuto è condizione indispensabile per il rigetto della domanda dell’attore; ciò accade quando l’istanza di rigetto si fonda su fatti di cui il giudice non potrebbe mai d’ufficio tener conto, anche se fossero affermati dall’attore, ma può tener conto solo se sono afferenti e fatti valere dal convenuto. In questi casi la pretesa giuridica del convenuto alla prestazione dell’attività giurisdizionale dello Stato prende il nome specifico di eccezione.
La voce eccezione non può dirsi che abbia un vero e proprio significato tecnico speciale nelle nostre leggi; nel C.P.C. vengono promiscuamente usati i termini di “difesa” (art. 187, 190, 340, 416, 448), “risposta” (art. 162, 164, 172, 173, 174, 415, 421, 450), “contraddire”(art. 36), “eccezioni” (art. 176, 187, 417, 436, 458, 460, 465, 490, 701, 738). Nel Cod. Civ. si parla di eccezioni comprendendo qualunque contraddizione relativa al merito (art. 1193, 1278, 1311,1366, 1376, 1899); e così nel Cod. di Comm. all’art. 324.
Unico pur essendo il diritto spettante alla persona del convenuto in giudizio, consiste infatti in una determinata prestazione da parte dello Stato, e come tale non può essere oggetto di distinzione di sorta, tuttavia un criterio di suddistinzione potrà essere una ragione d’essere o una pratica utilità, quando non si abbia riguardo all’elemento formale delle eccezioni e alla sua funzione, ma si tenga presente l’oggetto e la materia costituente il contenuto di questo speciale atto processuale che dicesi eccezione.
Pertanto l’opposizione che si fa all’istanza dell’attore può essere di varia specie: il convenuto può domandare la reiezione della domanda dell’attore per ragioni meramente processuali. Come si può obiettare che il giudice adito è incompetente per materia, per valore e per territorio; che la citazione è viziata di nullità; che l’attore non è legittimamente rappresentato o assistito; che l’istanza è perente. In tutti questi e simili casi resta o può restare fuori questione la ragione proposta; la difesa si limita a negare la legittimità della procedura, e a chiedere l’assoluzione dall’osservanza del giudizio. Epperò sotto questo punto di vista più limitato si potrà parlare di eccezioni di ordine o di procedura.
Ovvero il convenuto entra a discutere il merito della controversia (merita causae). Ed anche qui la difesa può assumere un diverso carattere:
1) Egli nega l’esistenza del diritto fatto valere. Ciò può avvenire in quanto: a) egli contesti che il diritto stesso non abbia mai avuto esistenza, sia perché non sussiste il fatto da cui si pretende sia sorto, sia perché, ammesso questo fatto, non poteva sorgere per ragioni di diritto; b) egli nega l’esistenza attuale del diritto, ammettendo che sia pure sorto, ma assumendo ad un tempo che è venuto meno per un avvenimento posteriore.
2) Egli riconosce l’attuale esistenza del diritto dell’attore, ma gli contrappone un altro diritto, che nella lotta con quello vale a stornare la condanna definitivamente o temporaneamente, in tutto o in parte.
Come è chiaro, tra le due categorie vi è la fondamentale differenza che nella prima il mezzo di difesa del convenuto esclude la esistenza della ragione dell’attore, epperò non costituisce un diritto a se stante; mentre nella seconda si ammette l’esistenza della ragione, ma ad un tempo si accampa un’altra ragione, e perciò il mezzo di difesa è fondato sovra un diritto a sé, indipendente. Appunto per questa caratteristica, si suole limitare il nome di accezione alle difese della seconda categoria, in quanto solo qua si avrebbe un vero contrapposto di ragione a ragione: la ragione dell’attore, la ragione del convenuto.
L’eccezione viene insomma considerata in senso sostanziale, ossia come quella opposizione di fatti che per se stessi non eliminano la domanda dell’attore (tanto che se sono affermati dall’attore il giudice non può tenerne conto), ma che danno al convenuto la facoltà di annullare l’azione.
Non riesce sempre facile stabilire quando si abbia una eccezione sostanziale, ossia tale che il giudice non possa valutarla d’ufficio, ma solo su iniziativa del convenuto.
Talora la legge stessa s’incarica di farlo sapere, vietando al giudice di rilevare d’ufficio una eccezione, così per l’eccezione di prescrizione (art. 2019) o richiedendo l’istanza del convenuto, come pel beneficium excussionis (art. 1908). Nel silenzio della legge, la natura del rapporto guiderà l’interprete per stabilire se una circostanza è tale che la sua mancanza da soltanto diritto al convenuto di annullare l’azione.
Quando una eccezione si fonda sopra un fatto da cui nasce un diritto del convenuto tale da poter essere perseguito anche con azione è indubbio che essa ha carattere sostanziale, e come tale non può essere fatta valere che su domanda del suo titolare; così, nel campo dei diritti ad una prestazione, l’eccezione di compensazione, l’ius retentionis, l’exceptio inadimpleti contractus; inoltre le eccezioni corrispondenti alle azioni di impugnativa (eccezioni di dolo, violenza, minore età, errore ecc.).
Sulle eccezioni sostanziali occorre ancora osservare:
1) Alcune pongono nel nulla l’azione e conseguentemente il diritto, come, ad es., l’eccezione di prescrizione. Altre escludono l’azione, senza escludere il diritto, come, ad es., l’eccezione di ritenzione, l’exceptio inadimpleti contractus; esse impediscono la condanna pura e semplice e mirano a permettere solo e tutto al più una sentenza di condanna condizionata alla controprestazione. L’eccezione di compensazione sta a sé, perché non suppone, come le altre eccezioni, alcun difetto inerente all’azione; il credito a cui è opposta la compensazione è perfettamente valido ed esistente; soltanto, il convenuto ha il potere di operarne la estinzione per soddisfacimento, sacrificando una parte corrispondente al proprio credito, con effetto dal giorno della contemporanea esistenza dei due crediti.
2) Non ogni diritto che si oppone all’azione è una eccezione sostanziale. Se all’azione di rivendica il convenuto oppone il suo diritto di usufrutto della cosa, è questa una negazione dell’azione, non un’eccezione: manca il fatto costitutivo della rivendica, perché il possesso del convenuto è conforme al diritto, e quindi destituisce di fondamento l’azione. Da ciò consegue che se l’attore stesso affermasse che il convenuto è usufruttuario della cosa, il giudice senz’altro respingerebbe la domanda.
3) Un fatto che può dar luogo a un diritto autonomo, può contemporaneamente dar luogo a un’eccezione. Il caso tipico è nelle azioni di impugnativa, a cui corrispondono altrettante eccezioni: exceptio metus, doli, ecc.
Anche in questo caso bisogna tener distinta l’azione di impugnativa e la corrispondente eccezione. L’azione è promossa per libera iniziativa dell’attore, impugnando il rapporto giuridico in tutta la sua estensione. L’eccezione è sempre opposta in via di difesa e non ha altro scopo che di elidere l’azione, di condurre ad una sentenza di rigetto. A meno che il convenuto dichiari di voler estendere l’impugnativa oltre l’azione, all’intero rapporto su cui si fonda l’azione; nel qual caso non trattasi più di eccezione, ma di una domanda di accertamento incidentale. L’osservazione ha importanza pratica nei casi di rapporti complessi, da cui cioè nascono vari diritti e varie azioni, di cui fosse fatta valere una sola. Mentre poi l’azione di impugnativa è soggetta ad un breve termine (art.1300 Cod. Civ.) l’eccezione di nullità o di rescissione è imprescrittibile (art, 1302 Cod. Civ.): quae temporalia ad agendum perpetua sunt ad excipiendum. Ciò suppone che il convenuto obbligato in virtù di un rapporto soggetto a impugnativa, non abbia né impugnato il rapporto in via di azione, né eseguita l’obbligazione; dura quindi lo stato di cose anteriore al rapporto, e il diritto dà modo al convenuto di resistere indefinitamente all’attore, che volesse mutare lo stato di cose chiedendo l’esecuzione del rapporto viziato.
Ma è d’uopo osservare che non sempre il diritto su cui la accezione si fonda può essere fatto valere per via di azione. Vi sono certi diritti che si esplicano solamente a scopo di difesa. Non è già che in ordine ad essi si voglia distinguere i diritti in due categorie, di cui una abbia la piena protezione della legge, l’altra la sola protezione limitata. Gli è invece che, per la natura delle cose, in tutti i sistemi di diritto, vi sono diritti che si possono esplicare come contrapposto all’esercizio di certi altri diritti, e al di fuori di questa funzione non hanno scopo, né ragione di estrinsecarsi. Tale è per es. il “pactum de non petendo intra certum tempus”, la “res iudicata” in caso di assolutoria di una domanda, il “beneficium excussionis” nella fideiussione ecc. Il diritto qua vi è indubbiamente, ma siccome la sua ragion d’essere sta nella esplicazione di un altro diritto in un determinato modo, così allora soltanto esso si svolge e appunto nel senso di difesa. Questi sono i soli diritti, di cui nel sistema moderno, si possa dire, che sono tutelati dalla sola eccezione.
L’eccezione in senso sostanziale, si distingue nettamente dalla riconversione, poiché scopo di tale eccezione è quello di proporre un’azione in un processo già pendente. Ma il fatto specialmente che il giudice, senza una formale istanza del convenuto, non può tener conto alcuno di ciò che costituisce il substrato e il fondamento della eccezione, ha dato luogo a non lievi difficoltà nella distinzione fra essa e la riconvenzione. Una prova non dubbia di tale difficoltà si può riscontrare nella nota bipartizione, proposta dal Mortara e che ebbe notevole accoglienza in giurisprudenza, delle eccezioni in eccezione semplici e in eccezioni riconvenzionali.
Questo illustre scrittore, nel suo noto Commentario, n. 66 e segg., osserva che la prima forma in cui sarebbe apparsa nel giudizio civile romano, la riconvenzione, sarebbe stata quella che nel linguaggio moderno viene designata col nome di “eccezione” e che soltanto nell’ultima fase storica di quel giudizio sarebbe stata accolta un’azione di riconvenzione propriamente detta; richiama poi le ostilità incontrate dalla riconvenzione nel diritto intermedio e nei sistemi di giurisdizione patrimoniale, ed in considerazione della tradizione storica e della limitazione, posta da molti ordinamenti, dell’ammissibilità dell’istituto ai casi in cui la proposizione della riconvenzione si giustifichi con la necessità di ottenere il rigetto della domanda dell’attore, egli sostiene l’opportunità che sia ridotta la denominazione proposta. Indi, così si esprime: “In realtà, poi, nessun giureconsulto ha mai cessato di negare che il convenuto, nello spiegare la propria difesa, ora si valga di un sistema di negazioni rispetto alla pretesa dell’attore, ora di un sistema di contrapposizione di pretese proprie che impediscono la efficacia di quelle dell’attore. E le negazioni, per quanto possano essere multiformi e varie, non allargano la sfera dell’indagine proposta al magistrato e già formolata nella domanda dell’attore. Questa domanda, infatti, contiene l’affermazione di un diritto e delle condizioni legali occorrenti per farlo valere in giudizio; il convenuto, con la negazione (eccezione semplice) impugna o la esistenza del diritto o quella delle condizioni per farlo valere in giudizio, o l’una e l’altra cosa insieme; ad ogni modo egli non sposta le linee di confine della controversia iniziata e conterminata con l’istanza dell’attore. E se, nel negare dovrà talvolta fornire le prove del motivo della negazione, p. es. del pagamento opposto all’azione di credito, sempre la indagine rimane contenuta nel cerchio insuperabile di questo solo quesito: esiste e possiede i requisiti necessari per ottenere tutela giurisdizionale, il diritto affermato dall’attore? Indi il nome di “eccezioni semplici” da noi stesso esteso a tutte le ipotesi di negazione, senza pregiudizio delle ulteriori classificazioni che determinino quale influenza porti per il futuro sul rapporto giuridico contenzioso le difesa elevata dal convenuto.
Quando, al contrario, il convenuto contrappone alla pretesa dell’attore una pretesa propria, egli provoca l’esame del magistrato sopra un tema diverso da quello proposto dall’attore. Questo nuovo tema può essere contenuto nell’orbita del rapporto giuridico reso contenzioso con la pretesa dell’attore, come ad es. quando alla domanda di pagamento di interessi il convenuto contrappone l’eccezione di nullità o inesistenza dell’obbligo principale; i due temi di decisione stanno allora dentro i confini di un unico rapporto giuridico; ma è evidente che il convenuto ha reso più ampia la controversia aggiungendo un nuovo tema di discussione a quello proposto dall’attore. E si osservi come la nuova discussione e indagine giudiziaria da lui provocata sia di tale natura da costituire eventualmente l’oggetto di una pretesa, ossia di una azione autonoma, che il convenuto rendendosi attore avrebbe potuto spiegare contro l’avversario, invece di attendere la provocazione di costui per valersene come di un mezzo defensionale.
Questa nomenclatura adottata dal Mortara è giustamente criticata dal Jaeger (La riconvenzione nel processo civile) il quale osserva che: “Le parole eccezione e riconvenzione hanno ricevuto dall’uso secolare un significato assai diverso e, sotto certi aspetti, un significato perfettamente autentico. Il termine riconvenzione ha invero in ogni lingua una spiegazione etimologica ed un uso corrente che ne pongono in luce il carattere di azione del convenuto, ed il concetto di azione designa, in pratica e per tutti gli autori, alcunché di autonomo, di principale, di importante in sé e per sé, indipendentemente da ogni richiesta altrui. Il termine eccezione ha invece un significato affatto opposto: non soltanto ciò che esso designa è subordinato a qualche cosa di altro, all’azione che l’eccezione deve servire a paralizzare, ma per di più designa un mezzo per l’accoglimento dell’azione di accertamento negativo del convenuto che ha ragione. E tale carattere di mezzo dell’eccezione non si perde in quei casi in cui da taluno si parla di eccezione fatta valere in via di azione, perché in questa ipotesi non si propone veramente alcuna eccezione, ma si muove un’azione sorretta dagli stessi motivi che, in giudizio intentato dall’altra parte, avrebbero giustificato un’eccezione.”
I casi addotti dal Mortara a riprova dell’opportunità di introdurre nel sistema la sua categoria delle eccezioni riconvenzionali sussistono veramente nel nostro ordinamento processuale; senonché essi debbono essere, per chiarezza ed esattezza, classificati diversamente, in modo da prestarsi ad una precisa formulazione dogmatica.
Quella categoria dovrebbe comprendere, secondo il suo propugnatore, le eccezioni del convenuto che, pur essendo intese o servirgli di mezzo di difesa contro la dottrina dell’attore, ampliano il contenuto del processo portandovi un tema nuovo di esame e di statuizione. Tipico esempio del genere sarebbe la compensazione; ma la serie di eccezioni appartenenti alla medesima famiglia sarebbe varia e numerosa, tanto che neppur volendo si riuscirebbe a fornirne l’elenco.
Orbene, a nostro avviso è evidente che le deduzioni del convenuto fatte a puro scopo di difesa non allargano i confini del processo; aumentano se mai le questioni che il giudice deve risolvere, ma sempre ai fini della decisione delle stesse controversie poste dall’attore. Se lo scopo che il convenuto si propone è quello, e soltanto quello, di ottenere il rigetto della domanda dell’attore, l’oggetto (scopo e tema) del giudizio rimane quello posto dall’attore stesso e non muta affatto, se si considera lo scopo che le parti si propongono di raggiungere (come si deve fare ai fini del nostro problema). Di conseguenza il convenuto muove un’eccezione, ed una eccezione pura e semplice, introducendo nel processo nuove questioni e nuove controversie.
È però vero che talvolta si verifica nei giudizi quel fenomeno a cui abbiamo dato nome di trasformazione di una questione in controversia. Alle caratteristiche di questo fenomeno allude appunto il Mortara allorché parla di eccezioni riconvenzionali, ma egli non si cura di distinguere due ipotesi molto diverse e che non devono assolutamente essere confuse: la trasformazione legale (voluta dal legislatore e prescritta da apposite disposizioni di legge) e la trasformazione volontaria (causata dal volere delle parti).
Tenendo ben ferma e ben chiara questa distinzione, si giunge facilmente alla conclusione che di eccezioni riconvenzionali non è mai il caso di parlare, perché quando si versi nel caso della trasformazione legale in controversia di una questione sollevata in via di eccezione dal convenuto il concetto di riconversione non c’entra affatto, almeno che non si deformi talmente la nozione di azione (la riconvenzione è azione per definizione) da arrivare a concepire un’azione coatta, che si muove da sé, indipendentemente dalla volontà del soggetto titolare, ed eventualmente contro di essa. Se poi si versi invece nel caso della trasformazione volontaria, se cioè il contenuto stesso provoca la trasformazione della questione in controversia, chiedendo al giudice la decisione principale e definitiva a tutti gli effetti della medesima, è evidente che si ha bensì una riconvenzione (di accertamento) ma non più un’eccezione, sebbene si possa ammettere che la stessa questione possa funzionare, nella sua soluzione, ad ambedue i fini.
Se infine la trasformazione (volontaria) è provocata dall’attore (il che è pure possibile) si avrà un caso che potrà denominarsi domanda di accertamento incidentale o, se il nome nuovo non dispiace, reconvectio exceptionis, ma anche in questa ipotesi non è da parlarsi di eccezione riconvenzionale.
Secondo questi principi si può, a nostro avviso, intendere e inquadrare perfettamente tutti i casi addotti dal Mortara a sostegno della sua proposta e ascritti alla categoria delle così dette eccezioni riconvenzionali. Particolarmente il caso, abbastanza complesso almeno apparentemente, della compensazione, che può assumere aspetti ed atteggiamenti diversi e tali da rappresentarci tutte le ipotesi sopra enumerate.
Respinta pertanto la classificazione proposta dal Mortara per le esposte ragioni, notiamo come per le stesse ragioni appariscano nettamente distinti i due concetti di eccezione e di riconvenzione, per essere la prima un semplice mezzo destinato a paralizzare l’azione dell’attore portando all’accoglimento della inversa azione di accertamento negativo del convenuto, e per funzionare nel processo soltanto immettendovi nuove questioni, influenti ai puri fini della decisione della o delle controversie poste dall’attore, senza ampliare il tema del processo medesimo, senza cioè introdurre nel giudizio alcuna nuova controversia.
7. Meccanismo e funzionamento delle eccezioni
All’obbligo giuridico dello Stato alla prestazione della attività giurisdizionale corrisponde, nella persona del convenuto, una pretesa a detta prestazione, analoga a quella formulata nella sua domanda dall’attore. Infatti il convenuto ha un interesse legittimo a che si giunga ad un accertamento concreto dei rapporti giuridici sui quali l’attore chiede il giudizio dell’organo giurisdizionale; interesse che, al pari di quello dell’attore, trova la necessaria sua tutela nella facoltà, riconosciuta dallo Stato col delinearsi della funzione giurisdizionale, di chiedere il suo intervento per l’accertamento e la realizzazione degli interessi tutelati in astratto dal diritto obbiettivo.
Sebbene la dottrina processualistica non abbia convenientemente curata la eccezionale importanza che rivela il comportamento del convenuto in giudizio, tuttavia il concetto di difesa sorse come esigenza imprescindibile in tutte le fasi che ha subito il processo nella sua evoluzione storica: “Nemo debet inauditus damnari”. Principio questo che venne fedelmente consacrato all’art. 38 del nostro Codice di rito: “Non si può statuire sopra alcuna domanda se non sentita e debitamente citata la parte contro cui è proposta, eccettuati i casi determinati dalla legge (art. 924).
La perniciosa trascuratezza dell’argomento contribuì, secondo il nostro modo di vedere, alla confusione tra l’interesse secondario all’intervento dello Stato che il convenuto ha per ottenere l’accertamento o la realizzazione degli interessi tutelati in astratto dal diritto obbiettivo, e l’interesse immediato costituente l’elemento sostanziale del singolo diritto subbiettivo, obliterando ogni chiarificazione in merito al primo che pure dà vita alle innumerevoli facoltà spettanti alla persona del convenuto o in giudizio.
Confusione oltremodo dannosa perché impedì di scorgere nella posizione del convenuto una situazione perfettamente analoga a quella dell’attore, limitandone la sfera d’azione ad una semplice difensiva e colorandone l’attività soltanto in rapporto alla relativa domanda promossa dall’attore, quasiché il diritto spettante al convenuto, in tutto il corso del giudizio, dovesse sempre e necessariamente essere subordinato e condizionato dall’attività della parte avversaria.
Secondo noi, e questa opinione è convalidata da egregi scrittori, il diritto di eccezione non differisce per nulla dal diritto di azione a cui si contrappone, si esplica nei confronti dello Stato e consiste nella facoltà di esigere l’accertamento dei concreti rapporti giuridici incerti o controversi dedotti in giudizio.
Naturalmente si può parlare di eccezione soltanto in quanto vi sia una relativa domanda dell’attore rivolta all’autorità giudiziaria, ma una volta verificatosi questo necessario presupposto, il diritto spettante al convenuto è completamente indipendente e considerarlo soltanto in rapporto all’azione è volere limitare il campo all’osservazione, sia pure cogliendone il lato più caratteristico.
A conforto di quanto sosteniamo basti considerare che nel corso del processo il diritto di eccezione può tramutarsi in vera e propria azione, intendiamo qui alludere all’azione di accertamento negativo spettante al convenuto. Questa azione del convenuto passa inosservata fintantoché l’attore insiste nella sua domanda poiché in questo caso quell’azione si confonde e si identifica coll’esercizio del diritto di difesa. Ma basta pensare all’ipotesi che l’attore intenda abbandonare il giudizio, o addirittura rinunciare agli atti, perché l’azione del convenuto si manifesti come diritto autonomo, come azione vera e propria. Ora il fatto che si verifichi un avvenimento semplicemente negativo (abbandono del giudizio, rinuncia agli atti) non vale certamente a modificare il complesso delle facoltà pertinenti in giudizio alla persona del convenuto.
Questa possibile trasformazione non conduce però ad accettare la ibrida figura delle eccezioni riconvenzionali, oppure a citare a sostegno del nostro assunto le azioni in riconvenzione; se il diritto di difesa non è sempre ed esclusivamente subordinato alle attività della parte avversaria, è però limitato nella sua efficacia dai confini della domanda, e qualsiasi diritto vantato dal convenuto in giudizio, che non possa ricondursi allo scopo comune dell’azione e dell’eccezione (dichiarazione mediante sentenza di concreti rapporti giuridici dedotti in giudizio) potrà formare oggetto conveniente di una nuova azione.
Adunque il diritto di eccezione o difesa, che dir si voglia, spettante al convenuto è un diritto autonomo e distinto da quello fatto valere dall’attore nella sua domanda, sebbene della stessa natura; ma è giusto osservare che, considerando lo scopo del processo, la natura dei rapporti giuridici in genere e come agli interessi delle parti si soddisfi con un’unica sentenza, azione ed eccezione appaiono intimamente collegate.
In particolare possiamo notare come la pretesa del convenuto assume una forma antitetica alla pretesa dell’attore, in modo che, di fronte all’azione tendente ad un accertamento positivo, il convenuto contrappone un’azione tendente all’accertamento negativo; e viceversa, di fronte all’azione tendente all’accertamento negativo, contrappone un’azione tendente all’accertamento positivo.
L’atteggiamento della pretesa individuale del convenuto, di fronte agli organi giurisdizionali, in contrapposizione alla pretesa dell’attore, è dato dalla struttura medesima dei rapporti giuridici costituenti oggetto dell’accertamento. Poiché ad ogni diritto subbiettivo vantato dall’attore corrisponde un obbligo giuridico del convenuto, l’accertamento dell’esistenza del diritto dell’attore contiene, ad un tempo, l’accertamento della esistenza dell’obbligo giuridico del convenuto, cioè l’accertamento della esistenza di un vincolo alla sua libertà. Ad ogni azione, quindi, tendente ad ottenere l’accertamento della esistenza di un diritto subbiettivo (azione di accertamento positivo) si contrappone, nel subbietto passivo del diritto sostanziale vantato una azione tendente ad ottenere l’accertamento inesistenza del proprio obbligo giuridico, affermato esistente dall’attore, cioè un’azione tendente all’accertamento del proprio diritto di libertà (azione di accertamento negativo).
Ma analogamente, poiché ad ogni obbligo giuridico affermato inesistente dall’attore, corrisponde un diritto subbiettivo del convenuto, il quale si afferma implicitamente inesistente, lo accertamento dell’inesistenza dell’obbligo giuridico dell’attore contiene implicitamente l’accertamento della inesistenza del diritto subbiettivo correlativo del convenuto, e, quindi, l’accertamento della esistenza del diritto di libertà dell’attore di fronte al convenuto. Ad ogni azione, dunque, tendente ad ottenere l’accertamento della inesistenza di un obbligo giuridico, e quindi del proprio diritto di libertà (azione di accertamento negativo), si contrappone nel subbietto attivo dell’obbligo giuridico materiale negato, un’azione tendente ad ottenere l’accertamento della esistenza dell’obbligo giuridico, e, quindi, del diritto subbiettivo e corrispondente negato dall’attore (azione di accertamento positivo). Avv. Prof. Ugo Rocco, Op. cit.).
Ogniqualvolta funziona l’eccezione si nota questo atteggiamento, ad es. Tizio cita Caio dinanzi all’autorità giudiziaria per un suo presunto credito di Lire 5000, chiedendone la condanna, in tale ipotesi l’attore propone una azione di accertamento positivo del suo diritto di credito e conseguentemente una esplicita dichiarazione e conseguentemente una esplicita dichiarazione dell’obbligo giuridico incombente a Caio; ma d’altra parte Caio oppone la inesistenza di obbligazione di sorta tra lui e la persona dell’attore ed allora contrappone un’azione di accertamento negativo ed implicitamente l’affermazione del suo diritto di libertà.
Giova ancora osservare che il diritto di eccezione o di difesa del convenuto in giudizio, pure rimanendo immutato nei suoi confronti dello Stato, consiste infatti nella facoltà di esigere la prestazione della attività giurisdizionale, varia nei suoi effetti a seconda degli elementi di diritto o di fatto, o delle semplici opposizioni che il convenuto intende far valere.
Le suesposte osservazioni sembra ci autorizzino a concludere che tra azione ed eccezione esiste un perfetto parallelismo e che non sono in sostanza diverse, argomenti questi di una importanza eccezionale per il nostro studio, che partendo da un punto di vista logico, vuol tenere in giusta considerazione il principio che il giudice dell’azione sia il giudice dell’eccezione.
8. Recezione della regola nel nostro diritto
Sebbene non sia affermato da un testo di legge, è generalmente ritenuto che la regola “il giudice dell’azione è il giudice dell’eccezione” sia stata accolta nel nostro diritto. Gravi divergenze di opinioni sorgono però quando si tratta di stabilire con quali caratteri vi sia stata ammessa e se ad essa possa attribuirsi la qualifica di principio di massima, da servire come norma direttiva.
Forse, a far sorgere queste gravi divergenze, che hanno tenuta sempre divisa così la dottrina come la giurisprudenza, ha contribuito non poco il contributo stesso della legge la quale, oltre a non annunciare esplicitamente in alcun testo questa regola, presenta in relazione alla stessa, una casistica in varii sensi, nella quale non è facile trovare una sicura direttiva. Come in seguito si vedrà, vi sono dei testi che ripudiano la regola e altri che la ammettono, più o meno apertamente, ma sempre specie per specie. Sarà nostra cura di dimostrare, a suo tempo, come il legislatore in nessun caso abbia inteso di negare alla regola il carattere di principio generale, e come in casi specificamente determinati, abbia solo ritenuto, per motivi giustificati, allontanarsi dalla applicazione della stessa.
Con l’affermare che la regola abbia valore di principio generale, non vuol dire che sia assoluta. Il suo costituire un principio generale significa solo che è norma direttiva di tutti i casi non regolati dalla legge; ma nell’applicazione ai medesimi essa è soggetta a certi limiti che appunto la rendono relativa. Dal dissidio esistente circa la determinazione di questi limiti si sono delineate due tendenze. Una di queste tendenze sostiene che il giudice dell’azione conosce sempre dell’eccezione, sia pure superiore alla sua competenza, ma col tacito presupposto però che egli può soltanto esaminarla e mai giudicarla. L’altra sostiene che il giudice dell’azione può ritenere l’eccezione esorbitante purché realmente egli possa conoscerla incidenter tantum, senza giudicarla.
La differenza fra le due tendenze è la seguente: la prima ritiene la possibilità giuridica di quel tacito presupposto, mentre la seconda intende stabilire se e quando la suddetta condizione del tacito presupposto sia da reputarsi adempiuta o no; da ciò il sorgere di varie teoriche, generate dalla varietà del criterio secondo il quale si determina la possibilità o meno di siffatta cognizione incidentale.
La dottrina elaborata dalla prima di tali tendenze non è in sostanza che la riproduzione della teorica del diritto comune, la quale concede al giudice della causa l’esame della controversia incidente, sebbene possa essere tale che, se fosse stata dedotta in via principale, avrebbe sorpassato la di lui competenza, ma glielo concede limitando a priori con un tacito presupposto, la natura e gli effetti del medesimo. Il giudice conoscerà, ma non giudicherà della controversia incidente, ossia potrà assumerla in considerazione, ma non per pronunciare direttamente sulla medesima, sibbene ed unicamente per poter giudicare della causa. Di guisa che il risultato di questo esame non formerà mai cosa giudicata all’infuori della specie decisa (Appendice delle Pandette del Gluk).
Per ora ci limitiamo a questi semplici accenni della questione, facendo però risultare che due punti si possono considerare come cosa specifica in ordine al modo di applicazione della regole, e cioè:
1) Materia ed oggetto dell’applicazione della regola sono tanto le questioni elevate in forma di eccezione quanto quelle elevate in forma di replica da parte dell’attore, dovendo il termine di eccezione assumersi nel suo significato più ampio di controdeduzione alla avversaria pretesa. La facoltà di ampliare il tema del giudizio entro la cerchia dell’intero rapporto litigioso, è quindi comune alle parti, essendo uguale il diritto che esse hanno ad una piena difesa.
2) La questione alla quale vuolsi applicare la regola deve essere veramente una eccezione (quaestio incidens) e cioè deve avere colla domanda principale rapporto diretto o necessario, in modo che non si possa giudicare di questa senza conoscere della questione incidente.
Ciò perché la regola trae la sua ragione di essere dalla facoltà che hanno i contendenti di ampliare la materia del giudizio fino a comprendervi tutte le questioni riflettenti l’intiero rapporto litigioso o che possono convergere alla definitiva e completa risoluzione del rapporto medesimo.
9. Opinioni degli scrittori
Gli illustri commentatori del Codice Sardo, Mancini, Pisanelli e Scialoja (Vol. I) annunciano questa regola come una massima incontestata, sull’applicazione della quale non possa sorgere alcun dubbio.
Il Pescatore è un ardente difensore della teoria secondo la quale il giudice dell’azione deve essere in ogni caso il giudice dell’eccezione. Egli stesso nella sua Sposizione del Codice di Procedura Civile, narra come la Cassazione di Milano, della quale faceva parte, discusse molto vivacemente in Camera di Consiglio sulla opportunità e convenienza di ammettere o no la accennata teoria e che egli finì per ottenere che l’opinione da lui seguita ricevesse l’autorevole sanzione di quella Corte Suprema. Ecco in quale forma il Pescatore annuncia il suo sistema: “Il giudice dell’azione è pur giudice competente dell’eccezione anche nei casi in cui la questione, se si presentasse in forma di azione, apparterrebbe, in ragione della materia, a giurisdizione diversa. E invero, conoscere di un’azione consiste di esaminare se si verifichino le condizioni del diritto che l’attore reclama: ora opponendo un’eccezione il convenuto nega esistere le condizioni del reclamato e a lui negato diritto. Adunque il giudice, o non deve conoscere dell’azione, o se la prende in esame, il suo diritto implica eziandio la presa ad esame della eccezione. Il simile avviene, se la questione incidente si presenti, non in forma di eccezione, ma qual sussidio o antecedente logico della domanda principale. Il giudice competente per questa esaminerà in via incidentale ogni altra questione necessaria ad esaminarsi, non già per statuirvi, ma solo per giungere a pronunziare sulla domanda dedotta competentemente in giudizio; e infatti alla materia di sua competenza sarà limitato l’effetto del giudicato”.
Gli argomenti addetti dal chiarissimo scrittore a sostegno della sua tesi sono i seguenti. Egli invoca in primo luogo una legge romana (Cost. I, de ordine iudiciorum) dalla quale desume che in diritto romano era accettato il principio, secondo il quale il giudice incompetente per la eccezione, poteva tuttavia conoscere della eccezione medesima non già principaliter ma semplicemente incidenter, e senza che la sentenza di quel magistrato potesse per nulla influire sulla questione che sfuggiva alla di lui competenza.
Fa parola in secondo luogo dell’inconveniente che si verificherebbe collo ammettersi la teoria contraria, per la quale cioè si verrebbe a stabilire che il convenuto potrebbe a suo talento modificare le competenze solo opponendo delle eccezioni, anche infondate, la cui cognizione può sfuggire al potere giurisdizionale del magistrato adito. In terzo luogo rileva che il Codice vigente di procedura civile non ha riprodotto la disposizione che si ravvisava nell’anteriore quanto alla contestazione della qualità di erede. È noto che l’articolo 71 del Codice Sardo disponeva che venendo contestata la qualità di erede la causa fosse rimessa al Tribunale provinciale per la decisione dell’incidente, salvo a provvedere sulla domanda principale dopo l’esito di questo giudizio.
Il Pescatore sostiene che non avendo il Codice civile vigente riprodotta simile disposizione devesi concludere che esso abbia inteso appunto di ripudiare quel sistema, secondo il quale il giudice dell’azione non può conoscere della eccezione, laddove questa ecceda i limiti della sua competenza. Inoltre il profondo giureconsulto osserva che invano si cercherebbe fra le attuali disposizioni legislative il bandolo per risolvere la questione di cui trattasi.
Il Codice di Proc. civ. serba sulla questione medesima il più assoluto silenzio, dimostrando in tal modo chiaramente che il legislatore ha inteso rimettersi ai principi generali di diritto. Ciò posto, non vi sarebbe, secondo questo scrittore, alcuna ragione per non ammettere il principio universalmente accettato che cioè il giudice debba conoscere della eccezione salve in ogni caso le limitazioni suespresse.
Da ultimo il Pescatore sostiene che, ammettendosi la teoria da esso propugnata, non si verrebbe con ciò ad offendere benché menomamente e nel più lontano modo le regole fondamentali quanto alle norme della competenza ordinaria, poiché non bisogna dimenticare che quando l’eccezione supera la competenza del giudice adito, questi ne prende cognizione solo limitatamente alla controversia principale; ed è perciò che la sua decisione non pregiudica affatto la questione incidente.
Il Pescatore nella sua opera “Filosofia e Dottrine giuridiche” (pag. 282 e segg.) ha modificato notevolmente la sua opinione, ritenendo che si debba in ogni caso far distinzione fra la esistenza o meno di contraddittori legittimi, e sostenendo la incompetenza nel caso affermativo e la competenza nel negativo.
Il Borsari segue l’avviso che l’eccezione non può esercitare influenza alcuna sulla competenza. Egli così si esprime: “La eccezione è la difesa; e limitare al giudice la cognizione, sotto pretesto che supera la sua competenza, implicherebbe la negazione del diritto di difesa. D’altronde è sempre la domanda che decide della competenza. Quindi il giudice inferiore può e deve occuparsi eziandio di apprezzare quei titoli e quei diritti che, proposti in via di azione, avanzerebbero di gran lunga la breve podestà di cui si cinge: il conciliatore può ben mettere lo sguardo e spaziare con la mente in un titolo che accoglie i maggiori diritti ‘non ut de iis pronuntiet’ ma per trovarvi la giustificazione di quella domanda di 25 ovvero di 30 lire, che gli è presentata”.
Il Ricci tratta ex professo la questione, e dichiara di attenersi alla opinione tenuta dai Commentatori del Codice Sardo.
“Allorché la controversia è deferita ad un magistrato, da che dovrà egli desumere la sua competenza o incompetenza? È principio fondamentale che la competenza debba desumersi dalla domanda dell’attore, anziché dall’eccezione del convenuto. Chi provoca infatti il magistrato, chi lo investe della cognizione di una data controversia è l’attore e non il convenuto, quindi la domanda di quello deve prendersi a base della competenza o incompetenza. E alla domanda dovrà aversi riguardo, qualunque sia la pronuncia che il magistrato emette sulla medesima; laonde se io ti convenga davanti al Tribunale chiedendoti Lire 2000, e la sentenza dichiari avere io diritto a mille soltanto, sta ferma la competenza del giudice adito, la quale si determina sempre in ragione della domanda, e non della condanna. Havvi chi ritiene, che il principio da noi posto soffre eccezione quando rendesi necessaria la decisione in via principale di una controversia che supera i limiti dell’autorità adita, come se per il pagamento richiesto da un canone enfiteutico occorresse prima stabilire il diretto dominio dell’attore, imperrocché in questo caso la questione non è già un incidente sollevato dal convenuto, ma nasce naturalmente dalla domanda stessa.”
Nel conflitto delle opinioni, vediamo quali sieno i principi di ragione da applicarsi per risolvere la questione. Vi sono delle eccezioni che prendono di mira le ragioni sulle quali si fonda la domanda, mentre ve ne sono altre che, prendendo di mira lo stesso obbiettivo della domanda, altro ufficio non fanno che determinare meglio, o porre in maggiore evidenza la domanda che l’attore ha voluto proporre.
Mi presento in giudizio a rivendicare un fondo, il cui valore si contiene entro i limiti della competenza pretoria, e questa azione di rivendicazione io fondo sulla mia qualità di erede di Sempronio, cui il fondo stesso apparteneva, il convenuto impugna la mia qualifica ereditaria, e poiché la questione, se io sia, oppure no, erede di Sempronio, eccede i limiti della competenza pretoria, quindi sorge il dubbio, se il Pretore sia competente a pronunciare sulla mia domanda di rivendicazione, non ostante l’eccezione sollevata dal convenuto.
Se ben si osservi, questa eccezione e altre di simil genere non immutano in alcun modo l’obbiettivo della domanda, il quale rimane sempre lo stesso, ma vanno a ferire direttamente il fondamento o la ragione su cui si poggia la domanda stessa. Proponendo la rivendicatoria del fondo, io voglio che sia dichiarato il mio diritto di proprietà sul medesimo; il convenuto, eccependo che io non sono erede di colui al quale il fondo reclamato ha appartenuto, non altera né modifica menomamente l’oggetto della mia domanda, ma dice solo che non è serio né vero il fondamento della mia azione. Se l’obbiettivo della domanda adunque, e quindi l’obbiettivo della controversia che si dibatte, resta inalterato; se a questo obbiettivo appunto vuolsi avere riguardo per istabilire la competenza, è chiaro che l’eccezione, di che ci occupiamo, non può essere presa a calcolo per istabilire una competenza diversa da quella determinata dalla mia domanda.
Ed infatti, qualunque sia la ragione sulla quale una pretesa è fondata, certo è che l’esame del magistrato verte sempre sulla pretesa dedotta in giudizio; e come l’essere la pretesa fondata su l’una, piuttosto che sull’altra ragione, non vale ad alterarne l’indole ed il valore, così non delle ragioni, su cui fondasi la domanda, deve il magistrato prendere norma per pronunciarsi sulla sua competenza, bensì da ciò che costituisce l’obbiettivo della domanda stessa.
Né dicasi che a questo modo si chiama il magistrato a pronunciare su una controversia, a riguardo della quale dovrebbe dichiarare la propria incompetenza, ove fosse portata direttamente alla sua conoscenza. Imperrocché, non immutandosi, per effetto della sollevata eccezione, l’obbiettivo della domanda, la controversia che direttamente e principalmente decide il giudice è quella sollevata coll’istanza dell’attore, non quella derivante dall’eccezione del convenuto. Di questa il magistrato conosce, non già per statuire definitivamente sulla medesima, bensì allo scopo di pronunciare con maggiore cognizione di causa sulla questione principale mossa dall’attore. Di questo modo di deliberare le questioni incidenti abbiamo esempi nei giudizi possessori. È noto, infatti, che al magistrato non è permesso cumulare il possessorio col petitorio, e confondere così due giudizi che la legge vuole distinti sì per ragione dell’indole loro, che per ragioni di competenza; eppure al giudice del possessorio è lecito conoscere del petitorio, non per pronunciare direttamente su questo, ma per trarne lumi allo scopo di emanare pronuncia definitiva nel possessorio. A questo modo istesso il giudice conosce dell’eccezione che, ove fosse direttamente opposta, esorbiterebbe dai limiti della propria competenza.
L’esame fatto dal giudice sulla questione incidente, i cui risultati appariscono dalla parte motiva della sentenza, non già dalla dispositiva, appunto perché non fatto direttamente, ed allo scopo di pronunciare definitivamente sull’oggetto dell’esame stesso, differenzia molto dall’esame portato sulla questione principale, dappoiché, mentre la pronuncia, che riguarda quest’ultima, pone fine ad una controversia e fa stato fra le due parti passando in autorità di cosa giudicata, la cognizione invece dell’altra non ha mai valore di giudicato, e può sempre la questione incidentalmente promossa essere risollevata in via principale, senza che le possa essere di ostacolo l’eccezione derivante dalla cosa giudicata. Quindi se il Pretore adito, nella ipotesi supposta, accolga la mia domanda di rivendicazione, ritenendo infondata l’eccezione con cui mi si contrasta la qualifica ereditaria, non per questo io potrò ritenere essere stabilita, in confronto del mio avversario, la mia qualità di erede, ma esso avrà il diritto di impugnarla direttamente in giudizio principale.
Passando poi alla seconda specie di eccezioni, a quelle cioè, che prendono di mira l’obbiettivo della domanda, modificandolo, ovvero determinandolo meglio, questo scrittore così ragiona: “L’Art. 72 della procedura dispone, che quando la somma richiesta è parte di obbligazione maggiore, la quale è controversa, la competenza si desume dal valore della intera obbligazione. La controversia, cui si allude in questo articolo, è quella che sorge dalla risposta data dal convenuto alla domanda dell’attore, dappoiché non può ritenersi che la maggiore obbligazione, di cui la somma richiesta fa parte, è controversa se non quando il convenuto l’ha impugnata, ond’è che in questo caso il determinare la competenza dipende dalla eccezione che sarà per sollevare il convenuto. Ma perché l’eccezione è nel caso valutabile allo scopo di stabilire la competenza? Perché essa non combatte il fondamento della domanda ma è diretta a far comprendere in che la domanda stessa consiste. Impugnando, infatti, il convenuto l’obbligazione minore, esso stabilisce con ciò che quello che si chiede dell’attore è parte di obbligazione maggiore controversa, e chiarita così la domanda è d’uopo che da siffatto schiarimento dipenda il determinare la competenza” (Ricci, Commento al C.P.C.).
Il Gargiulo sostiene che il giudice dell’azione deve essere in ogni caso il giudice dell’eccezione. Quale argomento principale a sostegno della sua tesi, egli cita il frammento 2° de iurisdictione il quale dice “cui iurisdictio data est ea quoque concessa esse videtur sine quibus iurisdictio exerceri non potest”; ed inoltre rileva gli inconvenienti che si verificherebbero per lo ammettersi il principio opposto, e cioè che il convenuto potrebbe a suo talento modificare la competenza.
Il Mattirolo, a sua volta, ritiene che il giudice della domanda principale dovrà pur conoscere della questione solo per giungere allo scioglimento di quella questione che la legge sottopone alla sua giurisdizione, ossia per potere aprir la via per pronunciare sulla domanda principiale.
Questo ottimo scrittore, dopo aver accennato ai vari casi in cui dal legislatore è stato determinato il giudice competente, si rivolge questa domanda: “Quale sarà il principio razionale che dovremo seguire per tutti i casi in cui la legge non abbia espressamente provveduto, e che ci valga anche di criterio logico di interpretazione delle speciali disposizioni della legge sopra questo grave argomento?” e così risponde:
Premettiamo:
- a) Il convenuto può sollevare la nuova questione, che per ragione di materia appartiene ad altra giurisdizione, in via di eccezione o in via di riconvenzione. La sua proposta sarà una eccezione, se egli mira esclusivamente a difendersi contro l’attore, a chiedere l’assolutoria della domanda attrice; sarà invece una riconvenzione, allorché prende una apposita conclusione sulla detta questione, e chiede così formalmente che questa venga decisa.
- b) Affinché il convenuto possa proporre una domanda riconvenzionale, e pretendere sulla medesima una formale decisione del giudice, è necessario che le due parti, fra cui pende il giudizio, siano i legittimi contradittori, l’uno riguardo all’altro, sulla questione sollevata con l’azione di riconvenzione, imperrocché se fosse altrimenti non esisterebbe un vero e regolare giudizio sopra tale questione e la sentenza del giudice sopra di questa non potrebbe mai avere il carattere di decisione definitiva, la forza del giudicante.
Ordunque:
- a) Se le parti contendenti sulla questione principale sono anche i legittimi contraddittori, l’uno riguardo all’altro, sulla questione incidente, o se l’uno o l’altra delle parti prende, come ne ha il diritto, apposita conclusione anche sul punto incidentale reclamando sopra di esso una decisione dell’autorità giudiziaria, niun dubbio che a statuire sopra entrambe le questioni si richiederà nel giudice una competenza completa per l’una e per l’altra, di giudicato per entrambe le controversie. Quindi, sempre quando il giudice stato adito dall’attore, e che era competente per la domanda principale, sia incompetente per la domanda incidentale, dovrà spogliarsi interamente della cognizione della causa; e le parti dovranno, per entrambe le questioni adire l’autorità che ha la competenza per conoscere della causa così ampliata.
- b) All’incontro, se le parti contendenti sulla questione principale, o non costituiscono sulla questione incidente un contraddittorio legittimo, ovvero, pur essendo contraddittori legittimi sopra tale questione, si astengono entrambe dal formulare in ordine alle medesime alcuna conclusione, e così si accordano nel volere limitare la decisione del giudice all’oggetto della domanda principale, in allora basterà che il giudice abbia competenza in riguardo alla questione principale; imperciocché una maggiore competenza non attribuirebbe alla sua sentenza il valore di cosa giudicata sulla questione incidente, o perché manca il legittimo contraddittorio delle parti sopra tale questione, o perché le parti non vollero sulla medesima provocare una vera decisione. Conseguentemente il giudice competente per la domanda principale, nel deciderla, esaminerà pure la questione incidente, non per istatuire in ordine ad essa, ma solo per poter riuscire a pronunciare sulla questione principale di sua competenza, per modo che il valore del giudicato, proprio dalla sua sentenza non si estenderà che alla questione principale risolta.”
L’illustre Prof. Sen. Cogliolo, nella pregiata sua nota alla sentenza 10 agosto 1881, pubblicata nel Foro Italiano, Vol. VII, pag. 388, ritiene che l’eccezione, salvo i casi contemplati dalla legge, non abbia influenza per la competenza. “Il giudice, Egli afferma, è chiamato a giudicare dell’azione, e poco importa se in via incidentale deve studiare questioni, delle quali in via principale non avrebbe potuto giudicare; di queste eccezioni, superanti la sua competenza, non giudica, me ne tien conto per giudicare sull’azione: insomma di queste eccezioni cognoscit incidenter sed non definit principaliter. Non diciamo, egli prosegue, che il giudice dell’azione è il giudice dell’eccezione perché ripetiamo che la sua sentenza non facit rem iudicatam de exceptione, ma diciamo che se l’azione è di sua competenza, può conoscerne e giudicarne, anche se è obbligato ad esaminare incidentalmente eccezioni superanti la sua competenza. Il Pretore è stato adito per una somma inferiore alle Lire 1500, egli ha il diritto e il dovere di giudicare di questa somma: poco importa se per giudicare deve esaminare documenti, obbligazioni, diritti di maggiore competenza. Adunque non può giudicare dell’eccezione, ma può giudicare dell’azione; cioè l’eccezione non turba la sua competenza.
Se l’eccezione non toglie la controversia al giudice dell’azione, non ha però questi il diritto di giudicare di essa eccezione: il giudice è chiamato a vedere se il petitum è debitum; per riuscirvi può esaminare incidenter questioni superanti la sua competenza, ma il suo giudizio su queste non è vero iudicium e non produce res iudicata.
Indi così riassume la sua teoria: la competenza si stabilisce dalla domanda, il giudice, per giudicare solo sulla domanda, può esaminare incidenter questioni superanti la sua competenza, l’eccezione non turba mai la competenza del giudice sull’azione, però il giudice dell’azione non è il vero giudice dell’eccezione, nel senso che la sua sentenza su cose incidentali, fuori della sua competenza, non fa res iudicata.
Il Mortara è alquanto dissidente dai precedenti scrittori; egli per determinare quale influenza eserciti l’eccezione sul valore della causa, ha costruito la nota sua teoria, che ha avuto qualche seguito, consistente nel distinguere le eccezioni in semplici e riconvenzionali. Le eccezioni semplici, consistenti in un sistema di negazioni, non allargano la sfera di indagine proposta al magistrato e già formulata nella domanda dell’attore, perché con esse il convenuto impugna o la esistenza del diritto o quella delle condizioni per farlo valere in giudizio, o l’una e l’altra cosa insieme; in ogni modo egli non sposta le linee di confine della controversia iniziata e conterminata coll’istanza dell’attore. Le eccezioni riconvenzionali, che consistono nel contrapporsi da parte del convenuto una pretesa propria a quella dell’attore (eccezioni in senso stretto o sostanziale) portano, secondo l’autore, nel processo un tema nuovo di esame e di statuizione; se la controversia proposta dal convenuto con questa eccezione si manifesta di competenza superiore a quella del giudice adito, l’intera controversia passa alla competenza superiore a quella del giudice adito, a meno che si tratti di una questione di stato o di qualità ereditaria o che la legge espressamente disponga in senso diverso. Conclude l’illustre scrittore il suo dire intorno alla questione con queste parole: “Circa il rapporto fra azione ed eccezione, dal punto di vista della competenza, vi sono due regole parallele: la prima stabilisce, il giudice dell’azione (ossia della pretesa dell’attore) essere competente a conoscere delle eccezioni opposte contro la medesima: essa trova un limite nella ipotesi della incompetenza del giudice stesso a decidere sulla eccezione; la seconda concerne precisamente questa ipotesi e insegna, il giudice competente per l’eccezione riconvenzionale essere competente pure a decidere dell’azione”.
Lo Jaeger, nel capitolo primo (Principi fondamentali) della recente sua pubblicazione ”La riconversione nel processo civile” tratta magistralmente la questione, per quanto venga a conclusioni che non possiamo accettare. Egli, anzitutto, per rendersi veramente chiaro ed interamente apprensibile, stabilisce il significato da attribuirsi ai vocaboli “questione” e “controversia”.
Questione è un antecedente logico controverso, la cui soluzione è presupposta per la decisione finale, e che quindi interessa le parti solo indirettamente (in quanto la sua soluzione influisce sulla decisione della controversia) e unicamente nel corso del processo e ai fini di questo.
Controversia è il dissenso sulla fondatezza di una azione, su cui si chiede al giudice una giustificazione, alla quale le parti sono interessate direttamente, nel senso che di quel pronunciato intendono servirsi dopo il processo, nei loro rapporti sostanziali.
Indi così inizia il suo dire: “La risoluzione di una controversia può presupporre la preventiva soluzione di una o più questioni, e di conseguenza, poiché la lite può ricondursi ad una o più controversie, si potrà avere tanto una lite componibile mediante la risoluzione di una sola controversia ad unica questione, quanto una lite che può essere integralmente composta soltanto con la risoluzione di più controversie a più questioni ciascuna. Per dimostrare l’importanza della distinzione fra questione e controversia, egli portò questo esempio: Agerio conviene in giudizio Negidio per ottenere la condanna ad eseguire un contratto e quella generica al risarcimento dei danni, il tutto con una sentenza provvisoriamente eseguibile; il convenuto nega che il contratto sia stato concluso, nega trattarsi di materia commerciale (come l’attore aveva affermato), si oppone all’ammissione della prova testimoniale chiesta dall’attore. Che cosa dobbiamo vedere in questo processo? Una lite (unico conflitto di interessi far Agerio e Negidio). Tre controversie (se debba essere giustificata l’azione futura-esecutiva di Agerio per fare eseguire il contratto, o quella passata di Negidio che non l’eseguì, se debba essere attesa l’azione futura di Agerio nella forma dell’esecuzione provvisoria o no).
Un numero grande non facilmente determinabile di questioni (se si versi in materia commerciale, se la prova per testimoni sia ammissibile, quale sia il valore da attribuire alla deposizione di Tizio e a quella di Caio, se sia ammissibile la provvisoria esecuzione ecc.).
Portata la lite davanti al giudice, questi esplica la sua funzione risolvendo le questioni presupposte dalle controversie e poscia risolvendo queste ultime. Se tutte le controversie relative ad una lite sono presentate al giudice, e da questi sono decise, viene meno anche la lite. Se viene presentata al giudice solamente una parte delle controversie di una lite, questa non può venir meno che parzialmente. Uno dei principi fondamentali del nostro diritto processuale vieta al giudice (ne procedat ex officio) di decidere su controversie a lui non presentate, mentre gli è lecito bene spesso proporsi d’ufficio delle questioni pregiudiziali, per la decisione della controversia sottopostagli.
Colla domanda giudiziale, intesa come atto processuale contenente la posizione di uno o più capi di domanda, che corrispondono ad altrettante controversie, si costituisce il rapporto processuale, il quale si conclude normalmente colla sentenza definitiva. Può dirsi pertanto che dalla domanda giudiziale discende l’obbligo del giudice di pronunciare su di essa, salvo rinuncia delle parti. Se pertanto ogni sentenza presuppone una domanda giudiziale, ad ogni domanda giudiziale consegue di regola una sentenza definitiva. Ma la domanda non costituisce soltanto il presupposto necessario della sentenza, essa segna altresì i limiti della sentenza appunto in virtù della massima consacrata nell’art. 35 C.P.C. che nega al giudice la facoltà di pronunciare su controversie a lui non presentate nella domanda. I due atti, domanda e sentenza, si trovano adunque in rapporto di logica coordinazione, e tale rapporto osservano qualunque sia la vita del rapporto processuale, sia che esso si inizi e si esaurisca dinanzi ad un solo giudice e fra le stesse parti, sia che si trasformi dal lato dei soggetti, per passaggio da un giudice ad un altro o per successione delle parti.
Anche la nota massima “sententia debet esse conformis libello” che trova la sua sanzione nell’art. 517 n. 4 e 5 C.P.C., esprime il divieto fatto, in via generale, al giudice di pronunziare su controversie estranee e diverse da quelle a lui sottoposte colla domanda giudiziale. La massima stessa è fondata sul principio del contraddittorio (art. 38 C.P.C.) ed è giustificata sia dalla legittima aspettativa di entrambe le parti di conoscere sin dal primo momento del giudizio e per necessità di difesa le questioni che in esso dovranno discutersi e risolversi, sia nell’interesse sociale a che la giustizia venga resa quanto più sollecitamente è possibile e non trovi ostacolo nel sorgere continuo di nuovi dibattiti ritardanti la decisione.
Tuttavia nella domanda devonsi spesso riconoscere effetti ampi più di quelli che a prima vista sembrerebbero discenderne, avendo essa un contenuto esplicito ed uno implicito. Il giudice non solo ha il dovere di decidere tutte la controversie a lui sottoposte colla domanda, ma anche quello di risolvere tutte le questioni di fatto o di diritto, anche sottaciute nella domanda, la cui soluzione costituisce un presupposto della decisione delle controversie corrispondenti ai capi della domanda stessa. Tali questioni possono essere state sollevate dal convenuto, o infine possono venire rilevate d’ufficio dal giudice stesso, anche se le parti non hanno saputo o voluto manifestare un dissenso su un antecedente logico della decisione della controversia. In tutti questi casi la posizione delle questioni non è se non una conseguenza naturale della posizione delle controversie: nulla di strano quindi che quelle si introducano nel processo anche se non poste esplicitamente dalla domanda, la quale implicitamente le contiene.
Si può verificare, su domanda delle parti, la trasformazione di una semplice questione in controversia. Occorre, perché ciò avvenga, che nella questione, la quale non ha altri caratteri se non quelli di concernere un punto influente per la decisione di una controversia, e che l’accertamento del punto dubbio possa costituire l’oggetto di una azione. Perché quindi la trasformazione possa avvenire, devono riscontrarsi nel caso le condizioni dell’azione, e cioè:
- a) l’esistenza della norma che attribuisce l’azione;
- b) la qualità delle parti;
- c) l’interesse di agire, oltre la manifestazione di volontà, ossia la domanda.
Questi requisiti non sono concordemente ammessi dalla dottrina che, sebbene con terminologie diverse, si è occupata dell’argomento a proposito di particolari istituti, o nell’esaminare le norme della competenza e lo spostamento di questa che le domande del convenuto possono determinare (Pescatore, Mattirolo, Mortara), o nello studio del problema sulla estensione del giudicato ai motivi della decisione (Ascoli-Cammeo, Note al Crome pag. 471 nota a), o a proposito della domanda di accertamento incidentale (Chiovenda, Principi di Dir. Giud., par. 93): problemi tutti connessi intimamente con quello che noi chiamiamo della trasformazione della questione in controversia, perché è generalmente ammesso ormai che soltanto sulle decisioni di quelle che designano controversie si formi la cosa giudicata, ed è logico che la formazione della cosa giudicata presupponga la competenza del giudice a decidere definitivamente il punto controverso.
Dopo quanto sopra, il Jaeger così conclude: “Abbiamo già detto quale è in sostanza l’opinione che ci sembra preferibile perché più conforme ai principi generali della teoria del processo. Il nostro concetto di controversia è intimamente legato al concetto di azione; e non crediamo che quelle condizioni dell’azione che sono qualità e l’interesse ad agire si possa in argomento prescindere. Accediamo quindi, in massima, alla teoria del Pescatore. Sul punto particolare peraltro di quella conseguenza della domanda che è costituita dallo spostamento della competenza, troviamo che la soluzione deve ritrovarsi nella concezione che si preferisce dell’istituto della competenza: considerata questa come un presupposto processuale, sembra che il suo verificarsi debba precedere l’accertamento delle condizioni dell’azione”.
Il Pistoni è il più strenuo fra i pochi sostenitori della teoria secondo la quale l’eccezione del convenuto deve sempre influire sulla determinazione della competenza. Egli nel noto suo studio sulla regola “Il giudice dell’azione è il giudice dell’eccezione” dopo aver combattutto tutte le altre teoriche viene a questa conclusione che riportiamo colle precise sue parole: “In ordine al quesito relativo alla influenza della eccezione sulla competenza, non apparisce conforme né alla logica giuridica, né alla convenienza e alla utilità pratica l’ammettere solo in qualche caso l’influenza medesima, oppure ritenere in via radicale che la giurisdizione deve essere in ogni caso misurata alla stregua della domanda principale. Ne segue che l’unico sistema che a questo riguardo si presenta ammissibile si è quello pel quale le norme ordinarie di competenza debbono essere seguite non solo per ciò che si riferisce alla domanda principale, ma eziandio per quanto concerne la eccezione. Questo sistema, infatti, oltre a presentarsi più logico e più razionale di tutti gli altri, ha il vantaggio di essere confortato, in ordine a molti casi speciali, dal disposto autorevole delle legge”.
10. Stato della giurisprudenza
Le opinioni delle Corti in ordine alla questione da noi trattata furono mai tante e così diverse che è giocoforza limitarci ad accennare alle principali e riassumerle.
Da una forte corrente giurisprudenziale venne deciso che colla eccezione del convenuto lo stato degli atti, relativamente alla competenza, non subisce alcuna variazione, e la competenza è quale si determina a base delle azioni fatte valere dall’attore. Fra le sentenze pronunciate in questo senso, che sono numerosissime, alcune distinguono le eccezioni in due categorie: la prima di dette categorie è costituita dalle eccezioni che non hanno alcuna influenza sulla domanda, ossia che non sono tali da cangiare la domanda e la relativa competenza, che sono un mezzo per decidere sulla domanda; e per queste si ammette la nessuna influenza a variare lo stato degli atti relativamente alla determinazione della competenza. La seconda di dette categorie è costituita dalle eccezioni che: 1) ampliano l’oggetto della contesa, 2) implicano una indagine sul fondamento dell’azione, 3) cangiano l’oggetto della domanda, 4) hanno un effetto proprio, 5) sollevano una questione diversa da quella promossa dall’attore, 6) implicano una questione che deve necessariamente risolversi per decidere la causa, 7) involgono una controversia la cui decisione farebbe stato fra le parti, 8) assorbono l’azione in guisa da diventare oggetto principale della domanda, 9) sono in rapporto diretto colla domanda in modo che non si può pronunciare su questa senza pronunciare su quella etc.; e per questa categoria di eccezioni si ritiene che gli atti della causa subiscano per effetto delle eccezioni opposte una tale variazione da doverne tener conto nella determinazione della competenza, in modo che, in seguito alla loro opposizione, il magistrato adito diviene incompetente a pronunciare sull’azione principale dovendo rinviare l’intiera causa al magistrato superiore.
Vi è poi un esiguo numero di decisioni le quali non ammettono che l’effetto di cui sopra si avveri in ogni caso, e fanno obbligo al giudice di deliberare sommariamente l’eccezione, onde poter decidere se la stessa presenti o no fondamento.
Altre decisioni infine stabiliscono in modo assoluto il principio che quando il convenuto oppone una eccezione colla quale viene fatto valere un diritto che non fosse stato fatto valere come azione principale sarebbe di cognizione di un giudice superiore all’adito, gli atti della causa subiscono agli effetti della competenza una variazione delle quale deve essere tenuto conto.
Ritengo opportuno, prima di chiudere il presente capitolo, trascrivere testualmente alcuni considerando della sentenza della Cassazione di Firenze 17 luglio 1879 (Bettini XXXI, 1, 1, 998). Questo giudicato, se non ha il pregio della freschezza, tratta, in compenso, la questione con molta ampiezza e svolge estesamente molti fra i più importanti argomenti che sono stati addotti così in favore come contro la regola da noi studiata.
La specie decisa dalla detta sentenza era la seguente: Una tale Lotti, qualificandosi erede di Lorenzo Orlandi, convenne in giudizio un certo Giovannetti per rivendicare la metà di un fondo da questi abusivamente posseduto. Il fondo era stato calcolato di valore inferiore a Lire 1500, di guisa che la causa venne portata a cognizione del giudice di mandamento. Il Giovannetti peraltro accampava, in linea pregiudiziale, che la Lotti non era figlia legittima dell’Orlandi, e che perciò non potendosi dire erede del medesimo, non era in facoltà di rivendicare dei diritti di eredità che non le appartenevano.
La Cassazione così ragiona: “Male si appose la sentenza quando invece riguardò la controversia di stato personale della Lotti assoluta e principale, a motivo che il Pretore non avrebbe potuto attribuire ad essa il diritto di erede sulla metà della presella che intendeva rivendicare; come emettere dichiarazione sullo stato personale di lei, posto in contestazione, senza pronunciare sopra materia estranea alla sua competenza; stante che la controversia di stato era di valore indeterminabile, e dalla legge (art. 81 C.P.C.) considerata eccedente le LL. 1500, sebbene di valore inferiore a questa somma fosse il fondo rivendicato. Per potere la disputa di stato assumere carattere di questione principale, avrebbe dovuto avere l’oggetto suo proprio di ricuperare indeterminatamente la prerogativa, i diritti inerenti allo stato medesimo; limitata come era all’oggetto diverso di rivendicare porzione di piccolo appezzamento, restava una questione meramente incidente. Il Pretore doveva assumerla in esame non per statuire direttamente sulla qualità di figlia ed erede, ma per cercare e stabilire il diritto di proprietà accampato per rivendicare la porzione di quel fondo che aveva un valore inferiore alle Lire 1500; soltanto in relazione a questo oggetto di valore determinato, e nei confini di sua competenza, il Pretore, investito come era indubbiamente della facoltà di intraprendere tutti gli esami, di assumere tutte le cognizioni, si spiegare nella parte razionale della sentenza tutte le considerazioni necessarie e affermare il suo giudizio sull’oggetto principale della controversia (che era la metà dell presella rivendicata) non era impedito di esaminare ancora la questione incidente di stato per formarsene un criterio, e dichiarare la sua opinione e giudizio pure su quella, e non soltanto gustarla o delibarla. Ma così decidendo la questione di stato sarebbe venuto a deciderla non in senso giuridico, e per modo che la sua sentenza acquistasse autorità di cosa giudicata oltre la specie decisa (cioè l’azione rivendicata) anche per tutti i rapporti inerenti allo stato di figlia ed erede, che ne avesse riconosciuti nella Lotti. Non è inconcepibile, come annunziò la deferita sentenza, che la dichiarazione del possesso di uno stato personale possa avere valore ad uno solo, se non a tutti gli effetti. Si concepisce anzi benissimo, distinguendo di quanto si dichiara meramente per incidens e per giungere allo scioglimento della questione sottoposta in via principale, da quanto si dichiara intorno a questa direttamente.
E tanto più facilmente si concepisce quando, come nella specie, le parti contendenti sulla questione principale non sono per anche i legittimi contraddittori l’uno a riguardi dell’altro, sulla questione incidente, che presentasi come l’antecedente logico della questione principale e per l’effetto di fare questa risolvere, non può credersi sufficiente legittimarlo per costituire un vero e regolare giudizio sulla stato personale in tutta la pienezza delle sue prerogative, né oltre la specie decisa in modo principale. Per decampare da queste norme razionali non vale l’osservazione che la sentenza che la Lotti intentando l’azione rivendicatoria aveva l’obbligo di provare che la reclamata metà della presella a lei spettava nella allegata qualità di figlia ed erede di Lorenzo Orlandi; ed una volta contestatale la qualità di figlia, per far valere il suo diritto ereditario, doveva giustificare la sua figliazione, il suo stato; la prova dello stato non era che la prova della qualità ereditaria e non poteva far sì che la questione ereditaria rimanesse distinta dalla questione di stato; mentre invece dovendosi necessariamente prima stabilire sullo stato della persona per desumerne la qualità di erede, la questione di stato non solo primeggiava, ma si immedesimava in quella ereditaria. Da tutto ciò non può inferirsene che il Pretore, incompetente a conoscere della questione di stato di per sé dalla legge considerata di valore indeterminabile ed eccedente le Lire 1500, divenga anche incompetente a conoscere della azione intesa a rivendicare un fondo di valore certamente inferiore alla Lire 1500; noto è il principio non essere già la ragione nel domandare, ma il fine e lo scopo della domanda quello che determina e misura la competenza del giudice; lo scopo e il fine della domanda della Lotti evidentemente era la rivendicazione di metà della presella; la qualità di erede e figlia di Lorenzo Orlandi non era che il titolo su cui fondavasi la domanda, e la ragione del domandare; e questa non potevasi avere riguardo per determinare la competenza del giudice. Tutto il ragionamento della sentenza riducesi in sostanza alla negazione di una massima ormai presso noi ricevuta per la dottrina dei più illustri scrittori, e per la giurisprudenza delle Corti di Appello e di Cassazione del Regno che ebbero occasione di applicarla, decidendo che il giudice della questione principale può ben prendere cognizione della questione pregiudiciale incidente che per sé stessa eccederebbe la di lui competenza normale; con questo però, che allora esamina la questione incidente come mezzo per giungere alla decisione della questione principale, che per legge è sottoposta alla sua giurisdizione e competenza, ma non pronunzia direttamente su quella, onde, fuori della specie decisa, la sentenza non acquista virtù di cosa giudicata. Tale principio si raccoglie dalle fonti dell’antico diritto romano (Leg. 5, par. 8, 9 ff. de agnosc. et alend. Liber; Leg. 1, Cod. de ord. iudic. cui corrisponde la Leg. 1 Cod. de iudic.). Ne deviò per un momento il Codice di Procedura Civile per gli Stati Sardi del 1854 con la speciale disposizione dell’articolo 71, circa la questione incidente di qualità ereditaria, ma non riprodotta questa nel Codice posteriore del 1859 (come non è riprodotta nell’attuale del 1865). A buona ragione ha potuto inferirsene che il legislatore italiano volle farne ritorno al diritto antico, il pensiero legislativo italiano in questo senso facendosi anche meglio palese per non essere stato nel Codice civile riprodotta neppure la disposizione del Cod. Albertino all’art. 989 intorno alla virtù del giudicato sulla qualità ereditaria quod omnes. Male potrebbe credersi che argomento in contrario risulti dalla disposizione dell’art. 723 del Cod. comm. avvegnaché sia agevole persuadersi che in quella si contiene un precetto iuris singularis; al modo stesso che deve riconoscersi nel disposto dell’art. 406 C.P.C. sull’incidente di falso avanti i Tribunali di Commercio e non diversamente in quello dell’art.431, riguardo simile incidente avanti i Pretori. Argomento e conferma del relativo intendimento del legislatore potrebbe piuttosto ricavarsi dalla disposizione dell’art. 79 della legge consolare 28 gennaio 1866, ove esplicitamente è detto: “Sono sempre riservate ai Tribunali del Regno le cause riguardanti lo stato civile delle persone, salvo ai consoli e ai Tribunali consolari la cognizione di tali questioni in via incidentale, nel quale caso gli effetti delle sentenze saranno limitate alle specie decise”. Se non che a soccorso viene anche l’argomento che potrebbe dirsi ad absurdo. Ed infatti se il giudice dovesse astenersi dal pronunziare in tutte quelle cause che gli sono dalla legge attribuite, solo che sorgesse incidentalmente una delle questioni di cui egli non può sentenziare, in via principale, le regole di competenza rimarrebbero o affatto annullate, o grandemente alterate, sapendosi che il caso si verifica bene spesso, ed avverrebbe anche più di frequente per artifizio dei contendenti, qualora potesse ciò bastare per rendere il giudice incompetente. Bene è vero che s’incorrerebbe in altro assurdo, affermando in modo assoluto la competenza poiché si verrebbe a dare facoltà a quel giudice di pronunziare sopra cose e valori, pei quali la legge lo dichiarò incompetente. Ma appunto a riparo dell’uno e dell’altro assurdo trovasi saggiamente coordinato il principio, che quando è proposta ad un giudice in via incidente una questione sulla quale sarebbe incompetente a sentenziare in via principale, egli ne possa nondimeno giudicare schivando così il primo assurdo, ma che il giudicato il quale ne risulta, non possa estendersi oltre l’oggetto che venne dedotto in via principale evitandosi così anche il secondo assurdo”.
Così esposte le varie opinioni della dottrina e della giurisprudenza, credo si possa arrivare a questa constatazione, e cioè che, astrattamente, quasi ad unanimità si è d’accordo nell’ammettere questa regola nel nostro diritto, ma si ha poi grave discordanza nel determinare i casi di sua applicazione.
Che dal contrasto delle varie opinioni che si contesero il campo si andarono delineando le seguenti principali teoriche:
1) L’eccezione non esercita alcuna influenza sulla competenza;
2) Per determinare la competenza non si deve avere particolare riguardo solamente alla domanda, ma altresì alla eccezione;
3) La teorica del legittimo contraddittorio;
4) La teorica dell’assorbimento;
5) La teorica che l’eccezione deve essere seria e fondata;
6) La teorica dell’eccezione riconvenzionale.
Nel capitolo seguente si esamineranno queste varie teoriche facendole seguire da qualche osservazione critica.
11. Esame delle varie teoriche in ordine alla regola
Sull’ardua questione se nel vigente nostro diritto trovi applicazione la regola da noi studiata, abbiamo creduto nel capitolo precedente di riassumere le opinioni più preminenti che si contendono il campo in varie teoriche.
Il compito che ora ci proponiamo sarà quello di passare in rassegna queste teoriche e di metterle possibilmente a confronto colle esigenze dei principi giuridici e della pratica.
- I) La teoria secondo la quale l’eccezione non esercita alcuna influenza sulla competenza venne sostenuta, come abbiamo già visto, da scrittori autorevolissimi, e, sebbene oggi sia quasi abbandonata dalla giurisprudenza, merita non di meno tutta la nostra attenzione. Anzitutto essa trova una conferma in vari testi di legge che ne fanno applicazione, fra i quali alcuni di data recentissima e che in seguito esamineremo; onde può logicamente inferirsi che se di essa è stata fatta continua applicazione in testi legislativi, ciò significa che la stessa dal legislatore venne implicitamente accolta come principio, mentre i testi negativi possono dimostrare che, per ragioni particolari, il legislatore ha sentito il bisogno, in casi determinati, di allontanarsi dalla regola stessa. Il fatto che la legge ora accetta, ora ripudia la regola, non è quindi un argomento sufficiente che possa nuocere alla generalità della regola, poiché alla stessa rimane tuttavia un campo assai vasto in cui trovare la sua applicazione.
Non ignoriamo l’obiezione, fatta da alcuni, che i testi favorevoli, perché sono di specie, escludono l’ammissione della regola in generale; ma non è difficile contrapporre con perfetta logica che dalla reiterazione delle applicazione è lecito risalire alla affermazione del principio generale. Si può ancora aggiungere che, se nel Codice non vi è un testo il quale formuli la regola come principio, questa lacuna può essere colmata dai lavori preparatori del Codice di rito e precisamente della Relazione Pianelli, nella quale è detto che il legislatore “ha inteso di adottare come principio, salvo date eccezioni, la regola suddetta”; soltanto non ha creduto necessario di formularla in un testo perché essa appartiene interamente al dominio della scienza. Il legislatore con questo suo riferirsi alla scienza, ha forse voluto accennare alla tradizione del diritto anteriore, da cui la dottrina ha desunto la teoria che si riassume nel ditterio “il giudice dell’azione è il giudice dell’eccezione”. La regola, ad es. del diritto comune “quod iudex causae principalis potest etiam de incidenti” aveva il valore di un principio generale, e può essere considerata come un esatto equipollente della regola precedentemente menzionata, ch’è pervenuta nel nostro diritto.
Or dunque il ditterio “il giudice dell’azione è il giudice dell’eccezione” ha certamente nella vigente nostra legislazione il valore di una norma direttiva in tutti i casi non disciplinati dalla legge; però, nella sua applicazione, come è stato ammesso in dottrina e in giurisprudenza, è soggetta a molti limiti, perché non abbia a tramutarsi in una deroga assoluta al sistema delle competenze.
Questa teorica, di fronte alle altre, presenta indiscutibilmente i seguenti vantaggi:
1) È conforme alla tradizione: sia che si faccia derivare la regola dalle fonti del diritto romano puro, sia che si faccia derivare dal diritto comune.
2) È conforme alla volontà espressa dal legislatore, il quale in molteplici disposizioni indice al giudice di prendere in esame la quaestio incidens, non per giudicarla, ma per essere in grado, colla cognizione di essa, di poter giudicare della causa principale.
3) Non urta colla teorica della cosa giudicata. L’autorità della cosa giudicata si riferisce all’oggetto del giudizio, costituito dalla domanda principale non dalla questione incidentale, che si insinua nel giudizio solo perché il giudice ne prende conoscenza e così possa formarsi il criterio per decidere, non questa ma quella.
4) Non urta col sistema delle competenze. Posto infatti il principio che il giudice esamina e non giudica dell’eccezione, è chiaro che la sua competenza resta inalterata. Per esaminare semplicemente, a lui basta la competenza che possiede per la lite principale; mentre, per la necessità logica che avvince il mezzo al fine, non si può interdirgli di conoscere tutto ciò che gli è indispensabile per essere in grado di proferirsi nel richiestogli giudizio.
5) Soddisfa felicemente alle esigenze della pratica. Perché toglie alla malizia del convenuto un pretesto che potrebbe riuscire comodo a declinare il foro adito dall’attore col sollevare un quaestio incidens esorbitante.
- II) La teorica opposta alla precedente, per la quale per determinare le competenze, non si deve avere riguardo solamente alla domanda ma altresì alla eccezione, si fonda in massima parte su argomenti ai quali abbiamo, in modo implicito, risposto precedentemente sostenendo l’altra teorica. Riprendendo ora questi argomenti specificamente in esame, cercheremo di essere più esaurienti:
- a) Si afferma da molti scrittori che la legge non enuncia in alcun testo la regola ed anzi, mentre in molti casi la esclude, quando la ammette ne fa applicazione specie per specie, dando così prova di non volerla ammettere come massima. La nostra legge, è vero, non dà una norma in via generale, ma detta singole norme, nelle quali però le cose premesse ci permettono di distinguere quelle che rispondono ad un principio generale e quelle che hanno un carattere particolare, determinato dalla natura della singola questione pregiudiziale, o dalla qualità del giudizio davanti a cui si presenta. Infatti, passando in rassegna le varie disposizioni di cui agli art. 72 cpv., 76, 77, 102 cpv., e art. 10 della legge 16 giugno 1892 sui Conciliatori, 931 cpv. 3, 570 C.P.C,. spiegheremo per ogni singolo testo i motivi per cui il legislatore sentì la necessità di allontanarsi dall’applicazione della regola. Riassumendo qui detti motivi, singolarmente da spiegarsi ad ogni testo, in un principio unico, diremo che il legislatore nei casi in cui ha ritenuto, per ragioni evidenti, che la questione incidente o pregiudiziale meriti di essere oggetto di una cognizione principale, cioè con effetto di cosa giudicata, ha allora disposto che se il giudice della causa pendente non è competente a così conoscerla, deve rinviare la causa intera, o la sola questione pregiudiziale, secondo i casi, al giudice competente per la pregiudiziale. All’infuori dei casi in cui la legge stessa, con una norma espressa, richiede sopra una questione pregiudiziale un accertamento incidentale, la cosa giudicata non si estende alle questioni pregiudiziali.
- b) Altro argomento che viene spesso affacciato è che lo abilitare, come principio, il giudice a conoscere incidenter di cose e valori, di cui non avrebbe egli potuto occuparsi principaliter, altro non è che foggiare una deroga generale all’ordine delle competenze. Non si può ammettere che colla applicazione della regola si venga a foggiare una deroga generale alle competenze poiché della questione il giudice non conosce principaliter e quindi l’autorità di cosa giudicata non si estende ad essa, ma si limita all’oggetto del giudizio di cui il magistrato è legalmente investito. Del resto lo stesso legislatore, dice il Castellari, ci mostra la elasticità delle sue distribuzioni di cose e valori controversi, permettendo e talora esigendo che essi si trascurino e si sostituiscano da altri, in riguardo alla connessione dei rapporti litigiosi, la quale, in omaggio ad un principio eguale in importanza a quelli determinatori della divisione normale, reclama un solo e medesimo giudice. Ebbene, a un altro principio, se non a codesto della connessione, s’informa la regola; dunque, sotto tale aspetto, non solo gli è contraria, ma rientra esplicitamente nel sistema costruito dal legislatore.
- c) Alcuni scrittori hanno inoltre obiettato che mal si concilia con i principi vigenti dell’autorità della cosa giudicata quel temperamento che ha la regola per cui il giudice esamina e non giudica l’eccezione. Qualunque cosa possa ritenersi, essi dicono, rispetto ai testi romani e alla giurisprudenza intermedia, certo è, in diritto attuale, la distinzione tra un examinare ed un pronunciare non si adatta alle massime generalmente invalse. Il valore della obiezione così proposta dipende dalla soluzione che si intende dare alla questione circa la misura in cui il contenuto della sentenza costituisce cosa giudicata.
Vi sono, come è noto, in proposito due sistemi in contrasto fra loro.
Vari scrittori ritengono conforme al nostro diritto il sistema del Savigny, quello per cui cioè i motivi acquistano forza di cosa giudicata nella sentenza, o, in altri termini, quel sistema per cui le pronuncie sulle eccezioni e sulle questioni pregiudiziali, contenute nella motivazione della sentenza, passano in giudicato per il solo fatto che sono sollevate e contestate indipendentemente da una qualunque formale conclusione delle parti che invochi una soluzione espressa, e indipendentemente da una espressa decisione del dispositivo. In questo senso è il Mortara, Comm. II, n. 80 e la prevalente recente giurisprudenza.
Ma più conforme alle tradizioni del nostro diritto processuale è l’altro sistema, per cui di regola, e fuori dei casi tassativi di legge, i motivi (cioè sulla pronuncia sulle eccezioni e sulle pregiudiziali) non costituiscono giudicato, se non siavi formale domanda di parte (azione di accertamento incidentale). Questo secondo sistema, che è seguito dal Chiovenda e in parte dal Castellari, dal Pescatore e dal Mattirolo, è quello che crediamo di dover seguire anche noi. In assenza di un testo di legge che risolva direttamente la questione, ve n’ha uno che già conosciamo, il quale a proposito delle pregiudiziali di stato, e in ordine alla competenza dei tribunali consolari, la risolve escludendo che in genere le controversie di stato sieno decise in via principale da essi tribunali, e ammettendo che possano essere decise come pregiudiziali senza acquistar la forza di giudicato al di là del caso deciso (Legge Consolare art. 79). Ve n’ha poi un altro il quale a proposito delle pregiudiziali in genere (escluse solo quelle di stato e quelle relative alla capacità) in ordine alla competenza del Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, ammette che dette questioni possano essere decise senza acquistare forza di giudicato al di là del caso deciso (art. 28 T.U. sul Consiglio di Stato 1924). Ed altro testo di legge, perfettamente analogo, è contenuto nell’art. 3 della legge sulla Giunta Provinciale Amministrativa.
Stanno poi a favore di questo secondo sistema altri testi di legge, i quali danno indirettamente elementi per la risoluzione della questione. Il problema se la proposizione di una eccezione o di una pregiudiziale dia luogo a un giudicato per il solo fatto della contestazione e conseguente pronuncia nei motivi è connesso con l’altro se la proposizione delle stesse questioni influisca o no sulla competenza per materia e valore. Infatti intanto è logico che tale influenza si dispieghi, sottraendo la questione stessa o la questione incidentale e quella principale alla competenza del giudice adito su questa, in quanto sull’incidente venga a formarsi il giudicato.
A sostegno di questo secondo sistema, non è superfluo ancora ricordare che, essendo l’autorità della cosa giudicata una presunzione legale, la cui ragione sta nella necessità di por fine alla controversia, tanto che è in facoltà delle parti di poter rinunziare al beneficio della medesima: deve anche lasciarsi libero alla volontà delle parti stesse di determinare la cosa sulla quale l’autorità predetta dovrà formarsi. Ammesso questo principio che trova la sua espressione nel ditterio “tantum ligatum tantum iudicatum” proposta per semplice esame, senza che le parti vogliano che sia giudicata, non entra nel ligatum e quindi non può entrare nel iudicatum.
Né avrebbe valore l’opporre che la ragione, per cui una questione si esibisce in giudizio è indifferente sul risultato che essa resti, o no, giudicata. Tutto ciò non sarebbe logico perché sulla questione incidentale, non essendovi giudizio, non può nascere autorità di cosa giudicata.
III) Una teoria eclettica è quella del legittimo contraddittore, sostenuta dal Pescatore e più recentemente dal Mattirolo, la quale così si può riassumere:
- a) Se le parti contendenti sulla questione principale sono anche i legittimi contraddittori, l’uno riguardo all’altro, sulle questioni incidenti, o se l’una o l’altra delle parti prende, come ne ha il diritto, apposita conclusione anche sul punto incidentale, reclamando sopra di esso una decisione dell’autorità giudiziaria, niun dubbio che, a statuire su entrambe le questioni si richiederà dal giudice una competenza completa per l’una e per l’altra, diventando la regola inapplicabile.
- b) All’incontro, se le parti contendenti sulla questione principale o non costituiscono sulla questione incidente un legittimo contraddittorio, ovvero, pur essendo legittimi contraddittori sopra tale questione, si astengano entrambe dal formulare sopra la medesima alcuna conclusione, e così si accordano nel voler limitare la decisione del giudice all’oggetto della domanda principale, in allora basterà che il giudice abbia competenza in riguardo alla questione principale; egli, malgrado non abbia la correlativa competenza, può e deve esaminare la questione incidentale, non per deciderla, ma solo per conoscerla in quanto è necessario a dedurre dalla medesima il giudizio della questione principale.
Questa teorica viene così illustrata dai suoi sostenitori:
Rispetto alla prima parte. È un giudizio vero e proprio, essi dicono, quello che si chiede per la quaestio incidens al magistrato: dunque i principi generali così della cosa giudicata come della competenza, esigono che egli sia competente ad emanarlo. La circostanza che codesto giudizio sia reclamato nella continenza di un altro, è indifferente, non generando alcuna ragione perché esso, per ciò solo, debba perdere le garanzie inerenti dei principi suddetti.
Rispetto alla seconda parte. Se i contendenti non sono legittimi contraddittori sulla questio incidens, vuol dire che, per difetto di podestà, essi non possono costituire sulla medesima un vero e regolare giudizio. Essa rappresenta una controversia che le parti trattano nella continenza della loro causa, solo affinché il giudice possa avvalersene per giudicare quest’ultima. Onde ne consegue da un lato che il fatto che il magistrato non abbia per avventura competenza normale sulla questione incidentale non nuoce minimamente alla perseveranza della causa presso di lui, appunto perché il giudizio, che da lui si richiede, è quello della causa su cui è competente, e non già l’altro sulla controversia incidente. Dall’altro canto, poi ne consegue che la competenza del giudice adito rispetto alla causa è sufficiente a abilitarlo ad istituire quell’esame della quaestio incidens, che è condizione, affinché egli possa formare l’unico giudizio che, della lite, gli è legittimamente domandato. Lo stesso ragionamento vale nella ipotesi che le parti, avendone la podestà, non abbiano avuto volontà di sottoporre a giudizio la loro controversia incidente, ossia abbiano fatto apposta conclusione, affinché venga decisa dal giudice della principale. Dipende dalla concorde volontà delle parti l’ambito del giudizio che esse intendono costituire tra di loro; e dipende dall’ambito del giudizio, così da loro voluto, la estensione della pronunzia, che sarà da attendersi dal giudice e l’ampiezza dell’autorità di giudicato che a questa sarà da attribuirsi. Da ciò, deducono che, come sarebbe illogico il pretendere che il giudice dovesse avere una competenza maggiore per un giudizio (sulla quaestio incidens) che non gli è richiesto, altrettanto irrazionale sarebbe il ricusare che la competenza che egli ha sulla causa basta a conferirgli la podestà di istituire quello esame (sulla quaestio incidens) che solo gli è richiesto, affinché possa compiere quel giudizio che unicamente è chiamato a fare.
Concludendo questa teorica:
- a) nega l’applicazione della regola, allorché il giudice incompetentemente sarebbe invitato a pronunciar giudizio sopra la stessa.
- b) concede l’applicazione della suddetta allorquando, per difetto di podestà o di volontà dei litiganti, non essendo né potendo chiamato a fare cotale giudizio, egli si deve limitare ad un semplice esame della eccezione per quanto occorre, e non do ut des sed de ea causa pronunciet.
Come evidentemente appare da quanto sopra il Pescatore ed il Mattirolo limitano il diritto di far giudicare la quaestio incidens al caso in cui le parti sieno legittimi contraddittori anche sulla questione pregiudiziale. Ma questa limitazione troppo generica è a ragione respinta da scrittori più recenti, come il Castellari, il Tuccio e il Chiovenda, perché una questione, potendo sorgere anche fra persone che non sono le più direttamente interessate a risolverla, se ed in quanto è possibile che si formi su essa e tra esse un giudicato, sarà anche possibile una domanda di accertamento incidentale.
Il Castellari accetta la teorica suddetta, ma con qualche riserva, come appresso:
1) Se, proposta la questione incidente, una almeno delle parti litiganti fa conclusione formale affinché nella continenza dello stesso giudizio essa venga decisa il giudice incompetente in modo assoluto rispetto alla medesima non diventa in forza della competenza, che già possiede in causa, capace di giudicarla. La regola che il giudice dell’azione è il giudice dell’eccezione, è assolutamente inapplicabile.
2) Se, proposta la questione incidente, veruna delle parti litiganti fa conclusione formale affinché nella continenza dello stesso giudizio essa venga decisa, il giudice, che sarebbe incompetente a giudicarla, può esaminarla, ossia prenderne cognizione per quanto è necessario a giudicare la causa in cui è emersa. La regola che il giudice dell’azione lo è pure dell’eccezione, qui si applica col correttivo che la eccezione si esamina solo per giudicare l’azione.
3) Dalle due conclusioni precedenti risulta che la competenza locale non è di ostacolo alcuno al giudizio, o rispettivamente dall’esame della controversia incidente. Così era ammesso nel diritto comune, e così è nel diritto attuale, ove non è nemmeno oggetto di studio particolare. La dottrina della competenza per connessione, applicata per analogia, dimostra la verità della proposizione.
Rimane ancora, in questa dottrina, da prendere in esame un elemento, quello del legittimo contraddittore, ed è su questo punto che il Castellari diverge dagli autori della teorica. Questo criterio del legittimo contraddittore, osserva il Castellari, ha una sfera di applicazione molto ristretta, si riferisce alle questioni di stato per le quali sta ad indicare che esse sieno agitate tra coloro che hanno quel legittimo interesse specifico che, per il diritto sostantivo, è richiesto, onde poter proporre o contraddire in giudizio un determinato rapporto di stato.
Ciò posto, se le parti contendenti nella causa principale non pigliano nessuna conclusione specifica sopra la quaestio incidens status, il fatto che esse sieno, o non sieno, legittimi contraddittori sulla medesima, non influisce menomamente sulla conseguenza che la dottrina pone; potersi cioè la quaestio medesima sempre esaminare (non giudicare) dal giudice della causa, ancorché incompetente. Così, se in causa alimentare tra marito e moglie, sorge la controversia incidente sullo stato di moglie legittima, ma né l’uno né l’altra concludono per la decisione della medesima, si applicherà la regola temperata nel modo anzidetto, malgrado che i contendenti sieno legittimi contraddittori sul rapporto di stato coniugale tra loro incidentalmente discusso: quale ne è la ragione? Questa e non altra: che se le parti, sia pure avendone piena podestà, non vogliono che la questione incidente sia giudicata, essa non resta giudicata: dunque può essere esaminata quaetenus expedit, ancorché il giudice della causa non sia competente a giudicarla. In altri termini, la ragione è la omessa conclusione formale. Ed allora, se questo criterio basta a sorreggere il risultato che si intende stabilire, non sarebbe più opportuno abbandonare l’altro (legittimo contraddittorio) che resta inerte?
Procediamo all’altra ipotesi della teoria. Le parti contendenti della causa principale prendono conclusioni formali sopra la quaestio incidens status. La regola cessa in modo assoluto: il giudice incompetente non può né giudicare, né esaminare, ove le parti stesse siano tra loro legittimi contraddittori. Ma sta in questa qualità delle medesime la vera ragione di tal risultato, o non piuttosto nel fatto esse hanno formata la conclusione espressa per la decisione della controversia incidente?
Cessa la regola perché, data la conclusione, il giudizio è inevitabile; e vi è conclusione non solamente perché le parti ebbero la podestà di formarla, ma eziandio perché, e più, ebbero la volontà di attuarla. Ed evidentemente il giudice, a cui è chiesto un giudizio, non può darlo, se incompetente, come non può sostituire un semplice esame laddove le parti da lui vogliono un vero giudizio. Insomma anche in questo caso la ragione decisiva è la conclusione formale; l’altro criterio del legittimo contraddittorio non offre che un elemento di podestà, il quale resta ugualmente inerte, dal momento che è la volontà, manifestata colla domanda di risoluzione della quaestio incidens, il motivo decisivo del risultato, che si ha in mira di stabilire. Ed allora ci sia lecito di domandare se non sarebbe più opportuno tacere dell’elemento indifferente.
Le parti contendenti nella causa principale prendono conclusione formale sopra la quaestio incidens status, ma non sono legittimi contraddittori. La regola temperata, secondo la teoria suesposta, si applica così ragionando: siccome manca il legittimo contraddittorio, non esiste un vero e regolare giudizio sulla medesima; dunque non è necessario che il giudice dell’azione sia competente; egli potrà conoscerne all’effetto di pronunziarsi sulla lite. Ci duole, ma in questa deduzione, non possiamo seguire i nostri sommi Maestri. A nostro rispettoso parere (è sempre il Castellari che parla) la regola qui cessa in modo assoluto. E la ragione è che, per dato di fatto, qui pure havvi conclusione formale per la decisione della controversia incidente; e ciò basta perché ne derivi la necessità del giudizio sulla medesima; e con questa necessità, quella ulteriore della competenza nel giudice eccitato a pronunziarlo. Il difetto di podestà legittima delle parti nel fare oggetto di giudizio anche la controversia incidente non influisce, né sulla podestà del giudice a pronunciarlo, né sulla natura intrinseca del giudizio pronunziato: perché le due podestà sono distinte e indipendenti, e quindi logica illazione dall’una all’altra non è possibile. La mancanza di legittimo contraddittorio importa che le parti non potessero promuovere giudizio tra loro, ma se lo hanno effettivamente promosso, il giudizio, sebbene invalidamente, è costituito, e nel giudice che è chiamato a proferirlo è necessaria la opportuna competenza; e la decisione che interverrà formerà cosa giudicata. Il giudizio e l’autorità del giudicato dipendono certamente dall’interesse legittimo dei contendenti ad agitare tra loro giudizialmente quel dato rapporto giuridico controverso; ma non nel senso assoluto che, senza tale legittimo interesse, il giudizio sia inesistente o non nasca mai, bensì nel senso assai più ristretto che, senza codesto legittimo interesse la controversia, come improponibile, può essere respinta senza essere soggetta ad esame del merito ed il giudizio, lasciato correre sulla medesima, può essere fatto annullare nei modi e termini di legge. Laonde, possiamo ancora una volta revocare in dubbio la opportunità del criterio del legittimo contraddittorio, ognoraché una volta ancora abbiamo riscontrato che esso rimane inetto.
- IV) Altra teorica, la quale, in passato è stata accolta da un numero non esiguo di sentenze, è quella cosiddetto dello assorbimento, appunto perché si sostanzia nello stabilire che il giudice non può conoscere della quaestio incidens esorbitante la sua competenza, se assorbente della questione principale. Ciò perché la sentenza del giudice adito verrebbe a fare stato di cosa giudicata anche sulla questione assorbente proposta dal convenuto.
Credo potermi dispensare dal fare qui citazione di una lunga serie di sentenze che potrei ricavare dalle ormai vecchie raccolte di giurisprudenza. Fra gli scrittori, solo il Ricci professa un’opinione che si avvicina a questa teorica. “Vi sono delle eccezioni, egli dice (Trattato di Proc. Civ., I, n. 62), che prendono di mira le ragioni sulle quali si fonda la domanda, mentre ve ne sono altre che prendono di mira lo stesso obbiettivo della domanda, altro ufficio non hanno che determinare meglio e porre in maggior evidenza la domanda che l’attore ha voluto proporre. Le prime non immutano in alcun modo l’obbiettivo della domanda, il quale rimane sempre lo stesso, ma vanno a ferire direttamente il fondamento e la ragione su cui poggia la domanda stessa, e quindi non si computano nella determinazione della competenza, che è già stabilita dalla domanda. Viceversa, si computano le seconde, che prendono di mira l’obbietto della domanda, modificandolo ovvero determinandolo meglio”. In sostanza, l’opinione qui manifestata dal Ricci, sarebbe quella di limitare l’applicazione della regola rispetto alle eccezioni che trasformano, per il loro contenuto, la causa in una diversa e maggiore di quella che era in riguardo alla domanda introduttiva della causa.
La teorica dell’assorbimento si informa all’intento di conciliare l’applicazione della regola coi principi odierni della competenza e della cosa giudicata. E quindi pone come limiti all’applicazione della regola, da un lato, il principio che il giudice deve essere competente rispetto all’oggetto che è chiamato a giudicare, e dall’altro il principio che la risoluzione delle premesse logiche, al pari del conseguente, fa cosa giudicata. Donde se ne trae che se la controversia incidentale è premessa logica e necessaria di quella principale (e perciò non può essere giudicata separatamente), e se inoltre eccede i limiti di competenze assegnati al giudice adito per la causa, questi non deve conoscerla in alcun modo. Dai suoi sostenitori si ritiene che questa teoria abbia una implicita conferma positiva dai seguenti testi di legge:
1) Art. 72 C.P.C. In esso è detto che il valore della causa si determina dalla domanda. Ma per domanda non deve intendersi solo l’atto in cui l’attore ha introdotto la lite, sibbene, così l’azione come l’eccezione, e quando la legge dice che il giudice deve avere competenza sulla domanda, è come se dicesse che deve averla su tutti e singoli gli elementi di essa, tanto sulla azione quanto sull’eccezione. Per tanto se l’eccezione esorbita le competenze del giudice, da lui non può essere giudicata.
2) Art. 101 e 102 C.P.C. In questi articoli è detto che le pretese in garanzia, compensazione e riconvenzione proposte dinanzi al giudice della causa principale non possono da lui essere giudicate, qualora non rientrino nella sua competenza assoluta. E, per analogia, la stessa regola deve applicarsi ad ogni altra controversia sopravveniente nel corso del giudizio. A questa teorica sono giustamente state mosse delle critiche, le quali ne dimostrano la inaccettabilità. Dette critiche consistono specialmente nei seguenti addebiti:
1) Indeterminazione della sua formula, essendo molto vago il poter determinare che cosa si voglia dire con “questione assorbente”.
2) Distruzione implicita della regola, dato che, collo stabilirsi che ne viene meno la sua applicazione ove esorbiti la competenza, ogni qualvolta la quaestio incidens è una premessa logica e necessaria, i casi di applicazione della regola vengono a ridursi presso che a zero.
- V) Né maggior favore può incontrare la teorica consistente nel ritenere che l’eccezione valga ad esercitare uno spostamento delle competenze soltanto quando si presenti seria e fondata. Anche per questa teoria si può osservare che non ha base su un concetto chiaro e ben definito, dal quale non possano sorgere incertezze in ordine ai casi pratici. Il determinare quando un’eccezione possa ritenersi seria e fondata è un compito troppo elastico, che può anche dar luogo a degli arbitri.
Una semplice affermazione del convenuto, che non sia confortata da una prova non può, a mio credere, chiamarsi una vera eccezione diretta a dimostrare la illegittimità dell’azione promossa dall’attore. Reus in excepiendo fit actor: questo è un principio che deve essere specialmente ricordato in ordine alla presente teoria. Nessuno ignora che per la esistenza della contestazione giuridica è necessario che le singole allegazioni sì dell’attore come del convenuto sieno sostenute da taluno di quegli argomenti che, secondo l’ordine giuridico, costituiscono un sistema probatorio. Quindi è che ove il convenuto si limiti ad affermare una data circostanza, impugnata dall’attore, e non concorre in suo favore alcuna delle prove ammesse dalla legge, si debba concludere che la suaccennata affermazione è priva di ogni consistenza giuridica e perciò non può produrre alcun effetto.
Ora, i sostenitori della teoria in esame, quando parlano di eccezioni serie e fondate, non intendono riferirsi alla esistenza di una prova legale a favore della allegazione, ma solo alludono ad un semplice apprezzamento del giudice.
Questa teoria pertanto non si può accogliere senza arrecare offesa ai principi del diritto costituito e una grande confusione nella pratica forense.
- VI) Un teorica che può chiamarsi della eccezione riconvenzionale e che ha avuto, e continua ad avere molto seguito nella giurisprudenza, appartiene al Mortara, ed ha per base la nota distinzione delle eccezioni in semplici e in riconvenzionali, di quale distinzione già abbiamo tenuto parola.
Riguardo alle eccezioni semplici, la regola che il giudice dell’azione è il giudice dell’eccezione viene accettata, poiché il giudizio finale rimarrà sempre contenuto nel limite del valore della domanda. Altrimenti è la cosa per le eccezioni riconvenzionali, queste infatti per la natura loro, introducono nella lite un elemento nuovo di controversia, e fanno del medesimo oggetto della decisione del giudice e materia della invocata res iudicata: è dunque necessario che il giudice stesso abbia competenze rispetto ad esse per guisa che, se egli ne manca, deve astenersi dal conoscerle. Né importa che il convenuto abbia o non abbia fatta formale istanza per la decisione della sua eccezione riconvenzionale, poiché, se questa sua eccezione costituisse il motivo diretto e necessario del rigetto della domanda, essa, malgrado il difetto di cotale istanza, resta ugualmente decisa, per i principii più certi della cosa giudicata. Soltanto si fa una riserva per le eccezioni riconvenzionali colle quali si elevi una question di stato o di qualità ereditaria. Se i litiganti sono sulla quaestio status legittimi contraddittori, l’uno rispetto all’altro, il giudice della causa, incompetente riguardo ad esse, non può giudicarle. Se invece i litiganti non sono legittimi contraddittori la eccezione riconvenzionale funziona in questo caso a guisa di eccezione semplice, ossia può essere conosciuta dal giudice adito, sebbene incompetente. La ragione di questa distinzione è che nel primo caso la quaestio incidens statu rispetto ai terzi (a coloro cioè che legittimi contraddittori non sono), mentre così non è nel secondo caso, ove la questione status resta giudicata soltanto fra le parti, e qui non sorge quell’aumento del valore della lite che nel caso precedente richiede una corrispondente maggior competenza.
Questa teorica, sebbene in suo favore abbia avuto il plauso della giurisprudenza, non è soddisfacente perché non tiene il dovuto conto della volontà delle parti, pur controvertendo sulla questione pregiudiziale o incidentale, non intendono necessariamente che anche su questa questione, che è mezzo al fine di ottenere la pronunzia sull’oggetto della domanda, si formi il giudicato. Inoltre, poiché la questione pregiudiziale in sé nulla aggiunge alla materia logica del giudizio, non fa che sviluppare un punto pregiudiziale già appartenente alla causa e intensificare l’esame che il giudice dovrà farne in ogni caso, sarebbe in contraddizione colla distribuzione stessa della giurisdizione, che il solo avverarsi di una ipotesi così probabile e prevedibile, come la contestazione di un punto pregiudiziale, bastasse a spostare e perturbare l’ordine della competenze. È da aggiungersi che riconvenzione ed eccezione sono due istituti giuridici distinti, e qualificando questa come un attributo derivato da quella, l’ambiguità del concetto risultante è inevitabile. Non appaga neppure le esigenze pratiche, per le quali occorrono criteri limpidi e di facile percezione, mentre questo viene a complicarsi con quella suddistinzione per la quale le eccezioni riconvenzionali, in materia di stato e di qualità ereditaria, se agitate fra coloro che sopra le medesime non sieno legittimi contraddittori, vengono ad assumere ufficio di eccezioni semplici. Inoltre questa teorica finisce per isterilire quella regola di cui si è prefissa di governare l’applicazione.
12. La legge nelle sue relazioni colla regola
La legge, come più volte abbiamo avuto occasione di osservare, non adotta un sistema uniforme nelle sue relazioni colla regola.
- A) Vi sono anzitutto molti casi in cui la legge nega l’applicazione della regola, disponendo che, se nelle cause sorga una questione incidentale, sia dal valore della stessa, e non da quello della domanda, determinata la competenza. Tali casi sono i seguenti:
1) Art. 72 cpv. C.P.C. La domanda ha per oggetto il soddisfacimento di una parte di una obbligazione maggiore. Se il convenuto impugna l’intera obbligazione, è il valore di questa quello che determina la competenza della causa, e pertanto se detto valore è maggiore di quello che segna la competenza del foro adito, occorre che il giudizio sia portato davanti al giudice competente. Tizio mi domanda di una obbligazione di L. 5000. Io limito la mia difesa a provare che quella rata è stata pagata. In tal caso, come è chiaro, non cessa la competenza del giudice minore, solo perché la somma domandata è parte di una obbligazione maggiore. Al contrario, si verificherà la incompetenza del Pretore se io pongo in controversia l’intiera obbligazione. Nel caso che l’attore chieda una somma che forma parte di una obbligazione il cui ammontare supera la competenza del giudice adito, ma che nel tempo stesso le rate successive fino al totale estinguersi del debito non superino nel loro complessivo ammontare la detta competenza, il giudice adito continuerà ad essere competente. Ciò è nello spirito della legge, giacché questa per determinare la competenza prende di mira il valore che viene ad assumere la causa. “Se è vero, dice il Ricci (Ist. Pro. Civ. I, n. 147), che la sentenza decidendo un punto di controversia relativo alla obbligazione principale, può influire anche sulle rate posteriori, è vero altresì che queste unite a quella attualmente reclamata non eccedono i limiti della competenza pretoria. Il riflesso adunque che il pronunciato di oggi possa influire su quote successive di credito, che rientrano pur esse nella competenza del Pretore, non può far sì che ci si dichiari incompetente”. L’art. 76 relativo alle controversie per prestazioni di rendita è inoltre un caso di applicazione della norma precedente. E così pure l’art. 77 C.P.C. che si riferisce alle controversie sulla validità o continuazione delle locazioni. Tizio cita Caio pel pagamento di Lire 5000 come pigione di una casa a lui data in affitto. Bisogna distinguere, per ciò che riguarda la competenza, se il convenuto non fa oppure fa eccezione sulla validità o continuazione della locazione: nel primo caso la competenza si misura dall’ammontare del fitto domandato e nel secondo caso dall’ammontare complessivo dei fitti per la restante durata della locazione. Questa distinzione, se il convenuto sollevi o meno alcuna eccezione sulla validità o continuazione della locazione, non è però necessaria nelle controversie di competenza del Conciliatore relative a locazioni di beni immobili, perché l’art. 18 del Regio Decreto 20 settembre 1922 n, 1316, nel determinare il limite massimo della competenza di questo giudice, prende senz’altro come base la durata del contratto e non l’ammontare della pigione che viene chiesta in giudizio. Nei casi di cui sopra ai citati art. 72, 76 e 77 C.P.C. basta il semplice fatto della contestazione della obbligazione fondamentale perché oggetto della causa diventi il rapporto giuridico e perché la legge richieda che su questo, non una semplice cognizione incidentale, ma un accertamento incidentale con gli effetti di cosa giudicata e con gli eventuali spostamenti di competenza. Queste disposizioni derogatrici alla regola da noi studiata hanno peraltro una ragione, ed è che è presumibile che la contestazione del titolo si rinnovi quando saranno richieste le rate o quote successive, onde la legge, vuole indipendentemente da una domanda di accertamento incidentale di una delle parti, che per economia di giudizi, la questione venga decisa una volta tanto. Infatti la norma viene meno se la rata chiesta è l’ultima, ed in questo caso si ritorna alla regola che il giudice conoscerà del rapporto giuridico incidenter tantum, salvo sempre alle parti il diritto di chiedere l’accertamento incidentale, qualora abbiano interesse di aver sul rapporto una decisione che faccia stato per l’avvenire (ad es. per la ripetizione del già pagato).
2) Art. 102 cpv. C.P.C. Il convenuto propone contro la domanda dell’attore la compensazione, ossia oppone la estinzione del credito contro di lui reclamato per la contemporanea esistenza di un proprio credito verso l’avversario (art. 1286 Cod. Civ.). Se questi replica impugnando il credito opposto in compensazione ed impugnato, che si desuma la competenza. Se esso eccede i limiti della competenza adita, la causa, così come per la domanda (credito dello attore) come sulla questione incidente (credito del convenuto) si devolve al magistrato superiore. Perciò che si riferisce alla compensazione il legislatore ha avuto riguardo precisamente alla portata della eccezione opposta dal convenuto, e, dalla medesima ha misurato la competenza. Infatti ha disposto che allora soltanto il giudice adito deve dichiararsi incompetente quando il credito opposto in compensazione ecceda la sua competenza e venga impugnato. Anche questo è un caso in cui la legge, per economia di giudizi, ha voluto che la questione, mediante accertamento incidentale, sia subito interamente decisa. Altrimenti il fatto che il convenuto oppone un suo maggior credito in compensazione, renderebbe poi necessario un successivo giudizio in cui egli dovrebbe chiedere la differenza a suo favore. Se invece il credito non sia impugnato, non cessa la competenza del giudice minore, perché in tal caso la compensazione, operando di pieno diritto, non può oltrepassare il limite entro cui si aggira l’azione principale, ed il giudice minore non estende perciò la sua cognizione oltre la sfera della propria competenza. Tizio chiede a Caio il pagamento di Lire 5000; Caio oppone di essere, a sua volta, creditore di Lire 6000; la compensazione si verifica sino a debita concorrenza. Se Tizio impugna il credito oppostogli in compensazione, il Pretore adito dovrà dichiararsi incompetente, e rimettere parti e causa davanti l’Autorità giudiziaria competente.
3) Art. 431 e 455 C.P.C. La controversia sulla falsità di un documento è di valore indeterminabile, e come tale spetta alla cognizione dei Tribunali, tanto se proposta in via principale, quanto se emersa in via incidentale presso gli altri giudici minori. Il pretore ed il conciliatore, dopo aver sottoscritto il documento, impugnato, lo rimettono al Procuratore del Re e rinviano le parti ad udienza fissa davanti al competente Tribunale, perché sia provveduto sull’incidente di falso. La dichiarazione della parte di volere impugnare come falso un documento deve essere formale, perché si soprasieda dall’ulteriore sviluppo della causa, non è però necessario che al Pretore od al Conciliatore si produca regolare querela. Il rinvio dell’incidente di falso al Tribunale non investe quest’ultimo del potere di giudicare il merito della causa, perché questo rinvio mira ad effetti molto più ampi della semplice istruzione della causa, per quanto serva direttamente anche a questo scopo, senza il quale non sarebbe mai legittimato. Per conciliare le esigenze diverse d’una duplice finalità, l’incidente di falso, mentre si distacca processualmente dalla lite principale per avere istruzione e decisione a parte dal magistrato all’uopo competente, esercita effetto sospensivo sulla lite medesima, in quanto la materia della contesa dipenda dalla decisione sulla falsità. Avvenuta tale decisione, essa spiega immediato effetto sul merito della lite, essendo obbligato il giudice investito della relativa cognizione ad applicare puramente e semplicemente la sentenza che ammette o respinge la querela, senza rinnovare alcun esame in proposito. Però, quando il Pretore o il Conciliatore sieno convinti che il titolo impugnato non ha attinenza con la lite e credano di poterla definire senza portar giudizio su quello, non è allora il caso di sospendere la loro pronuncia. La ragione per cui il giudice è competente a decidere sul merito della controversia viene dalla legge dichiarato incompetente a conoscere questo incidente, è la seguente, e cioè che sulla querela di falso non deve solo giudicarsi per quel tanto che ha rapporto con la causa principale, ma ancora e soprattutto devesi statuire definitivamente, in modo che la regiudicata, che riconosce la verità o falsità del documento è opponibile in qualunque altro giudizio. La legge, adunque, sottraendo il giudizio di falso dalla competenza dei giudici singoli, ha impresso allo stesso dei caratteri tutto affatto speciali, e ne ha fatto un subbietto a parte per la necessità di far decidere la questione da un magistrato i cui poteri fossero proporzionati agli effetti della sentenza; il che non ha evidentemente alcun rapporto con la materia della lite principale; ciò spiega altresì come l’appellabilità della sentenza sul falso non devesi misurare dall’appellabilità della sentenza sul falso, e come l’appello debba essere fatto considerando come giudizio di prima istanza quello del Tribunale. Oltre le disposizioni dai citati art. 431 e 455 C.P.C. la competenza esclusiva del Tribunale civile sull’incidente di falso è stabilita in modo esplicito dall’art. 28 R.D. 26 giugno 1924 n. 1054 per la procedura innanzi la IV Sezione del Consiglio di Stato e dell’art. 3 del R.D. 26 giugno 1924 n. 1058 per i procedimenti avanti la Giunta Provinciale Amministrativa. La giurisprudenza è poi concorde nell’applicare il medesimo principio rispetto a qualunque giurisdizione speciale istituita per legge, come pure ai giudizi avanti gli arbitri convenzionali. Solo è fatta eccezione per i Tribunali delle acque pubbliche, ai quali lo art. 85 del Decreto Legge 9 ottobre 1919, n. 2161, convertito in legge 18 dicembre 1927, n. 2595, ha dato facoltà di risolvere in via di accertamento incidentale la questione di falso.
4) Art. 10 Legge 16 giugno 1892 n. 261, sui Conciliatori. Questi giudici sono competenti a giudicare nei limiti di valore stabiliti dalla legge (Lire 400) per guasti e danni dati ai fondi urbani o rustici, alle siepi, chiudende, piante ed ai frutti, purché la causa non venga a complicarsi incidentalmente per questioni di proprietà o possesso. Sopra i limiti di valore stabiliti per la loro competenza comincia la competenza del Pretore, la quale è illimitata se l’azione è proposta entro l’anno dal verificarsi del guasto o danno. Oltre l’anno, la competenza del Pretore si restringe alle azioni che, per ragioni di valore, rientrano nella normale sua competenza (lire 5000). Siffatto termine dell’anno non riguarda l’esercizio delle azioni riservate alla competenza del Conciliatore, perché queste sono già contenute nei limiti della sua normale competenza, e quindi possono essere proposte indifferentemente in qualsiasi tempo. I danni o guasti risarcibili con questa azione sono quelli derivanti da colpa aquilina, ossia da fatti od omissioni imputabili che, violando il diritto altrui, all’infuori di obbligazione contrattuale preesistente facciano sorgere contro l’autore il diritto al risarcimento. In questa disposizione sono compresi tutti i danni che si possono arrecare alla proprietà fondiaria, considerata anche nella sua qualità speciale di immobilizzazione per determinazione della legge, di guisa che rientrano nella categoria per cui si può far luogo a questa azione i danni causati, ad es. agli animali addetti alla coltura di un fondo, ai conigli nella conigliera etc.
Nel linguaggio generico della legge, che protegge le cose ivi specificate, ben si comprende come la disposizione non si preoccupi del modo con cui il danno può venire inferto: trovano pertanto conferma i principi del diritto, i quali insegnano che qualunque fatto dell’uomo che arreca danno ad altri, obbliga quello per colpa del quale è avvenuto a risarcire il danno (art. 1151 Cod. Civ). Il danno può essere cagionato tanto dal fatto dell’uomo, quanto dalle cosa e dagli animali che servono l’uomo; può essere immediato, ossia diretto o indiretto; può essere commesso con dolo o anche per semplice negligenza o imprudenza; tanto da chi deve rispondere personalmente, quanto col fatto della persona della quale si deve rispondere o che in altro modo dipendente non poteva sottrarsi alla obbedienza passiva di altro individuo, che perciò è per lei responsabile. L’azione per guasti e danni si collega ad un rapporto giuridico complesso (proprietà o possesso). Se in occasione dell’esercizio di questa azione sorge questione sul rapporto giuridico, la cognizione di questa è vietata al Conciliatore, anche per via incidentale, a causa di quello inciso “purché non implichino (le azioni) questioni di proprietà o di possesso”, che trovasi nella legge. Questa eccezione alla nota nostra regola è stata forse dettata dal legislatore per la particolare natura del Giudice comunale, a cui è stimato imprudente affidare la cognizione, anche incidentale, di siffatte questioni. Il Pretore invece (non contenendo l’art. 82 n. 1 C.P.C. alcun inciso di tal fatta) deve ritenersi competente a pronunciarsi sulle azioni di danni dati ai fondi, anche se implichino questioni di proprietà o possesso, delle quali conoscerà, secondo la nostra regola, incidenter tantum, quantunque incompetente a conoscerne principaliter. Il Conciliatore, sorgendo questioni di proprietà o di possesso, rinvierà la intera causa al Pretore, la cognizione rimarrà incidentale, ma affidata ad un altro giudice.
5) Art. 931 cpv. 3 C.P.C. Dinanzi al giudice, il quale conosce del credito, non può proporsi come quaestio incidens, la conferma del sequestro assicurativo del credito stesso, se egli non è competente rispetto a tale controversia, oltre che in modo assoluto, altresì in modo relativo, ossia che il sequestro sia stato fatto nel distretto giurisdizionale di lui. L’autorità competente a statuire sulla conferma o revoca del sequestro viene determinata in ragione di materia e valore ed è sempre quella del luogo in cui il sequestro si eseguisce. Onde, se siasi proceduto a sequestro in forza di credito superiore a Lire 5000, il giudizio di conferma o revoca devesi proporre innanzi al Tribunale del Luogo del sequestro (art. 931 C.P.C.). Da codeste disposizioni si rileva l’anomalia del rapporto giurisdizionale stabilito dalla legge fra l’azione di sequestro e quella di pagamento. Benché la prima azione sia accessoria della seconda, la regola della connessione qui si applica a rovescio, o meglio, non si applica affatto, giacché il giudice della azione principale non è giudice della quaestio incidens, a meno che non si verifichi il concorso puramente accidentale della competenza del medesimo giudice di entrambe le azioni. Pertanto, se l’azione di pagamento è pendente, e il sequestro è stato autorizzato dal presidente del tribunale investito di essa, la esecuzione del decreto effettuata in altro circondario provoca, per il giudizio di conferma, la giurisdizione del tribunale locale e non quella del tribunale da cui pende l’azione di pagamento. Ciò parve così strano e ingiustificato da suscitare in qualche scrittore l’opinione che siffatta regola debba, nel caso di lite pendente, essere derogata. Ma il testo della legge non permette dubbio veruno, e l’interprete può criticarlo ma non disconoscerne l’applicazione.
Tali critiche appaiono giustificate specialmente per le seguenti ragioni:
- a) che il sequestro in siffatta ipotesi è un vero e proprio incidente dell’azione di pagamento,
- b) che il magistrato investito della causa di pagamento del credito può apprezzare, forse meglio di un altro, le condizioni che legittimano il sequestro,
- c) per la possibilità di conflitti fra le decisioni delle due magistrature, poiché la conferma del sequestro può, in certi casi, essere fatta dipendere dal riconoscere la sussistenza, l’entità e la liquidità del credito, il che è pur tema necessario dell’azione di pagamento,
- d) per la molteplicità dei giudizi di conferma nel caso in cui il decreto emesso dal presidente del tribunale investito dell’azione di pagamento sia stato eseguito in circoscrizioni giudiziarie diverse, mentre uniformandosi alle norme ordinarie della competenza, la domanda di conferma costituirebbe incidente unico nel giudizio di pagamento, evitandosi così gli inconvenienti che possono derivare dal ripetersi innanzi a magistrati diversi di questioni identiche a cui dia luce l’istanza di conferma in relazione ad unico credito ed a unico provvedimento di autorizzazione del sequestro.
6) Art. 570 CPV e Legge 16 giugno 1892 sui Conciliatori. Le controversie che insorgono nel processo esecutivo mobiliare, sono altrettante questioni incidentali del medesimo, le quali però non possono essere conosciute dal giudice direttore del processo stesso, se non alla condizione che computate coi criteri di legge (art. 75 C.P.C. e art. 13 legge citata) rientrino nella competenza assoluta di lui. Per quanto la procedura esecutiva si promuova e si svolga ad iniziativa di un creditore, o di più creditori, le relative operazioni si compiono con l’intervento del magistrato; e ciò non tanto per l’entità degli atti che si devono compiere, e che non potrebbero certo esse lasciati in balia delle parti, quanto perché, come osserva il Mortara (Manuale II, 695, ter.) anche la esecuzione forzata presuppone un conflitto, l’urto di due volontà; il creditore da un lato pretende di avere diritto ad ottenere un prelevamento della sostanza patrimoniale del debitore, e questi, da sua parte, ricusa di compiere, o non compie, gli atti necessari per soddisfare simile pretesa. È naturale quindi che l’eliminazione del conflitto debba essere riserbata all’autorità giudiziaria. Quale sarà il giudice di queste possibili controversie? La vecchia pratica aveva proclamato la massima “iudex cognitionis iudex esecutionis” ed il Codice Sardo, in omaggio a questo principio deferiva la decisione di tutte le controversie sulla esecuzione delle sentenze agli stessi giudici che quelle sentenze avevano proferite. Un altro sistema, che trovò pure il suffragio della vecchia dottrina, distingueva le controversie di procedura da quelle di merito, e riteneva che delle prime soltanto dovesse conoscere il giudice del luogo in cui l’esecuzione si compie, mentre le seconde dovessero rimettersi allo stesso magistrato che ebbe a proferire la sentenza. Il nostro Codice, senza eccezioni e distinzioni, ha proclamato il principio generale che competente a conoscere di ogni possibile controversia che insorga in occasione di un procedimento esecutivo sia sempre il giudice del luogo in cui si fa l’esecuzione: e ciò non solo per l’esecuzione in base ad atti contrattuali, ma anche per quella in base a sentenza, imperocché sebbene in questo ultimo caso esista un giudizio di merito che ebbe a pronunciare la sentenza, tuttavia non vi sarebbero sufficienti ragioni per ritenerlo sempre investito di competenza per le controversie riflettenti l’esecuzione, poiché, ogni ulteriore controversia sulla esecuzione è da considerarsi un giudizio nuovo e indipendente, la cui cognizione più opportunamente è da deferirsi al magistrato dello stesso luogo in cui si svolge l’esecuzione. Nella esecuzione mobiliare il magistrato all’uopo competente, qualunque sia il valore per il quale si procede e quello delle cose colpite da esecuzione, è il Pretore (salvo la competenza del Conciliatore per l’esecuzione della propria sentenza) al quale è demandato il complesso di tutte le operazioni inerenti alla vendita dei beni pignorati. Ora, se durante lo svolgersi del procedimento insorgono delle controversie, la risoluzione delle stesse spetterebbe al detto magistrato, poiché dette controversie sono altrettante questioni incidentali del processo esecutivo a lui demandato. Il legislatore ha invece altrimenti disposto: come risulta dagli art. 570, 579, 614, 616 e 652 C.P.C. tali controversie nn possono essere conosciute dal Pretore se non alla condizione che, computate coi criteri di legge, rientrino nella competenza assoluta di detto magistrato. Ma questa eccezione alla applicazione della nota regola, eccezione che appare chiaramente dalle norme di competenza, si spiega e si giustifica pienamente se si considera che la legge, a ragione, vuole, in questa materia, un accertamento, non essendo più conveniente una semplice cognizione incidentale quando la esistenza del credito ha la sua massima importanza per la esecuzione forzata contro il debitore.
- B) Vi sono invece altri casi in cui la legge fa chiara applicazione della regola, chiamando il giudice della causa a conoscere incidentalmente di una questione che, dedotta principaliter, spetterebbe alla competenza di un altro giudice.
1) Art. 908 e 912 C.P.C. Pendente il giudizio sulla obbligazione, le controversie sulla validità dell’offerta reale o del deposito devono proporsi in via incidentale nello stesso giudizio e in nessun caso possono essere proposte altrove.
Quando il creditore ricusa il pagamento, il debitore può ottenere la sua liberazione mediante l’offerta reale e il susseguente deposito della cosa dovuta (art. 1259 Cod. Civ.). L’offerta reale, susseguita dal deposito è dunque un mezzo per liberarsi dell’obbligazione, non è peraltro il pagamento, perché questo si ha ogni qualvolta il creditore riceve ciò che gli è dovuto.
L’ufficiale procedente può essere un notaio, il Cancelliere della Pretura od un ufficiale giudiziario. Il procedimento è il seguente:
1) Offerta reale,
2) Deposito,
3) Giudizio sulla loro validità.
Il debitore, o l’autore dell’offerta, dopo averla inutilmente eseguita, può promuovere il giudizio intorno alla sia validità, domandando al magistrato l’autorizzazione ad eseguire il deposito (art. 909 C.P.C.). In tal caso non è necessario promuovere un giudizio apposito per far dichiarare la validità del deposito, poiché la sentenza con cui viene autorizzato il deposito, in seguito al riconoscimento della regolarità dell’offerta, pronunzia anche la liberazione del debitore “dal momento in cui il deposito sia eseguito nelle forme dalla legge richieste”. La controversia intorno alla validità del deposito è subordinata pertanto alla impugnazione che di tale validità venga fatta dal creditore.
Intorno alla competenza è da distinguere:
- a) Se il giudizio è promosso per la validità della sola offerta, o per quella dell’offerta e del deposito insieme, il magistrato competente è quello per valore del luogo in cui l’offerta fu eseguita.
- b) Se il giudizio è promosso sulla validità del solo deposito, il magistrato competente è quello per valore del luogo dove il deposito fu eseguito.
Le cose però procedono altrimenti quando vi sia una causa in corso relativamente al debito: il giudizio sulla validità degli atti d’offerta e di deposito diventa in questo caso una questione incidentale dell’azione principale, ed è devoluto allo stesso magistrato presso cui questa trovasi pendente (art. 908 C.P.C.). Simile incidente va unito al merito e deciso insieme con esso, anche se la causa principale si trovasse pendente in grado di appello.
2) Art. 938 cpv. C.P.C. Se è pendente tra le parti un giudizio, che abbia connessione coll’oggetto della denunzia di nuova opera o di danno temuto, questa si deve proporre in via d’incidente nel giudizio medesimo, anche se l’autorità a cui la causa è deferita non sia il Pretore, cui normalmente questa compete. Le azioni di danno temuto o di denuncia di nuova opera sono disciplinate nel Codice di rito al Capo II del Titolo XI, art. 938, 939 e 940 e rispondono soprattutto al bisogno di una pronta difesa contro ogni arbitraria estrinsecazione dell’umana attività, concretando praticamente l’adagio “melius est intacta iura servari, quam postea causam vulneratam remedium quaerere”. Di queste azioni da autorevoli scrittori come il Pescatore (Filosofia e dottrine giuridiche Vol. I, Libro III, Cap. XII) ed il Mortara (Commentario, Vol. III, n. 658 e segg.) si tratta sotto il titolo dei procedimenti conservativi, seguendo la classificazione sistematica che già è nella legge; come opportunamente rilevò il Pescatore, il quale, come osserva il Mortara, seppe ricavarne argomento fondamentale per illustrare alcuni punti di esegesi oscuri e controversi. A somiglianza dei sequestri esse non tutelano direttamente un diritto accertato, ma garantiscono l’effettività della tutela giurisdizionale a un diritto litigioso, seguendo il criterio della probabile sua esistenza e della prevedibile sua dichiarazione in un giudizio di merito; al pari dei sequestri possono precedere la introduzione di questo giudizio, ovvero essere provocati nel corso del medesimo, ed a seconda che prevengano l’azione principale o ne facciano parte, varia la competenza dell’organo autorizzato a pronunciarle. Appunto per la loro finalità, sono provvedimenti provvisori, che possono o no acquistare effetto definitivo soltanto in seguito a giudizio sul merito.
La denunzia di nuova opera consiste nella opposizione che, mediante domanda al magistrato, viene fatta contro una nuova opera da altri intrapresa, così sul proprio come sull’altrui suolo, dalla quale sia per derivare un danno ad un immobile, ad un diritto reale o ad altro oggetto dal denunciante posseduto (art. 698 Cod. Civ.). Il magistrato, dietro sommaria cognizione, proibisce oppure permette la continuazione di detta opera, secondo le circostanze, ordinando le opportune cautele, sino a che, in sede competente, non venga diversamente disposto. Scopo adunque di questa azione è quella di ottenere l’inibizione che si prosegua l’opera incominciata, quindi non potrà chiedersi al magistrato l’ordine che si demolisca quello che già fosse stato costruito, salvo il caso che il convenuto, nonostante l’inibizione pronunciata dal Pretore, abbia continuato la sua opera; nel qual caso il Pretore può ordinare che le cose sieno ridotte in pristino stato (art. 940 C.P.C.). Per l’ammissibilità dell’esercizio dell’azione, secondo il citato art. 698 Cod. Civ., occorre che la nuova opera non sia terminata, e non sia trascorso un anno dal suo cominciamento.
La denuncia di un danno temuto consiste in una domanda fatta al magistrato da chi ha ragionevolmente motivo di temere che da qualsivoglia edificio, da un albero o da altro oggetto sovrasti pericolo di un danno grave o prossimo ad un fondo od oggetto da lui posseduto, allo scopo di ottenere, secondo la circostanze, che si provveda per ovviare il pericolo, o si ingiunga al vicino l’obbligo di dare cauzione per i danni possibili (art. 699 Cod. Civ.). ove la parte condannata a dare cauzione o ad eseguire alcuni lavori di demolizione non obbedisse agli ordini del magistrato, questi potrà ingiungere che l’edificio sia demolito o l’albero atterrato. Come appare in modo evidente, questa azione mira ad impedire un danno che si minaccia, quindi un danno futuro; del danno che si fosse già verificato, non potrebbesi perciò chiedere il risarcimento che in giudizio ordinario di cognizione, e non sarebbe ammesso il ricorso a questa azione. Per la denuncia del danno temuto occorre che il danno che si teme sia grave e prossimo ed ove il convenuto contestasse la gravità ed imminenza del danno, il magistrato, in applicazione del disposto dell’art. 699 Cod. Civ. può dare provvedimenti per ovviare il pericolo o imporre al convenuto di dare una cauzione per i danni possibili. Quali sieno questi provvedimenti non è detto dalla legge; il giudice, secondo il prudente suo arbitrio, potrà farli consistere, ad es. nell’ordinare che l’edificio pericolante sia abbattuto, ovvero che siano eseguiti entro brevi termini dei lavori atti a rimuovere il temuto pericolo, ecc. La legge lascia parimenti al giudice di vedere quando, in luogo di provvedimenti del genere indicato, sia sufficiente sottoporre il convenuto semplicemente alla prestazione di una cauzione.
Estremo comune delle due azioni è che un danno minacci di colpire una cosa in possesso di colui che domanda il provvedimento conservativo, ed entrambe mirano ad evitare, che, nei casi urgenti, l’individuo non sia tratto a farsi giustizia da sé. La prima ha per fine di sospendere l’esecuzione dell’opera e che sieno stabilite cautele perché l’opera sia compiuta senza danno altrui, per cui ne diventa impossibile l’esercizio dal momento in cui l’opera è ultimata; la seconda soccorre a colui che teme danno da opera nuova finita di compiere (o da qualsivoglia edifizio o da altro oggetto), quando non abbia potuto o voluto valersi della prima ed ha lo scopo di ottenere un provvedimento di assicurazione materiale contro il possibile danno o di assicurare per lo meno la riparazione pecuniaria. Con la prima viene dunque spiegata opposizione contro gli atti di colui che si accinge a modificare uno stato di fatto esistente; con la seconda si muove reclamo invece contro lo stato di fatto che esiste (cfr. Mortara op. cit. n. 658).
Il fondamento giuridico della denuncia di nuova opera risiede nel principio che non è lecito alterare l’attuale stato delle cose in altrui pregiudizio; quello del danno temuto nel principio che è utile prevenire il danno, per non trovarsi poi nella necessità di risarcirlo, tanto più che talora esso può essere irreparabile. Il procedimento di queste due azioni si può dividere in due periodi: uno preliminare di speciale competenza del Pretore, che è quello della denunzia, ed uno principale, che verte sul merito della denunzia, in contraddittorio delle parti, dinanzi la competente autorità. Le due azioni, sia per il procedimento sommario che reclamano, sia per quelle cognizioni che più utilmente e più facilmente possono raccogliersi dal giudice locale, sono di competenza del Pretore (art. 82, n. 3 C.P.C.) qualunque ne sia il valore.
A questo principio è fatta però una eccezione nel caso in cui sia pendente tra le parti un giudizio che abbia connessione coll’oggetto della denuncia. La pendenza fra le parti di un giudizio si ha quando la volontà di far valere una pretesa sia manifestata davanti al magistrato in una forma idonea a provocare il contraddittorio e la decisione. Quindi è indifferente che sia stata spiegata con citazione, come istanza principale, ovvero con comparsa come domanda riconvenzionale. Prima della comparizione delle parti in causa non è concepibile la pendenza nel processo. Quando la causa è pendente, tutte le parti acquistano il diritto di promuovere la decisione del magistrato. La ragione su cui si fonda questa eccezione è che la denunzia costituisce una questione incidentale nel giudizio in corso, e si propone quindi seguendo il rito della procedura incidentale.
3) Art. 445 C.P.C. Argomentando da questa disposizione il giudice del possessorio è abilitato ad esaminare (incidenter) i titoli del petitorio, nonostante che egli non sia competente a giudicare principaliter. Il possesso, considerato quale fatto giuridico, può essere fonte di diritti, come, ad es., quello di percepire i frutti, quello di far maturare il tempo utile per la prescrizione acquisitiva etc.; ma per se stesso, il possesso non costituisce un diritto sulla cosa, perché rappresenta solo un rapporto di fatto tra possessore e cosa posseduta. Ed invero, la legge, accordando l’esercizio delle azioni possessorie, non mira alla tutela di un diritto del possessore, ma solo a far rispettare uno stato di fatto per salvaguardia dell’ordine sociale, non essendo lecito ad alcuno farsi giustizia da sé. Scopo adunque delle azioni possessorie è appunto quello di conservare o di ristabilire una condizione di fatto, che deve essere rispettata. Con questo intento il legislatore ha sancito: “Chi (art. 694 Cod. Civ.) trovandosi da oltre un anno nel possesso legittimo di un immobile, o di un diritto reale, o di una universalità di mobili, viene in tale possesso molestato, può entro l’anno dalla molestia chiedere la manutenzione del possesso medesimo”. Oltre la manutenzione del possesso legittimo, di cui si parla in questo articolo, la legge accorda un’altra azione, conosciuta sotto il nome di reintegranda a chi è stato violentemente o occultamente spogliato del suo possesso, anche se in questo non si riscontrino tutte le caratteristiche del possesso legittimo. “Chi è stato (così l’art. 695 Cod. Civ.) violentemente od occultamente spogliato del suo possesso, qualunque esso sia, di una cosa mobile od immobile, può entro l’anno del sofferto spoglio chiedere contro l’autore di esso di venir reintegrato nel possesso medesimo”.
La differenza che passa tra i due articoli, secondo il Ricci, è la seguente: l’art. 694 accorda una protezione contro una offesa al diritto privato, mentre l’art. 695 mira a reprimere una offesa recata all’ordine pubblico da chi agisce con violenza, o, a guisa di ladro, clandestinamente. Ciò spiega perché l’art. 694 non accorda la manutenzione se non si abbia un possesso legittimo, essendoché, mancando un possesso capace di produrre effetti giuridici, non può esservi offesa al diritto privato, mentre lo art. 695 concede la reintegranda anche a chi non è possessore legittimo poiché basta che vi sia l’attentato violento o clandestino recato ad uno stato di fatto per potersi ritenere l’attentato all’ordine pubblico ed alla sicurezza sociale.
È assai controverso fra gli scrittori il determinare quale sia il fondamento della protezione accordata dalle leggi al possesso; alcuni credono di trovare questo fondamento nell’ordine pubblico, altri nella inviolabilità personale, altri nella presunzione di proprietà, altri nella volontà ed altri ancora nella applicazione delle cose ai bisogni della vita. Certo però si è che, per consenso universale e costante la legge si è sempre vivamente preoccupata delle turbative del possesso e ha cercato di apportare a un tal male pronti ed efficaci rimedii.
Il vigente nostro Codice, come quello francese, si fonda su questi concetti:
1) Sulla presunzione che al possessore competa anche la ragione di possedere,
2) Sull’opportunità di stimolare chi ha un diritto a conservarne il possesso,
3) Sulla necessità di mantenere in ogni caso l’ordine giuridico.
Sebbene, a prima vista, sembri che le azione possessorie sieno da iscriversi alla categoria delle azioni reali, come quelle che hanno per oggetto una cosa su cui appunto si esercita il possesso, pure sono in affetti da considerarsi come azioni personali, perché esse costituiscono l’esercizio di un diritto personale, la difesa cioè contro la violenza e la turbativa. Le controversie cui può dar luogo il possesso, poiché di sovente richiedono solleciti provvedimenti, sono state deferite alla competenza del Pretore, qualunque sia il valore, purché però sieno proposte entro l’anno dal fatto che vi diede origine. Introdotta l’azione possessoria, il giudizio deve rimanere nei limiti del possesso, e non invadere il campo del petitorio, perché i due giudizi possessorio e petitorio sono essenzialmente distinti, né possono cumularsi. In petitorio il giudice pronuncia sul diritto delle parti, in possessorio pronuncia invece sul fatto materiale del possesso, indipendentemente dal diritto che lo giustifichi, e sulla conseguente manutenzione del medesimo. Il cumulo dei due giudizi non consentito dalla legge si avrebbe, per es. quando la domanda dell’attore fosse accolta sul fondamento che il convenuto non ha, né per legge, né per convenzione, il diritto a esercitare quegli atti nei quali l’istante ha scorto una turbativa. Se la questione sul possesso si presenti intimamente connessa col petitorio per modo che non si possa conoscere su quello senza pronunciare contemporaneamente, su questo, il giudice deve rimettere le parti a provvedersi in giudizio petitorio, innanzi alla competente autorità.
Il giudice del possessorio è peraltro abilitato ad esaminare incidenter i titoli della proprietà non per giudicarne, ma ad colorandam possessionem. Se egli nei motivi della sentenza avvalora le ragioni di decidere intorno al possesso mediante considerazioni relative alla proprietà e desunte dai titoli o da altre prove, non si può dire a tutto rigore che vi sia cumulo di azioni o di giudizi. Salvo adunque il caso di intima connessione di cui sopra il giudice del possesso è abilitato ad esaminare incidenter i titoli del petitorio nonostante che egli non sia competente a giudicarne principaliter. Pertanto il giudice del possessorio è abilitato ad una cognizione per nulla superiore alla sua competenza, per cui è stato richiesto. Tale abilitazione, naturalmente, gli è accordata con effetti limitati, ut non pronunciet sed ut examinet, ma ciò non di meno ci troviamo di fronte ad un caso di applicazione della regola che il giudice dell’azione è il giudice dell’eccezione.
4) Art. 931 cpv. ultimo e art. 936 C.P.C. Nella causa di conferma o revoca del sequestro, la domanda per la condanna del debitore al pagamento del credito assicurato non può innestarvisi come quaestio incidens, a meno che il credito non rientri nella competenza dello stesso giudice. Tuttavia il giudice predetto, ancorché non competente a giudicarvi, può e deve esaminare la probabile esistenza del credito assicurato (fumus boni iuris) quale estremo della conferma che da lui si implora. L’art. 936 C.P.C. prescrive che quando l’autorità giudiziaria che conferma il sequestro non sia competente a conoscere del credito rimette le parti davanti l’autorità giudiziaria competente per la decisione del merito. Da questa disposizione apparisce che l’autorità giudiziaria del sequestro giudica di tutto ciò che può riguardare la forma, l’opportunità e convenienza dello stesso, mentre poi il giudizio intorno al credito appartiene al giudice competente a conoscere del medesimo. Vi sono dunque due autorità giudiziarie competenti: l’una, quella del luogo del sequestro, che conosce della semplice opportunità e necessità di tale misura conservativa, l’altra, quella che prende cognizione del credito. Nel processo per conferma del sequestro, oltre la verificazione dei giusti timori della fuga del creditore, della sottrazione dei beni o della perdita delle garanzie del credito, è senza dubbio principale argomento di indagine la giustificazione del credito stesso. Il debitore ha diritto che il creditore, quale attore della istanza di conferma adempia agli obblighi inerenti alla posizione che occupa nel processo. Sia pure che del credito basti giustificare l’esistenza eventuale e condizionale, nondimeno è in contraddittorio col debitore, e in tali forme da lasciare possibilità di prova contraria, che le relative dimostrazioni devono essere date. Nella pratica si suol dire che per la conferma del sequestro basta il fumus boni iuris, ossia la probabilità del credito per la sicurezza del quale è destinato, ma è certo che al giudice debbano fornirsi elementi tali da giustificare il buon diritto. Da ciò discende che il giudice della causa di conferma o revoca del sequestro, quantunque non abbia la competenza a conoscere del credito, può e deve esaminare, prima di emettere la propria sentenza, la probabile esistenza del credito stesso.
5) Art. 79 Legge Consolare 28 gennaio 1866. Detto articolo stabilisce che sono sempre riserbate ai Tribunali civili del Regno le cause riguardanti lo stato civile delle persone, salvo al Console e ai Tribunali consolari la cognizione di tali questioni in via incidentale; nel qual caso gli effetti della sentenza saranno limitati alla specie decisa. Non ha valore quanto da alcuni scrittori viene affermato e cioè che il legislatore, nello istituire le magistrature consolari, abbia voluto con questa disposizione semplicemente agevolare la funzione giurisdizionale dello Stato a favore dei nazionali residenti o dimoranti in paesi lontani e semibarbari. Sta di fatto invece che l’art. 79 sopra enunciato rappresenta un caso in cui dalla legge viene fatta una chiara applicazione della regola da noi studiata. Questo testo di legge, in una questione pregiudiziale di stato, ammette la possibilità di una cognizione incidentale senza effetti di cosa giudicata, da parte di un giudice che sarebbe incompetente a conoscere della questione in via principale. Ma in esso c’è di più, e cioè che questa possibilità viene manifestamente presupposta come una regola generale. L’espressione “salvo ai consoli ed ai Tribunali Consolari la cognizione di tali questioni in via incidentale… con effetti limitati alla specie decisa” presuppone un potere naturalmente spettante al giudice della causa principale, qualunque sia il magistrato dal quale pende la controversia, perché si andrebbe incontro ad un assurdo se si ammettesse che la legge conceda ad un giudice speciale un potere per sé non spettante al giudice ordinario in ogni caso.
6) Art. 35 del Decreto Luogotenenziale 20 novembre 1916, n. 1664 sulle derivazioni di acque pubbliche e art. 22 del relativo Regolamento di procedura. Il citato art. 35 così dispone: “Il tribunale delle acque pubbliche decide delle controversie intorno alla demanialità delle acque sorgenti, fluenti e lacuali. Ritiene ferma la competenza dei Tribunali ordinari quando la demanialità di un’acqua non iscritta negli elenchi, si presenti in una lite fra privati senza costituire l’obbietto della domanda e sempre quando il demanio non intervenga nella lite.” Con l’istituzione del Tribunale delle acque si è ribadita l’applicazione del principio che nel passato diede origine alla giustizia amministrativa, colla istituzione di questa magistratura speciale vengono invece assorbite le due competenze del nuovo Tribunale e alle sue sentenze si attribuisce forza esecutiva. Nelle disposizioni di cui ci occupiamo è nitidamente formulato il contrapposto fra la questione pregiudiziale e la questione principale che è oggetto della domanda. Se oggetto della domanda è la demanialità dell’acqua, l’autorità competente a giudicare è il Tribunale delle acque, mentre ai Tribunali ordinari è conservata la competenza a conoscere incidenter tantum della demanialità, purché il Demanio non sia in causa né come parte originaria, né come intervenuto. Se invece il Demanio è in causa, è necessario sulla demanialità un accertamento incidentale, che appartiene alla competenza del solo Tribunale delle acque. Come quindi chiaramente apparisce, qui viene applicata la nostra regola, che il giudice dell’azione è il giudice dell’eccezione, solo in parte subendo essa qualche limitazione dovuta alla particolare natura del rapporto. Il citato art. 22 del Regolamento di procedura stabilisce che “quando sia impugnato come falso un documento, si procede davanti al Tribunale delle acque a norma dell’art. 296 e segg. del C.P.C. in quanto sono applicabili. Si è quindi in questa procedura tornati alla applicazione della regola da noi studiata.
7) Art. 28 e art. 30 del T.U. del Consiglio di Stato, approvato con R.D. 26 giugno 1924 n. 1054. L’Art. 28 così dispone: “Nelle materie in cui il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale non ha competenza esclusiva esso è autorizzato a decidere di tutte le questioni pregiudiziali e incidentali relative a diritti la cui risoluzione sia necessaria per pronunciare sulla questione principale di sua competenza. Su dette questioni pregiudiziali e incidentali, tuttavia, la efficacia della cosa giudicata rimane limitata alla questione principale di sua competenza. Su dette questioni pregiudiziali e incidentali tuttavia la efficacia della cosa giudicata rimane limitata alla questione principale decisa nel caso. Restano sempre in esclusiva competenza della autorità giudiziaria l’incidente di falso e le questioni concernenti lo stato e la capacità di stare a giudizio”.
L’art. 30: “Nelle materie deferite alla esclusiva giurisdizione del Consiglio di Stato, questi conosce anche di tutte le questioni relative a diritti. Restano, tuttavia, sempre riservate alla autorità giudiziaria ordinaria… le questioni pregiudiziali concernenti lo stato e la capacità dei privati individui, salvo che si tratti della capacità di stare in giudizio e la risoluzione dell’incidente di falso. Art. 3 e 5 del T.U. 26 giugno 1924 n. 1058 sulle Giunte Provinciali amministrative con norme identiche.
Dovendo ammettersi, secondo noi, come presupposto logico il principio che quando la legge non contiene una norma particolare espressa debbasi far ricorso alla regola per cui ogni giudice è competente a conoscere incidenter tantum delle questioni pregiudiziali, anche se manchi di competenza a conoscerne principaliter, non vi sarebbe stato neppure il bisogno che il legislatore dettasse apposite disposizioni di legge. Né avrebbe avuto consistenza il dire in contrario che alla detta regola contraddice la disposizione dell’art. 2 della legge 20 marzo 1865, n. 268 allegato E sul contenzioso amministrativo, per il quale articolo sono devolute alla giurisdizione ordinaria tutte le materie nella quali si faccia questione di un diritto civile e politico, giacché ivi è previsto il caso che l’oggetto della domanda, da cui si determina la competenza, versi per se stesso in tema di diritto privato e non involga l’esame di una pretesa più ampia e di ordine superiore, che per il disposto dell’art. 12 della stessa legge sia demandata ad altra giurisdizione. Molti, invero, furono i casi nei quali, senza opposizione o dubbi di alcun genere, la IV Sezione del Consiglio di Stato decise anche nel passato tutta la controversia, compresa la questione incidentale o preliminare suindicata; ma in altri casi accadde che il procedimento in corso venisse arrestato con l’eccezione di incompetenza a decidere la questione di puro diritto civile, ovvero che la pronunzia emessa venisse poi impugnata in quanto era stata data risoluzione alla questione controversa predetta. In tutti questi casi poi le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con una costante giurisprudenza, secondavano pienamente la eccezione della incompetenza della IV Sezione del Consiglio di Stato.
In un tempo più prossimo, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione cominciarono ad affermare la competenza della IV Sezione del Consiglio di Stato a conoscere su questioni pregiudiziali (vedasi in proposito le sentenze 9 gennaio 1915 e 29 giugno 1915 in Foro italiano, 1915, I, pag. 257 e segg. e pag. 1188 e inoltre un numero considerevole di sentenze più recenti); ma il caso volle che, proprio in quel tempo, e poco dopo, la IV Sezione del Consiglio di Stato mutasse opinione e cominciasse a dichiarare la propria incompetenza di fronte a tali questioni. A far cessare quindi il dualismo manifestato intorno a questo argomento fra la Cassazione di Roma e la IV sezione del Consiglio di stato opportunamente intervenne la disposizione di legge sopra citata. Le disposizioni legislative di cui sopra, se nel campo amministrativo, in cui furono dettate, valgono a togliere ogni dubbio od incertezza in ordine alla loro applicazione, presuppongono, con una portata maggiore, il principio che ogni giudice abbia, come prerogativa inerente al proprio ufficio, il potere di risolvere senza effetti di cosa giudicata (incidenter tantum), le questioni pregiudiziali o incidentali, diverse cioè dalla questione principale di sua competenza. Ribadita così l’applicazione della nostra regola come principio generale, vediamo quali limitazioni queste norme introducono in questo caso speciale di pregiudizialità:
- a) è negata alla parti la facoltà di chiedere l’accertamento incidentale sulle questioni pregiudiziali;
- b) alcune questioni non possono essere conosciute nemmeno in via pregiudiziale (incidenter tantum), tali la questione di falso, la questione di stato e la questione di capacità;
- c) può invece in sede amministrativa esse conosciuta in via pregiudiziale (incidenter tantum) la questione della capacità di stare in giudizio.
13. La regola in relazione ai rapporti fra la giurisdizione civile e la giurisprudenza penale
Nello svolgimento del processo penale talvolta avviene che si presentino delle questioni attinenti al diritto civile o amministrativo, la cui risoluzione è pregiudizialmente necessaria per poter decidere sulla pretesa penale dedotta nel processo medesimo. Per quanto queste questioni non sempre sieno dalla legge risolte nella stessa maniera, poiché, in casi determinati, vi sono disposizioni che applicano la regola da noi studiata ed altre che vi derogano (art. 19, 20, 21 e 5 C.P.P.) tuttavia, da un attento esame di dette disposizioni, chiaro apparisce che il giudice della azione penale, salvo i casi espressamente eccettuati, ha il potere di decidere, ai fini del processo penale. Tutte le questioni di qualunque natura, la cui risoluzione possa influire sull’apprezzamento del rapporto giuridico penale dedotto nel processo. Le eccezioni fatte dalla legge alla regola da noi enunciata sono due:
- a) la prima, che è assoluta, è costituita dalle cosiddette questioni di stato, cioè riflettenti lo stato delle persone, nelle quali si comprendono le controversie sullo stato di filiazione, di adozione, di matrimonio, di cittadinanza etc.;
- b) la seconda, che è relativa, è costituita da questioni pregiudiziali civili e amministrative.
Per le questioni pregiudiziali di stato la legge impone sempre la devoluzione della decisione al giudice civile, con la conseguente sospensione dell’azione penale sino a che su tali controversie non abbia pronunciato il giudice civile con sentenza definitiva, avente autorità di cosa giudicata (art. 19 C.P.P.). Il motivo, che ha determinato questa eccezione alla regola ordinaria va rintracciato nella particolare delicatezza e gravità delle questioni di stato, le quali sono governate da norme civili inderogabili ed appositamente dettate per la peculiarità della materia.
Le condizioni prescritte affinché si verifichi l’effetto devolutivo e sospensivo sono:
1) che dalla risoluzione della controversia civile di stato dipenda la decisione sulla esistenza del reato;
2)che il giudice riconosca l’esistenza e la serietà della controversia.
Per le questioni pregiudiziali civili e amministrative è invece statuito che esse non obbligano ma facultano il magistrato penale e devolverne la decisione a giudice civile (art. 20 C.P.P.). Di regola tale devoluzione si verifica solo quando concorrano le seguenti condizioni:
1) che si tratti di controversia dalla cui risoluzione dipenda l’esistenza del reato, non bastando all’uopo che tale risoluzione solo influisca sullo accertamento dello stesso;
2) che tale controversia non sia di facile risoluzione;
3) che non esista una disposizione di legge la quale imponga al magistrato penale di decidere egli stesso la questione;
4) che la legge civile non ponga limitazioni alla prova del diritto di contestazione (ciò perché il principio di ampia libertà di prova, che è proprio del diritto penale, non resti vulnerato da qualsiasi criterio limitativo di prova).
Questo esercizio della facoltà di devoluzione alla competenza civile e amministrativa è rimesso allo insindacabile apprezzamento del giudice penale. La facoltà devolutiva del giudice penale può esercitarsi non solo in sede di giudizio, ma altresì nella fase istruttoria, e, in questa seconda ipotesi, se l’istruttoria è sommaria, cioè di competenza del Pubblico Ministero, la facoltà devolutiva spetta anche al Procuratore del Re o al Procuratore Generale (art. 391 C.P.P.). È cosa opportuna infine osservare che il giudicato col quale è decisa la questione pregiudiziale di stato ha sempre effetto di cosa giudicata nel procedimento penale; quello invece col quale è decisa una questione pregiudiziale facoltativa farà stato nel procedimento penale solo alle condizioni seguenti:
- a) che la legge civile non stabilisca limitazioni assolute o relative alla prova del diritto che ha formato oggetto della controversia;
2) che la decisione del giudice civile o amministrativo sia stata emanata in confronto delle stesse persone.
La prima di dette condizioni si attiene al principio della libera prova penale cui sopra si è accennato, e la seconda si attiene ai criteri che informano l’autorità del giudicato (art. 1351).
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PARTE SECONDA
14. I fatti giuridici
Sono fatti giuridici quelli da cui deriva l’esistenza, la modificazione, la cessazione di un rapporto giuridico. Si distinguono dai fatti semplici, i quali hanno importanza per il diritto solo in quanto possono servire a provare l’esistenza di un fatto giuridico.
Vi sono più categorie di fatti giuridici, le quali si possono distinguere:
- a) Fatti costitutivi: che danno luogo alla formazione di un rapporto giuridico; ad es. un prestito.
- b) Fatti estintivi: che fanno cessare un rapporto giuridico; ad es. pagamento o remissione del debito. I fatti estintivi possono essere connaturali al diritto o successivi; se un diritto è concesso per un dato termine, la sopravvivenza di questo opera come fatto estintivo connaturale al diritto. Può tuttavia sopravvenire un fatto nuovo a rinforzare il fatto costitutivo (interruzione del termine).
- c) Fatti impeditivi: cioè un fatto per sua natura negativo, consistente nella mancanza di una delle circostanze che devono concorrere coi fatti costitutivi perché si producano gli effetti che sono loro propri e normali. Questa categoria di fatti non può dunque intendersi se non considerando le circostanze necessarie al sorgere d’un diritto, raggruppate nelle due categorie di cause efficienti (fatti costitutivi) e cause concorrenti (la cui mancanza è fatto impeditivo).
Ogni diritto nasce da date circostanze che hanno la funzione specifica di dar vita proprio a quel diritto, ma perché esse producano l’effetto che è loro proprio, normale, devono concorrere altre circostanze. Un accordo delle parti di vendere una data cosa per un determinato prezzo è, ad es. la circostanza specifica (fatto costitutivo) che produce il passaggio di proprietà da l’una all’altra parte (art. 1448 Cod. Civ.) ma si richiede ancora che l’accordo sia fatto seriamente; se esso è simulato il passaggio di proprietà non avviene. Una obbligazione fondata su causa illecita non può avere alcun effetto (art. 1119 Cod. Civ.); dunque la illiceità della causa impedisce l’effetto normale delle obbligazioni.
Le questioni che sorgono nel processo relativo a semplici fatti giuridici non sono, di solito, questioni pregiudiziali nel senso come noi le intendiamo. Normalmente i fatti giuridici, avendo importanza solo in quanto servono alla formazione e alla applicazione di un rapporto giuridico, sono accertati dal giudice solo come premessa del sillogismo che conduce all’accertamento di questo rapporto. Essi non possono, da soli, dare luogo nel giudizio a una questione pregiudiziale perché non possono essere oggetto principale di un accertamento; ma questo può solo accadere eccezionalmente.
Così, quando la legge permette che possa chiedersi in via principale la cognizione o la verificazione di una scrittura (art. 282 C.P.C.) e la dichiarazione di falsità di un documento (art. 296 C.P.C.); si intende che se queste domande sono proposte incidentalmente in un processo, esse potranno dar luogo a un accertamento incidentale; anzi la legge vuole, nel caso di querela di falso, che in ogni caso, su questa questione abbia luogo un accertamento definitivo, con effetti di cosa giudicata, onde prescrive il rinvio al Tribunale civile dell’incidente di falso sorto avanti ai Pretori (art. 431 C.P.C.), ai Conciliatori (art. 455 C.P.C.), ai giudici speciali (art. 406 C.P.C. e art. 41 Regolamento di procedura avanti il Consiglio di Stato 17 agosto 1917 ecc.).
Tra i fatti giuridici si comprendono anche gli attributi delle persone, delle cose e degli atti. Così, lo stabilire che una persona abbia un’età anziché un’altra, sia sana o malata di mente; che una parte sia commerciante, una società sia commerciale o civile etc. può costituire un giudizio autonomo avente per oggetto la questione relativa a quell’attributo. Anche la legittimità o illegittimità di un atto può presentarsi come un punto pregiudiziale in liti diverse, come, ad es. nel giudizio d’annullamento di un atto amministrativo avanti le Sezioni Giurisdizionali del Consiglio di Stato e nel giudizio intorno al diritto leso dall’atto avanti l’autorità giudiziaria: salvo che una espressa norma di legge, in tutti questi casi, provvede nel senso che la questione (avuto riguardo alla pluralità di liti in cui può presentarsi) sia decisa in una di esse una volta per sempre, anziché semplicemente conosciuta ai fini della lite pendente.
15. Le questioni pregiudiziali
Il giudice, prima di affrontare la questione principale della causa, si trova di fronte ad una serie più o meno lunga di punti pregiudiziali, che si possono chiamare l’antecedente logico della questione finale e che, se sono controversi, danno luogo a questioni (questioni pregiudiziali). Queste questioni, considerate in sé, non fanno che imporre un maggior compito al giudice, ma non danno luogo ad una decisione pregiudiziale con effetti di cosa giudicata e a tutti i fenomeni processuali (come lo spostamento di competenza, la sospensione della causa principale etc.) che possono derivarne. Perché ciò si verifichi si richiede un atto di volontà delle parti, o una particolare norma di legge che lo imponga (accertamento incidentale). Abbiamo così tre gradi ascendenti della pregiudizialità distinti dal Menestrina nel processo:
- a) Punto pregiudiziale = antecedente logico non controverso;
- b) Questione pregiudiziale = antecedente logico controverso;
- c) Causa pregiudiziale = antecedente logico controverso ed accertato incidentalmente o anche rinviato ad un separato processo.
Le questioni pregiudiziali decise in una lite possono sempre liberamente discutersi in una lite successiva; a meno che, per volontà anche di una sola delle parti (o per disposizione speciale di legge) la questione pregiudiziale non siasi trasformata in una causa pregiudiziale, il che avviene quando la contestazione sorta nel processo pendente sopra un punto pregiudiziale sia elevata, per volontà di una delle parti, al grado di una azione di accertamento (accertamento incidentale) nel qual caso veniamo a trovarci di fronte ad una domanda autonoma, concernente un rapporto giuridico diverso, cioè la certezza sul rapporto pregiudiziale, colla conseguenza che la sentenza, in quanto ammetta od escluda l’esistenza del rapporto giuridico oggetto della domanda incidentale, avrà effetto di cosa giudicata.
È d’uopo sempre riconoscere alle parti in causa lo interesse nell’agire, per l’accertamento del rapporto pregiudiziale controverso, in modo da estendere anche a questo la cosa giudicata; ciò perché, in casi simili, se la constatazione fosse stragiudiziale, darebbe luogo all’azione di accertamento; a più forte ragione quindi si deve questa ritenere giustificata da una contestazione giudiziale. Il punto pregiudiziale suscettibile in astratto di una questione pregiudiziale o di un accertamento incidentale non deve essere un qualsiasi punto questionabile, ma deve trattarsi, normalmente di questioni relative a rapporti giuridici che potrebbero formare oggetto di un giudizio autonomo e dar luogo in questo a cosa giudicata, poiché solo rispetto alle dette questioni relative a rapporti giuridici che possono formare oggetto d’un giudizio autonomo, può avere importanza il dire che quando le medesime si presentino come pregiudiziali in un giudizio avente altro oggetto, esse sono decise senza effetto di cosa giudicata.
Non è di solito questione pregiudiziale, nel senso qui indicato, la questione relativa ad un semplice fatto giuridico. I fatti giuridici, come già osservato, non possono normalmente essere da soli oggetto principale di un accertamento, potendo ciò solo accadere eccezionalmente, in qualche caso speciale previsto dalla legge. Così, quando la legge permette che possa chiedersi in via principale la ricognizione o verificazione di una scrittura (art. 282 C.P.C.) e la dichiarazione di falsità (art. 296 C.P.C.), s’intende che se queste domande sono proposte incidentalmente in un processo esse potranno dar luogo ad un accertamento incidentale; anzi nel caso di falso, la legge vuole in ogni caso su questa questione abbia luogo un accertamento definitivo con effetti di cosa giudicata e prescrive che a questo oggetto il rinvio al Tribunale civile dell’incidente di falso sorto avanti le altre autorità giudiziarie e amministrative.
Così pure abbiamo un altro caso speciale, previsto da un norma espressa di legge, quando nel corso di un giudizio civile apparisce un fatto nel quale può ravvisarsi un reato. Se viene iniziata l’azione penale, e la cognizione del reato influisce sulla decisione della controversia civile, il giudizio civile resta sospeso sino a che sia pronunciata nell’istruzione la sentenza di proscioglimento non più soggetta a impugnazione, o nel giudizio la sentenza irrevocabile (art. 3 C.P.P.). Qui si ha un fatto che non potrebbe da solo essere oggetto principale di un giudizio civile; ma poiché esso può avere importanza in altro giudizio (penale), e la legge trova sconveniente che questo fatto sia oggetto di due giudizi diversi, così essa impone al giudice civile di arrestarsi a questo punto.
Punti pregiudiziali controversi suscettivi di una questione pregiudiziale saranno, per loro natura, questioni pregiudiziali, nel senso da noi sopra indicato, le seguenti:
16. Questioni di stato
È questione pregiudiziale ogni questione relativa a uno stato giuridico, intenso in senso lato, comprendendo cioè ogni condizione giuridica, che, essendo il presupposto comune a svariatissimi rapporti giuridici, sia dal diritto considerata come possibile oggetto principale di un giudizio autonomo. Così: lo stato di cittadinanza, di famiglia, di matrimonio, la qualità di opera pia ecc.
Ogni azione che presuppone un determinato stato o qualità può dar luogo ad una questione pregiudiziale intorno a questa; così una azione (ad es. per alimenti) che presuppone un determinato stato civile.
17. Rapporti giuridici semplici
Quando un rapporto giuridico si esaurisce in un unico diritto (es. prestito di danaro senza interesse) non vi può essere una questione propriamente pregiudiziale. Vi potrà essere bensì una questione sulla esistenza del rapporto distinta dalla questione sulla esistenza del diritto (ad es. scadenza dell’obbligo di restituire il mutuo) ma oggetto della domanda di restituzione sarà necessariamente anche la dichiarazione di esistenza del rapporto.
Per quanto semplice sia un rapporto, la sua esistenza o validità può sempre costituire una questione pregiudiziale rispetto alle azioni derivate dall’azione originaria. Ad es. si chiedono davanti al Pretore i danni di Lire 1000 per inadempimento di un contratto del valore di Lire 6000, e si contesta l’esistenza del contratto.
18. Rapporti giuridici complessi
Così chiamiamo quei rapporti da cui derivano molteplici diritti e doveri. In ordine a questi rapporti giuridici se si fa valere colla domanda giudiziale uno solo dei diritti, il rapporto giuridico sarà bensì dedotto in giudizio come “causa petendi”, ma non sarà per sé oggetto della domanda e del giudicato.
In questo caso può essere però che, in occasione della singola azione, sia contestata la esistenza del rapporto giuridico, e sorga così su questo (locazione, società etc.) una questione pregiudiziale. Quanto più il rapporto giuridico è complesso, tanto più netta appare la distinzione tra la questione avente per oggetto il rapporto giuridico stesso e le azioni singole che sono derivazioni o emanazioni del rapporto, che appare come il loro presupposto talora lontano. Così la singola azione ereditaria rispetto alla questione della qualità ereditaria (art. 869) ultimo cpv. Cd. Comm.; l’azione confessoria rispetto alla questione di proprietà; le azioni per guasti e danni a fondi urbani e rustici, siepi, chiudende, piante e frutti rispetto alla questione di proprietà o di possesso (art. 10 n. 3 Legge 16 giugno 1892, n. 261 sui Conciliatori). Il fenomeno si avvicina qui a quello che si manifesta sulle questioni di stato.
Ma in questi rapporti giuridici complessi bisogna distinguere fra i vari diritti che ne fanno parte quelli che hanno carattere principale o fondamentale, poiché dunque quando questi sono fatti valere, deve ritenersi che oggetto della domanda e del giudicato sia senz’altro e direttamente, insieme col diritto fatto valere, anche il rapporto giuridico stesso. Così, nel diritto di proprietà, la facoltà principale consiste nel pretendere che tutti si astengano dal godimento della cosa e quindi dal possesso che è condizione per il godimento; perciò la rivendica non è in realtà che lo stesso diritto di proprietà fatto valere tutto quanto contro l’attuale possessore, il che si esprime dicendo che il diritto di proprietà non è semplicemente pregiudiziale alla rivendica, ma è fatto valere con questa (opinione che ha il suffragio del Chiovenda, ma è controversa).
Così, nel rapporto di locazione, diritto principale è quello tendente ad ottenere la cosa, sia questa chiesta dal conduttore contro il locatore (art. 1575 Cod. Civ.) o del locatore contro il conduttore (art. 1585 Cod. Civ.). Caso pratico: nella azione di sfratto per locazione finita, la esistenza attuale del rapporto giuridico di locazione è oggetto del giudizio; pertanto se il conduttore nega che la locazione sia finita, non fa sorgere con ciò una questione pregiudiziale, ma contesta l’oggetto stesso della domanda. E poiché l’azione di sfratto per locazione finita, per le sue particolari esigenze di rapida soluzione, è assegnata alla competenza del giudice di competenza normale inferiore, “qualunque sia il valore della causa” (art. 82, n. 5 C.P.C.); ne consegue che il Pretore, quando il fine dell’attore è lo sfratto, sarà competente a decidere in via principale se la locazione è finita o se continua, e questa decisione, sebbene chiesta ai fini dello sfratto, farà poi stato anche per le altre azioni derivanti dal rapporto: ad es. se il Pretore decide che la locazione continua per un dato tempo, il conduttore non potrà contestarlo, quando sia richiesto del fitto corrispondente (contra: Cass. del Regno 31 gennaio 1928, Foro Ital. Pag. 433, 1928).
Rapporti giuridici con obbligazioni rateali. Rapporti giuridici complessi con obbligazioni rateali sono tutti i debiti pagabili per parte o a periodi (locazione di cose o di opere, prestazioni di rendita, assegni alimentari, mutui ad interessi, rapporto d’impiego ecc.). Ogni rata può essere oggetto di domanda e di giudizio; e in occasione della domanda di una rata, può sorgere una questione pregiudiziale sul rapporto giuridico in virtù del quale si domanda la rata.
Rapporti giuridici che sieno condizione del principale. Talvolta il rapporto che corre fra due persone dipende dalla esistenza di un altro rapporto fra le stesse persone, o fra una di esse ed un terzo, o anche fra due terzi. Così il rapporto di sublocazione dipende da quello di locazione; il rapporto di fideiussione dipende dalla obbligazione principale (eccettuato il caso previsto dall’art. 1899 Cod. Civ.); il rapporto con cui si trasmette un diritto dipende dal rapporto in virtù del quale si è quel diritto acquistato (a meno che la legge disponga che il terzo acquisti indipendentemente dal diritto del suo autore); l’azione contro il bigamo dipende dalla validità del primo matrimonio (art. 113 Cod. Civ.).
In tutti questi casi il giudizio sul rapporto e sulla azione dipendente può dar luogo a una questione pregiudiziale sulla esistenza e validità del rapporto precedente o principale.
19. Rapporto giuridico incompatibile col principale
Sin qui abbiamo considerato l’ipotesi che il convenuto si limiti a contestare il fondamento dell’azione negando semplicemente la esistenza o validità del rapporto su cui l’azione è fondata. Può essere però che il convenuto si difenda in forma positiva affermando cioè la esistenza di un altro rapporto incompatibile con l’esistenza, almeno attuale, del diritto affermato dall’attore e dando luogo così ad una questione pregiudiziale su questo rapporto (che a sua volta potrà dar luogo a un accertamento incidentale).
Il caso più comune è quello della eccezione di compensazione, in cui incompatibilità nasce solo colla eccezione. Ma altri esempi possono darsi in cui la incompatibilità è inerente alla domanda stessa dell’attore. Così, ad es. chi è convenuto per il pagamento di un fitto o per la riconsegna della cosa locata o per la restituzione di un deposito, può opporre di essere proprietario o usufruttuario della cosa. Chi è convenuto colla rivendica, invece di limitarsi a negare la proprietà dell’attore, può affermare di essere egli stesso proprietario. Chi è convenuto con un’azione confessoria in dipendenza di una servitù legale, ad es. per l’osservanza delle distanze legali nelle costruzioni o nella apertura delle finestre, può limitarsi a negare l’esistenza della servitù legale (ad es. per trattarsi di edificio destinato ad uso pubblico, art. 572 Cod. Civ., o per essere tra le due proprietà una via pubblica, art. 587 Cod. Civ. cpv.); può limitarsi a negare di averla violata (ad es. facendo questione sul modo di misurare le distanze, art. 589 Cod. Civ.); ma può invece affermare di avere acquistato per convenzione o altrimenti il diritto di servitù contraria alla servitù legale (ad es. la servitù di costruire a distanza minore della legale, la servitù di prospetto, di stillicidio etc.).
In tutti questi casi occorre tener presente, ai fini della competenza, se il convenuto oppone di avere acquistato la servitù contraria alla servitù vantata dall’attore, e se sopra a questa servitù del convenuto ha luogo un accertamento incidentale, poiché, in caso affermativo, sono oggetto del giudizio e del giudicato entrambe le servitù, e dovendo perciò considerarsi fondo servente così il fondo dell’attore come quello del convenuto, dovrà aversi riguardo al fondo di maggior valore.
20. Concetto generale della sentenza
La norma giuridica, nella sua essenza, è atto di volontà, e più precisamente un comando rivolto dallo Stato ai singoli. Questo comando, essendo espresso in forma astratta, ha bisogno per la sua attuazione pratica, di esser concretato: ossia la volontà dello Stato, manifestata in forma astratta e generale nella legge, ha bisogno di essere tradotta in forma concreta: il che fa appunto il giudice nella sentenza. Nell’adempiere a questo suo compito, il giudice non aggiunge alcuna volontà propria alla volontà già manifestata dall’organo legislatore e consacrata nella norma giuridica. Onde sono nel giusto quegli scrittori che affermano (in Italia: Rocco Alf. Chiovenda ed altri) che nella sentenza non vi è alcuna dichiarazione di volontà da parte del giudice, la sua opera si riduce ad un puro giudizio logico circa l’applicazione della norma al caso concreto; che nella sentenza la volontà dichiarata è quella della legge.
L’elemento essenziale e caratteristico della sentenza è dunque il giudizio logico: cioè la sentenza è essenzialmente un atto della mente del giudice. Le sentenze, di regola, si esauriscono in una pura operazione logica, è un vero sillogismo in cui, assunta come premessa maggiore la norma generale, come premessa minore il caso concreto, si decide la norma di condotta da seguire nel singolo caso. Il giudice adunque, in questa operazione, non esprime, come da alcuni fu erroneamente ritenuto, alcuna volontà propria: esso manifesta semplicemente il proprio giudizio sulla volontà dell’organo legislativo nel caso concreto. La sentenza non contiene perciò altre volontà che quella della legge tradotta in forma concreta per opera del giudice. In tutto ciò non si ha opera della volontà, ma solo dell’intelligenza del giudice; e la sentenza non è che l’accertamento della norma giuridica valevole nel caso concreto, ossia l’accertamento della tutela giuridica che la norma concede a un determinato interesse.
21. Distinzione fra la sentenza di mero accertamento e la sentenza di condanna
È da notare come in alcune specie di sentenze il giudizio logico, di cui sopra si è parlato, si trova da solo, mentre in altre all’accertamento del concreto rapporto giuridico è associato un ordine diretto all’obbligato di realizzarlo. Donde la distinzione tra sentenze pure e semplici (di mero accertamento) e sentenze preparatorie dell’esecuzione (di condanna). Se la sentenza di condanna dà luogo ad esecuzione forzata, e quella di mero accertamento non vi dà luogo, ciò significa che nella prima esiste un elemento il quale manca nella seconda. Tale elemento è la condanna, la quale deve considerarsi come una comminatoria di esecuzione forzata fatta dal giudice all’obbligato per il caso de la inosservanza all’obbligo accertato a suo riguardo. L’ordine contenuto nella sentenza di condanna non è una inutile duplicazione del comando già contenuto nella norma e accertato nella sentenza; quello che è proprio di quell’ordine è la precisa ed individuale comminatoria di esecuzione forzata, in caso di inosservanza. Così pone, da noi, il Chiovenda (Saggi di dir. proc. civ. pag. 84 e segg.) la distinzione tra accertamento e condanna. Nella dottrina tedesca, questa maniera di considerare il rapporto tra la condanna e la esecuzione forzata, è seguita così dalla corrente che cerca la distinzione tra l’accertamento e la condanna nella stessa essenza della sentenza, come da quell’altra che la trova invece non nella sentenza, ma nel suo oggetto: Hellwig, da una parte, scrive decisamente che lo scopo di ottenere il titolo esecutivo “dà all’azione di condanna e a questa di forma di tutela giuridica la sua impronta caratteristica” (Trattato, I, pag. 9, pag. 47); Leonhard, dall’altra, pone chiaramente lo scopo dell’esecuzione forzata come elemento essenziale della condanna” (il concetto di pretesa nel prog. di un Cod. Civ. per l’imp. tedesco, Rivista per proc. civ. ted. 1891, p. 353 e segg.).
A giudizio del Carnelutti (Lezioni di dir. proc. civ. vol. II, n. 73 pag. 4° e segg.). sono invece assai più nel vero quegli scrittori tedeschi che parlano, con prudenza, della condanna come accertamento giudiziale di un diritto che deve essere soddisfatto (befriedigungsbedürftingen) (Wach, Manuale, I, p. 13; Kisch, Contributi alla dottrina della sentenza, p. 22 e segg.).
Da questi ultimi scrittori si comincia a scoprire quello che è il più vasto dominio della nozione di condanna, la quale va posta non soltanto in rapporto con la esecuzione forzata, ma con la intera realizzazione del diritto, di cui la esecuzione forzata non è che un ramo, accanto all’altri del risarcimento e della riparazione.
Se è vero che la azione di condanna tende a qualche cosa di diverso dalla azione di accertamento, questo qualche cosa non è soltanto il titolo esecutivo ma, più largamente, una sentenza che permette di mettere in moto o la esecuzione o una delle altre forme mediante le quali si attua la volontà della legge contenuta nella sentenza. Questa maggiore portata da attribuirsi alla sentenza di condanna è specialmente importante per quei casi nei quali – come ad es. nelle obbligazioni, di fare in cui il fare sia specifico del debitore – la esecuzione della obbligazione non sia possibile se non per atto del debitore. In tali casi dalla nostra legge non è ammesso che, per ottenere la prestazione formante obbietto della obbligazione, si possa costringere il debitore a compierla con mezzi di coartazione personale e solo può farsi luogo all’azione di risarcimento dei danni (art, 1218 c. civ.). Non si può dunque porre la esecuzione forzata come scopo e come effetto immancabile della condanna, a meno che, come fa il Cammeo, non la si voglia intendere in senso molto lato, fino a comprendervi anche la pena e il risarcimento (Cammeo, L’azione del cittadino contro la pubblica Amministrazione, pag. 79 e segg.): infatti quando il Cammeo spiega che la esecuzione coatta, la quale nasce dalla sentenza di condanna, assume la forma di esecuzione “indiretta”, cioè a mezzo di coazione psicologica, e “diretta”, cioè a mezzo della forza materiale, ha intuito la maggior vastità del concetto di condanna in confronto a quello vero e proprio di esecuzione forzata.
Epperò d’uopo convenire che la condanna vada definita non già in rapporto alla esecuzione forzata ma in rapporto alla realizzazione del diritto. Tanto è vero che la condanna può essere a fare qualche cosa che poi non si possa ottenere con l’impiego della forza materiale degli organi esecutivi: si condanna anche in questo caso perché, se non c’è l’esecuzione specifica, c’è il risarcimento dei danni. Così ad es. nel contratto tra l’artista e l’impresario teatrale, nel contratto tra la modella e il pittore, in caso di inadempienza, si potrà ottenere dal giudice una sentenza di condanna, per effetto della quale, non essendo ammessa la prestazione coatta dell’obbligazione, avrà luogo a favore dell’altra parte il ristoro dei danni. Comunque, la sentenza di accertamento è una pura e semplice sentenza, ossia un giudizio logico sulla esistenza o non esistenza di un rapporto giuridico; la sentenza di condanna è una sentenza, ossia un giudizio logico, a cui è aggiunta una comminatoria per la realizzazione del diritto e che, a seconda dei casi, può dar luogo ad esecuzione forzata ed a risarcimento dei danni.
22. Le sentenze di mero accertamento – Concetto
Quando l’attore, colla propria domanda, non tende alla realizzazione di un proprio diritto, ma si limita a chiedere che sia dichiarata la semplice esistenza del proprio diritto o la inesistenza del diritto altrui (dichiarazione positiva o negativa) abbiamo una sentenza di mero accertamento. Scopo del processo è sempre l’attuazione della volontà della legge nel caso concreto, ed anche questo è una forma di attuazione della volontà della legge. Con queste sentenze lo attore non vuole conseguire attualmente l’adempimento in suo favore di una obbligazione, egli vuol soltanto sapere che il suo diritto esiste o vuole escludere che esista il diritto dell’avversario; egli chiede al processo la certezza giuridica e non altro.
L’accertamento di un proprio rapporto giuridico è per sé stesso un bene, poiché dallo stesso derivano immediatamente dei vantaggi. Se si afferma la esistenza di un rapporto giuridico che ci garantisce un bene, alla utilità garantita dal rapporto giuridico stesso, si aggiunge la sicurezza della sua aspettazione, e la possibilità di disporne nel commercio giuridico; si ha qui un accertamento positivo. Se si nega la esistenza di un rapporto giuridico che garantisce ad altri un bene rispetto a noi, si procaccia con ciò stesso a noi un bene, il quale consiste nella certezza di non essere noi soggetti alla pretesa o al potere dell’avversario, con vantaggio del nostro credito, ecc. si ha così un accertamento negativo. Il processo civile, oltre la sua funzione primitiva di strumento di coazione, ha assunto man mano altre funzioni più elevate, fra le quali primeggia quella di creare questa certezza giuridica di cui parliamo (azione di accertamento). Con questa funzione importante del processo civile si ottiene di assicurare alle relazioni degli uomini la certezza, di prevenire gli atti illegittimi anziché colpirli col peso di gravi responsabilità, e così si raggiunge un compito ben degno del processo di un popolo civile.
23. Cenni storici
Questa forma autonoma di tutela giuridica già la troviamo nel Diritto romano, e precisamente nelle “Formulae preiudiciales” del diritto classico, così chiamate appunto perché la sentenza che a mezzo di esse ottenevasi era normativa di giudizi successivi. Queste formulae preiudiciales diventarono poi le “actiones preiudiciales” del diritto giustinianeo, nei casi più svariati di incertezza giuridica e soprattutto in questioni di stato. La situazione di fatto che dava luogo a questa incertezza, e quindi all’interesse di agire per eliminarla, era di solito costituita da una contestazione stragiudiziale, sia che taluno pretendesse di avere un diritto verso un’altra persona, sia che negasse il diritto di questa persona verso di lui. Così, ad es. se taluno, che si trovasse in stato di servitù pretendeva di essere libero, o se alcuno pretendeva che altri che si trovava in stato di libertà fosse suo servo, soccorrevano i “praeiudicis an liber sit, an servus sit” (fr. 7, par. 5, 10-12 Dig. De liberali cau. 40,42).
Nel diritto intermedio scomparvero le notiones praeiudiciales e sottentrarono in loro vece i giudizi provocatorei(giudizi di giattanza o di diffamazione) di origine germanica. Con essi, invece di chiedere al processo la diretta formulazione della volontà della legge, resa dubbia da una contestazione stragiudiziale, si cercava indirettamente la certezza giuridica provocando l’avversario a proporre l’azione e, in mancanza, a sentirsi condannare al silenzio per l’avvenire. Questi giudizi provocatorii furono due: l’uno “ex lege diffamari”, l’altro “ex lege si contendat”, così denominati dalle due leggi romane dalle quali apparentemente derivano. La prima consiste in ciò, che colui a cui a danno altrui si è vantato un diritto, può chiedere al giudice che fissi a costui un termine per far valere il diritto vantato in giudizio (provocatio ad agendum) e, in difetto gli ordini perpetuo silenzio (impositio silenti), mediante la quale preclusione veniva in sostanza accertata la non esistenza del diritto vantato. La seconda accorda al fideiussore citato per il pagamento dell’intero debito di chiedere la divisione dell’azione, se vi sono altri confideiussori solvibili. In base a questa legge fu ammesso il fideiussore a provocare il creditore ad agire, per poter così far valere l’eccezione di divisione dell’azione, eccezione che poteva andar perduta se i confideiussori fossero divenuti in seguito insolvibili. Ma questo rimedio, in forma di provocatio ad agendum, e combinato col remedium ex lege diffamari, si venne man mano applicando ad altre eccezioni, e divenne così un mezzo generale per ottenere l’accertamento negativo dei rapporti, traverso la preclusione derivante della impositio silenti. I processi provocatorii ebbero in pratica larga applicazione, ma la loro anormalità (coazione ad agire) e le questioni formali a cui essi davano luogo li resero giustamente invisi e condussero dappertutto alla loro abrogazione.
24. Incertezze del processo moderno
Il ricordo delle discussioni sui giudizi provocatorii e dei loro difetti pratici (fra l’altro perché venivano a distrarre le cause dal loro foro proprio) ha per molto tempo disposto la dottrina e la giurisprudenza così italiana come straniera (diritto tedesco, francese, anglo-americano) a considerare con sfavore anche l’azione di accertamento.
Sebbene la pratica dei giudizi presentasse esempi quotidiani di azioni di accertamento ammesse senza contrasto (azioni di simulazione, azioni di nullità di contratti ed atti giuridici diversi) tuttavia quando si chiedeva in giudizio la dichiarazione dell’esistenza del diritto proprio, stragiudizialmente contestato da un terzo, o la dichiarazione della inesistenza di un diritto vantato da un terzo, era costante ed inevitabile il rigetto della domanda sul motivo che i giudizi provocatorii erano stati soppressi. Si confondevano così le forme particolari, antiquate ed illogiche, che la funzione di accertamento assumeva nei giudizi provocatorii, colla funzione stessa, la quale non era stata e non poteva essere soppressa. Ed invero la stessa proposta di soppressione dei giudizi provocatorii votata dalla Commissione di coordinamento del nostro Codice era stata accompagnata dalla formale dichiarazione (seduta 5 maggio 1865): “Essere di per se stesso naturale che colui, contro il quale altri pretende avere un diritto, abbia ragione a chiamarlo in giudizio a far dichiarare che il preteso diritto è inesistente”.
25. L’azione di accertamento nel processo italiano
La legge italiana offre norme positive che sono per se stesse sufficienti alla costruzione dell’azione di accertamento come figura generale; basterebbe, per la ammissibilità di questa azione nel nostro diritto la disposizione dell’art. 36 C.P.C. la quale contiene la proclamazione del principio generale che condizione necessaria e sufficiente per proporre una domanda in giudizio è l’interesse ad agire. Vi sono tuttavia molte disposizioni particolari, e cioè: l’azione per ricognizione o verificazione di scrittura privata (art. 282 C.P.C.) e l’azione per dichiarazione di falso (art. 296 C.P.C.) ammesse anche entrambe come oggetto principale del giudizio, l’azione di nullità dei contratti (art. 1300 Cod. Civ.), l’azione per dichiarazione di illegittimità di atti amministrativi, sia in via ordinaria, sia in via di ricorso al Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, l’azione per far dichiarare la sussistenza di un diritto sospeso da condizione o da termine al fine di interrompere la prescrizione (art. 2126 Cod. Civ.), l’azione per far dichiarare l’esistenza del matrimonio (art. 121 Cod. Civ.). Questi testi costituiscono la basi di diritto positivo che hanno permesso alla moderna dottrina processuale italiana di dimostrare l’ammissibilità in genere dell’azione di accertamento positiva e negativa nel diritto italiano (Chiovenda, Saggi I pag. 73 e Principi, pag. 163; Cammeo, L’Azione del cittadino contro la Pubblica Amministrazione n. 5; Rocco Alf. La sentenza civile, pag. 156; Carnelutti, Lezioni, II, n. 70). L’azione di accertamento ricondotta nei termini di una azione ordinaria, oltre di avere molto incontrato nella dottrina, ha avuto ormai anche il riconoscimento della nostra giurisprudenza, compresa quella della Corte di Cassazione del Regno. Ed invero il nostro supremo consesso giudiziario colla sua sentenza 14 gennaio 1931 (Foro Italiano 1931 pag. 564) ha stabilito la seguente massima: “È proponibile l’azione di accertamento in senso positivo o negativo, quando sussista un interesse dell’attore ad assicurare, mediante la pronuncia del giudice, la coincidenza della volontà delle legge con una particolare situazione giuridica in relazione ad una violazione attuale o potenziale del diritto di cui si chiede l’accertamento.” La Corte Suprema già con precedenti sue decisioni aveva affermato l’ammissibilità nel nostro diritto processuale della figura generale dell’azione di accertamento, quando essa risponda ai requisiti richiesti dall’art. 36 C.P.C. ed i particolare sussista nell’attore l’interesse ad agire, ma questa più recente sentenza è notevole per la motivazione più precisa e perspicua con cui la Suprema Corte aderisce in sostanza agli insegnamenti della moderna dottrina.
26. Natura giuridica dell’azione di accertamento
La costruzione giuridica dell’azione di accertamento presentava non lievi difficoltà dal considerare l’azione come elemento di un altro diritto, ovvero come il diritto nella sua tendenza all’attuazione. Ed invero in queste azioni non è facile trovare qual sia il diritto che tende all’attuazione, specie poi se si tratti di azioni di accertamento negativo. La costruzione invece non presenta difficoltà se si considera l’azione in genere o come un diritto alla tutela giuridica verso lo Stato (Wach, Hellwig e Rocco Ugo) o come un potere giuridico tendente alla attuazione della legge (Chiovenda); in entrambi i casi l’azione di accertamento non suppone alcun obbligo di prestazione per parte del convenuto. L’azione di accertamento fu anzi quella che meglio servì (particolarmente al Wach) a dimostrare l’autonomia dell’azione. L’accertamento che si aspetta per opera del giudice non può pretendersi dal convenuto, né surrogarsi con una prestazione del convenuto. Abbiamo già osservato che il convenuto non ha alcun obbligo di formalmente riconoscere fondata la pretesa dell’attore, né di riconoscere infondata la propria e che se pure ha questo obbligo, il suo riconoscimento non può equivalere a un accertamento giudiziale; né un atto notarile ha quella portata sociale che richiede l’interesse dell’attore.
27. Oggetto della sentenza di accertamento
Come precisò il Kisch al Congresso dell’Aja dell’agosto 1932, oggetto della sentenza di accertamento è un rapporto giuridico (un matrimonio, la paternità, l’appartenenza ad una società, l’esistenza di una locazione o di un contratto di lavoro, la proprietà o un altro diritto reale, come un’ipoteca, un usufrutto), oppure un diritto di obbligazione (contro chi pretende che il mio debito verso di lui non sia stato ancora pagato, agisco per l’accertamento che il debito più non sussiste). Oggetto può essere l’intero rapporto giuridico (esistenza di una locazione) o una sua singola modalità (la durata). Il rapporto da accertare per lo più riguarderà le parti, ma può riguardare anche un terzo (come quando tra cedente e cessionario si discute della validità della cessione); in ogni caso poi sarà un rapporto concreto; non si può, ad es. agire per l’accertamento della legge in astratto applicabile a una successione; si deve agire invece chiedendo che si accerti se Tizio o Caio sia erede e la questione della legge applicabile costituirà una premessa, non l’oggetto dell’accertamento.
Oggetto delle sentenza di accertamento non può essere un semplice fatto, quantunque giuridicamente rilevante. Non si può accertare che fu concluso un contratto, ma che esiste un valido contratto; non che Tizio ha commesso un delitto, ma che egli è responsabile dei danni; non che una merce sia difettosa, ma che si ha diritto di restituirla; non che Caio sia stato accolto in una società, ma che egli è membro di questa società; non che vi sia stata coabitazione tra Mevia e Sempronio, ma che Sempronio è padre naturale. A questa regola fa eccezione, per ragioni di opportunità, una norma espressa di legge, ammettendo l’accertamento di un mero fatto, quale la verità o la falsità di una scrittura (art. 282 e 296 C.P.C. italiano; art. 193, 214 C.P.C. francese, par. 256 C.P.C. tedesco).
28. Effetti della sentenza di accertamento
Quanto agli effetti che può avere una sentenza di accertamento essi sono vari. La certezza del diritto, imponendosi alle menti di tutti, cresce la sua importanza sociale. Oltre a ciò, può darsi che l’accertamento positivo o negativo sia condizione per ottenere provvedimenti di natura diversa dalla esecuzione forzata, come trascrizioni (art. 1935 Cod. Civ.), iscrizioni ipotecarie (art. 1939 Cod. Civ.), cancellazioni ipotecarie (art. 2033, 2036 Cod. Civ.), volture catastali (art. 7 Legge sui catasti, T.U. 4 luglio 1897, n. 276), distruzioni di documenti falsi (art. 309 C.P.C.) ecc.
29. Accertamento incidentale
Un caso tipico di interesse ad agire per l’accertamento, per noi di fondamentale importanza, è quello dell’accertamento incidentale. Questo caso si presenta quando, nel corso di una causa principale, di solito per l’adempimento di una prestazione, sia contestato il rapporto dalla cui esistenza o inesistenza dipende la pretesa fatta valere. Così, ad es. il rapporto di filiazione rispetto all’azione confessoria ecc. Poiché la sentenza non potrebbe fare cosa giudicata se non sull’azione principale, oggetto della controversia, è necessario riconoscere alle parti in causa l’interesse ad agire per l’accertamento del rapporto pregiudiziale controverso, in modo da estendere anche a questo la cosa giudicata. Dato che, in casi simili, la contestazione stragiudiziale darebbe luogo all’azione di accertamento, a più forte ragione devesi ritenere che questa venga giustificata da un contesto giudiziale. A ciò provvede la domanda di accertamento incidentale, la quale dà luogo ad una combinazione di sentenza di accertamento e sentenza di condanna.
30. Rapporto fra la domanda di accertamento incidentale e l’eccezione
L’eccezione, con i suoi effetti già noti, per quanto venga ad ampliare la materia logica della cognizione del giudice, essa non può avere altro oggetto ed altro effetto che il rigetto della domanda dell’attore. Ma spesso accade che, in occasione della contestazione sorta intorno al rapporto giuridico su cui si fonda la eccezione, lo stesso convenuto, oppure l’attore, domandi al giudice che la sua sentenza si estenda ad accertare positivamente o negativamente con effetti di cosa giudicata il rapporto controverso. In questo caso non si amplia soltanto la materia logica della cognizione, ma l’oggetto del processo e della cosa giudicata. Ciò però avviene non in virtù della eccezione, ma di una nuova domanda giudiziale che dà luogo ad un nuovo processo nel seno del primo, e che prende il nome di domanda di accertamento incidentale.
31. La cosa giudicata
La cosa giudicata ci presenta il processo considerato nel risultato favorevole ad una delle parti. Il bene della vita che l’attore ha dedotto in giudizio (res in iudicium deducta) coll’affermazione che una concreta volontà di legge lo garantisce a suo favore, oppure lo nega al convenuto, dopo che è stato riconosciuto o disconosciuto dal giudice colla sentenza di accoglimento o di rigetto, perché più ampia e comprensiva anche nelle sentenze di mero accertamento.
Il bene giudicato diventa incontestabile (finem controversiarum accipit), insomma per la esigenza sociale della sicurezza del godimento dei beni, acquista l’autorità della cosa giudicata. Quando la cosa giudicata viene definita come una “finzione di verità”, come una “verità formale”, come una “presunzione di verità”, non si afferma che una giustificazione politica della cosa giudicata, la quale giuridicamente, come ormai ci è noto, non riguarda l’affermazione della verità dei fatti, ma della esistenza di “una volontà di legge nel caso concreto”.
Il ragionamento sui fatti è opera dell’intelligenza del giudice, necessaria solo come mezzo per preparare la formulazione della volontà della legge. Raggiunto lo scopo, di dare una formulazione della volontà delle legge, l’elemento logico nel processo perde ogni importanza. L’ordinamento giuridico trascende dai ragionamenti del giudice, i quali in qualche punto possono magari essere errati, ma si limita ad affermare che la volontà della legge nel caso concreto è ciò che il giudice afferma essere la volontà della legge. Il giudice dunque in quanto ragiona non rappresenta lo Stato, lo rappresenta invece in quanto afferma la sua volontà. La sentenza è soltanto l’affermazione o la negazione di una volontà dello Stato, che garantisce ad alcuno un bene della vita nel caso concreto; e a questo soltanto può estendersi l’autorità del giudicato; colla sentenza si raggiunge soltanto la certezza della esistenza di una tale volontà e quindi la incontestabilità del bene riconosciuto o negato.
32. Risoluzione delle questioni logiche nel processo
La soluzione invece data dal giudice alle questioni logiche che si presentano al processo, riguardanti questioni processuali e sostanziali, di fatto o di diritto, appunto perché semplicemente preparatorie della pronuncia di accoglimento o di rigetto, non ha l’efficacia propria di quest’ultima; ma ha soltanto un’efficacia più limitata concernente lo svolgimento e il risultato del processo e consistente nella preclusione delle facoltà di rinnovare la stessa questione nello stesso processo. Da ciò discende che la risoluzione giudiziale delle questioni logiche non esclude che la questione possa sempre rinnovarsi in successivi giudizi, tutte le volte che ciò possa farsi senza attentare alla integrità della situazione delle parti fissata dal giudice rispetto al bene della vita controverso. A questo ordine di questioni appartengono le questioni pregiudiziali le quali, decise in una lite, possono sempre liberamente discutersi in una lite successiva, a meno che, per disposizione speciale di legge o per volontà delle parti, la contestazione sorta dal processo precedente e sopra un punto pregiudiziale siasi elevata al grado di una azione d’accertamento (accertamento incidentale e conseguentemente la sentenza, in quanto accolga o respinga la domanda d’accertamento incidentale, abbia effetti di cosa giudicata. E così siamo entrati in quel campo in cui, più che in ogni altro, si manifesta un grave conflitto fra due opposte tendenze: la tendenza cioè che restringe la cosa giudicata, alla pronuncia di accoglimento o di rigetto, e quella che la estende ad ogni parola del giudice che risolva una questione.
Questo lungo e inconciliabile dibattito, al quale già abbiamo avuto occasione di accennare nella prima parte, si stabilizza appunto nella valutazione da darsi all’elemento logico nel processo. È fuor di dubbio che collo estendere la cosa giudicata a tutte le questioni decise, si verrebbe a verificare il grave inconveniente che le parti, nel proporre un’azione e nel difendersi, non avrebbero più alcuna sicurezza intorno ai confini ed alla portata della lite. La quale, per il necessario rapporto che vi è tra cosa giudicata e competenza, andrebbe soggetta ad un continuo spostarsi da uno ad altro magistrato, secondo il punto preliminare contestato su cui il giudice dovrebbe pronunziare con autorità di cosa giudicata. Da ciò emerge la necessità di mantenere la cosa giudicata nei limiti della domanda e di distinguere, nella cognizione, le questioni pregiudiziali su cui il giudice pronunzia incidenter tantum, anche quando, per sé, non rientrino nella sua competenza, dalla domanda di base a cui la causa è assegnata alla sua competenza e su cui il giudice provvede principaliter, con l’autorità di cosa giudicata (art. 1351 Cod. Civ.).
È dovuto al Savigny (Sistema, VI, parr. 291-294) il principio che la cosa giudicata si estende ai rapporti pregiudiziali: questo principio viene da detto scrittore sostenuto anche per il diritto romano, ma i testi da lui additati sono molto incerti. Seguì in questo secondo campo la sua opinione anche Windscheid (Pandette, par. 130, n. 20). Il principio favorevole alla limitazione della cosa giudicata, fu invece sostenuto da Wetzell (Sistema, pag. 152) e dalla quasi totalità dei romanisti e venne accolto nel Regolamento processuale germanico, paragrafo 322 dove è detto che le sentenze producono la cosa giudicata solo in quanto pronunciano sulla pretesa fatta valere coll’azione o colla riconvenzione.
Sostenendo il principio favorevole alla limitazione della cosa giudicata, non intendiamo affatto di isolare la pronuncia del giudice dai motivi su cui è fondata, il che sarebbe un assurdo. Si può e si deve anzi risalire ai motivi sempre quando ciò sia necessario per stabilire quale sia il bene della vita riconosciuto o negato dal giudice. Così, ad es. una azione di rivendicazione può essere rigettata perché il convenuto dimostra di non avere il possesso, se in questo caso si dovesse aver riguardo al puro fatto che la rivendicazione fu respinta, si giungerebbe al risultato che l’attore, respinto per difetto di possesso nel convenuto, non potrebbe riproporre la rivendicazione contro il convenuto diventato in seguito possessore della cosa; e questo risultato è manifestamente inaccettabile. Ma il concetto di bene è complesso, bene non è soltanto la cosa a cui tendiamo come proprietari, ma è bene, cioè utilità, anche il diritto di conseguire quella cosa mediante la prestazione di quel determinato convenuto. Ora, in questo caso, che è fra quelli di cui si serve il Savigny per giustificare la sua tesi contraria, il bene negato dal giudice non era la proprietà ma il diritto di conseguire la cosa mediante prestazione del convenuto, e quale fosse il bene negato risulta dai motivi della sentenza e non dal dispositivo.
Oltre a ciò i motivi possono avere importanza in vari casi: così, quando la legge eccezionalmente disponga che si ricerchino le ragioni per cui si è deciso, per vedere se il giudizio debba nuocere o no a persone diverse dalle parti in causa. Tale è il caso del venditore non chiamato in giudizio dal compratore; ad esso la legge permette di provare che vi erano sufficienti motivi per far respingere la domanda, e ciò allo scopo di escludere l’azione in garanzia (art. 1497 Cod. Civ.)? Altro caso: una legge interpretativa può dichiarare di togliere valore alle sentenze fondate sopra una interpretazione della legge precedente contraria alla nuova interpretazione autentica, nel qual caso appunto si dovrebbe ricercare su quale interpretazione della legge si fondi la sentenza. Così, in materia di conversione dei beni ecclesiastici, la legge 7 luglio 1866, n. 3036, quanto agli enti conservativi, all’art. 11 così disponeva: “I beni immobili di qualsiasi altro ente morale ecclesiastico, eccettuati quelli appartenenti ai benefizi parrocchiali e alle chiese ricettizie, saranno pure convertiti per opera dello Stato… in una rendita 5%, eguale alla rendita accertata e sottoposta come sopra al pagamento della tassa di manomorta”. Ora accadde che, mentre il Demanio si adoperava a sostenere come la parola “beneficio parrocchiale” non significasse altro che la congrua del parroco, qualche Corte invece si fece ad affermare che, secondo il diritto vigente, tutto il patrimonio della parrocchia sia posseduto dal parroco, sia amministrato da una fabbriceria od opera qualunque, andasse esente dalla conversione. Con l’art. 7 delle Legge 11 agosto 1870, n. 5784 Al. P, si sciolse tale questione con una interpretazione autentica dell’art. 11 della suddetta Legge del 1866, così disponendo: “Le fabbricerie che sieno state dichiarate immuni da conversione per sentenza passata in giudicato vi saranno soggette per effetto della presente legge, salvo i diritti di terzi.” Ma tutto ciò non viene a menomare il principio da noi sopra enunciato che oggetto del giudicato è la conclusione ultima del ragionamento del giudice, e non le sue premesse: l’ultimo e immediato risultato della decisione, e non la serie di fatti, di rapporti o stati giuridici che nella mente del giudice costituirono i presupposti di quei risultati.
33. Conclusione
Sulle risultanze di quanto precedentemente ho esposto, ritengo di poter con sicurezza affermare che il principio contenuto nella regola “Il giudice dell’azione è anche il giudice dell’eccezione” elaborato dalla dottrina francese e passato nel diritto germanico, dove fu sancito in una espressa norma di legge, sia fondamentale anche nel nostro diritto.
Tale regola, come sin dall’inizio fu premesso, non può certamente prendersi alla lettera, stando, più che altro, il pregio suo nel significare come principio assoluto la inscindibilità del processo dell’azione e dell’eccezione.
Come è risaputo, nella nostra legge abbiamo solamente delle norme particolari che riguardano i singoli casi di pregiudizialità. Alcune di queste norme presuppongono il principio di cui sopra, altre invece, per ragioni particolari al singolo caso, se ne allontanano. La regola oggetto del presente studio ha pertanto suo campo di applicazione, come principio generale di diritto, tutti i casi di pregiudizialità per i quali nella legge non è prevista alcuna norma.
Ciò stante, nella nostra legge, le questioni pregiudiziali sorgenti nel processo possono, secondo i casi, avere un diverso trattamento nei seguenti modi:
- a) La questione deve essere conosciuta dal giudice stesso della causa pendente, incidenter tantum, anche se il giudice non sarebbe competente a deciderla in giudizio autonomo. Questa è precisamente la regola che ritengo implicita nel nostro diritto e che, secondo la teorica da me seguita, forma il principio fondamentale per la decisione delle questioni pregiudiziali. – Vi sono inoltre varie disposizioni particolari di legge che fanno applicazione del principio fondamentale ora detto. Fra tali disposizioni sono gli art. 908 e 912; 938 cpv.; 445, 931 cpv. ultimo e 936 C.P.C.; art. 79 Legge consolare 18 gennaio 1866; art. 35 Decreto Luogotenenziale 20 novembre 1916, n. 1664; art. 28 e 30 T.U. sul Consiglio di Stato approvato con R.D. 26 giugno 1924 n. 1054, etc. Quali testi di legge sono stati da me illustrati sotto la lettera B) nel Capitolo “La legge in relazione alla regola”.
- b) La questione deve essere oggetto di una cognizione principale, cioè con effetto di giudicato, e quindi se il giudice della causa pendente non è competente a così conoscerla, deve rinviare l’intera causa, o la sola questione pregiudiziale, al giudice competente per la pregiudiziale. Ciò si verifica anzitutto per volontà delle parti, così dell’attore come del convenuto, i quali possono avere interesse di ottenere, mediante il giudicato, la certezza giuridica sull’esistenza di una volontà concreta di legge (accertamento incidentale). Vi sono inoltre varie norme particolari di legge colle quali il legislatore impone in modo tassativo l’accertamento incidentale, in considerazione o della particolarità della questione, o della specialità del giudice. Così gli art. 72 cpv, 76, 77; 102 cpv, 431, 455; 570 C.P.C. e art. 13 Legge 16 giugno 1892 sui Conciliatori; quali testi di legge sono da me stati illustrati alla lettera A dello stesso capitolo di cui sopra.
- c) La questione può essere oggetto di una cognizione tanto incidentale quanto principale; e se il giudice della causa pendente non è competente per la cognizione principale, può quindi trattenere la questione pregiudiziale per conoscerla incidenter tantum o rinviarla. Presentano, ad es. un caso di questa specie i rapporti fra la giurisdizione civile e la penale, l’art. 20 del vigente C.P.P. permette al giudice penale di decidere controversie pregiudiziali civili, ove non creda di doverle rinviare al giudice civile. Con le questioni affrontate, con i casi dubbi propostisi, con le dimostrazioni in genere da esso date, lo scrivente è lusingato dalla idea di essere riuscito a sgomberare il terreno da ogni ostacolo che poteva sorgere in ordine alla applicazione come principio generale della nostra legge della regola da esso studiata. Se a ciò sarà riuscito, più che a merito proprio, è da attribuire la lode agli illustri scrittori della moderna dottrina del diritto processuale civile, del sapere dei quali egli si è valso per farne applicazione al caso da esso studiato.
Prima di poter termine a questo modesto scritto, sento però di dovere dichiarare, con tutta lealtà, che se anche colla teorica da esso seguita non si credessero eliminati tutti gli inconvenienti che rendono oltremodo difficile la soluzione della questione, non sarà del tutto colpa sua, andandone una parte allo stato attuale imperfetto della legislazione italiana.
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APPENDICE
CORTE DI CASSAZIONE DEL REGNO
Udienza 14 gennaio 1931
Azione civile – Azione di accertamento – Ammissibilità – Requisiti (C.P.C. art. 36) – Competenza civile – Domanda rinconvenzionale – Pagamento di somma indeterminata – Presunzione di incompetenza del giudice adito
È proponibile l’azione di accertamento, in senso positivo o negativo, quando sussista un interesse dell’attore ad assicurare mediante la pronuncia del giudice la coincidenza della volontà della legge con una particolare situazione giuridica in relazione ad una violazione attuale o potenziale del diritto di cui si chiede l’accertamento (1).
È quindi ammissibile una domanda per la dichiarazione di nullità di un contratto di vendita, anche quando non sia congiunta alla domanda di restituzione del fondo alienato ed essa sia proposta innanzi all’autorità giudiziaria del luogo di residenza del convenuto (2).
Quando si proponga, anche in via riconvenzionale, domanda di pagamento senza determinare l’importo della somma richiesta, si applica la presunzione che il valore della causa si di competenza del giudice adito.
È ammissibile l’azione per l’adempimento di una obbligazione sottoposta a termine, in pendenza dello stesso, quando vi sia un interesse legittimo da far valere ed il convenuto si limiti ad eccepire l’insussistenza del diritto preteso dall’attore (Cass. del Regno 19 Apr. 1928).
L’azione di iattanza non va confusa con l’azione di accertamento.
Nella specie è azione di accertamento quella con la quale l’erede del socio di una società chiede dichiararsi nulla una certa sistemazione liquidativa delle proprie ragioni, precedentemente accettata, e ciò allo scopo di potere poi, salvati i suoi diritti, agire contro i soci per quanto gli possa spettare (Cass. del Regno 13 febbr. 1928). L’azione di accertamento, come figura generale e mezzo di attuazione della legge, esiste nel nostro diritto positivo ed è contenuta nell’art. 36 C.P.C. Tribunale di Milano 15 ottobre 1929.
Debbono ritenersi ammissibili nel nostro diritto azioni dirette soltanto ad accertare la reale posizione giuridica in cui le parti si trovano ed a rimuovere così la incertezza e l’ostacolo all’ulteriore esperimento di altre azioni dirette ad ottenere una determinata prestazione.
NOTA (1-2) – Non è la prima volta che la giurisprudenza, né la stessa Corte Suprema, affermano l’ammissibilità nel nostro diritto processuale della figura generale dell’azione di accertamento, quando essa risponda ai requisiti richiesti dall’art. 36 C.P.C. e in particolare sussista nell’attore l’interesse ad agire. Si vedano ad es. le sentenze della Cassazione del Regno del 19 aprile 1928 (Foro It. Rep. 1928, Voce: Azione civile, n. 6) e del 13 febbraio 1928 (ibid. n. 7-9; ed inoltre Tribunale di Milano 15 ottobre 1929 (voce cit. n. 2) e App. Firenze 31 dicembre 1926 (id. Rep. 1927 voce cit. 3). La sentenza riportata qui sopra si fa però notare per la motivazione precisa e perspicua con cui aderisce in sostanza all’insegnamento delle più autorevole dottrina: Chiovenda, Saggi di diritto proc. civ., vol. I, pag. 73 e segg. e Principi, pag. 165 e segg.; Cammeo, L’azione del cittadino contro la Pubblica Amministrazione, n. 5; Rocco Alf., Sentenza civile, pag. 156 e segg.; Carnelutti, Lezioni, II, n. 70. Ma questa sentenza presenta uno speciale interesse perché non si limita ad affermare l’ammissibilità in genere delle azioni tendenti ad un accertamento; essa va più in là in quanto ne consente la proponibilità anche nei casi in cui all’attore spetterebbe anche un’azione tendente alla condanna, e si dubita da taluno che in tale ipotesi l’attore possa limitare la propria domanda al mero accertamento; ma, secondo me, a torto, cfr. in questo senso: Chiovenda, Principi, pag. 175; Liebman, Le opposizioni di merito nel processo di esecuzione, p. 10. Infine quanto alla competenza, sebbene l’azione di accertamento non possa dirsi propriamente un’azione personale, essa va tuttavia esattamente proposta nel foro generale del convenuto (Chiovenda, Principi, pag. 539 e 552). Tutto ciò per le questioni di massima. Nella specie trattandosi della dichiarazione di nullità di una compravendita di un immobile dotale per difetto di autorizzazione del Tribunale, è probabilmente più esatto parlare, anziché di azione e sentenza di accertamento, piuttosto di una azione e di una sentenza costitutiva, perché l’annullamento del contratto si produce solo con la pronuncia del giudice (cfr. su questa figura di sentenza Chiovenda, op. cit., pag. 179 e segg.; Cammeo, op. cit., n. 6; Calamandrei, Studi sul processo civile, I, pag. 246 e segg., Carnelutti, op. cit., n. 71). Tuttavia questa rettifica non induce alcuna differenza pratica né riguardo alla competenza, né riguardo al momento in cui si producono gli effetti della sentenza, perché questo sarebbe comunque uno dei casi in cui la sentenza costitutiva ha effetto ex tunc.
[1-2] Prof. Avv. Ugo Rocco, L’autorità della cosa giudicata e i suoi limiti oggettivi, Athenaeum, Roma 1917, in particolare: Parte II, Sezione I, Cap. I e II.
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