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Già edito dalla ECIG di Genova e attualmente esaurito, il romanzo viene qui riproposto per intero, a puntate.

Se per caso qualcuno dei nostri ventitré lettori e mezzo fosse interessato, ecco il Capitolo 1.

 

1

 

La luce inondava l’aula in quelle mattine di giugno, quando gli studenti della seconda liceo classico rumorosamente vi irrompevano, prendendo posto nei banchi scavati dai temperini di tanti predecessori. Alcuni dei più vecchi recavano forse i segni di coloro che, divenuti ora grandi e importanti, figuravano tra i maggiorenti della città. Ma i ragazzi, né grandi né importanti — non esisteva ancora la “contestazione” —, non si perdevano in meditazioni archeologiche. Un solo pensiero li elettrizzava: “tra poco finirà la scuola”.

 

Mantenere la disciplina diveniva in quei giorni una dura fatica. Espulsioni, minacce, rapporti, non frenavano i più scatenati, quelli il cui rendimento era stato così misero che non avevano più nulla da perdere. Altri all’euforia di quelle giornate univano l’irrequietezza del primo amore: le poche ragazze di quella classe, in prevalenza maschile, erano tutte accerchiate da goffi corteggiatori. Alcuni restavano tranquilli in disparte, ma in generale c’era un’effervescenza mal contenuta, un ribollire d’energie, di confusi propositi, di grandi speranze, di idee bizzarre, d’infiniti castelli in aria, in tutte quelle menti giovanili che già si credevano mature ed esperte.

 

Paolo Donati entrò nell’aula con i compagni una di quelle mattine; sedette nel proprio banco, il secondo della fila di centro, ed estrasse i libri dalla cartella, preparandosi alla lezione. Il sole lo infastidiva e alzò la mano per riparare gli occhi. Sapeva che il disagio sarebbe durato poco: la calda striscia dorata si spostava lentamente verso il banco posteriore. Egli conosceva i grandi cicli naturali solo attraverso la scuola. Non era mai stato in villeggiatura, lusso che i suoi non potevano concedersi, o forse sua madre non voleva si concedessero, perché aveva un sacro terrore di veder calare i magri risparmi, messi da parte centesimo su centesimo. La grande paura: trovarsi “a pan dimandato”, come ella soleva dire, cioè a dover mendicare.

 

Sua madre annotava accuratamente ogni minima spesa su un’agenda, e ogni sera faceva la somma e confrontava il totale coi giorni precedenti, per esser certa che non ci fossero indebiti aumenti o “gonfiori”, come lei diceva, nel rigagnoletto di soldi che ogni giorno, purtroppo, usciva dalla fortezza da lei presidiata, e che le sembrava sempre uno spaventoso dissanguamento. In chiesa era distratta dagli ori delle decorazioni, e si chiedeva: “quanto varranno?”. Peraltro era una donna molto religiosa, e passava molto tempo inginocchiata sulla predella del confessionale a raccontare al prete quante preoccupazioni le dava quel figlio sempre ribelle e “dif-fic-cil-le”: una parola, che per qualche motivo noto a lei sola, pronunciava con un imprecisato numero di consonanti doppie. Per chiamare “bestiaccia” il figlio, cosa che rientrava nelle prerogative di una buona madre attenta alla correzione della prole, diceva “bestia grama”, o meglio “bestia gramma”. Aveva infatti qualche problema con le doppie, e dire che non era neppure sarda.

 

Quando mandava il marito o il figlio a fare una commissione, non si limitava a raccomandare di spendere il meno possibile. Nel porgere la lista della spesa, corredata in ogni punto dalla stima di quanto si doveva spendere, aveva un gesto istintivo: quello di afferrare. Qualunque cosa stesse porgendo a qualcuno, fosse pure un semplice foglietto di carta, l’istinto le ordinava di riprenderselo, non appena l’altro accennava ad allungare la mano per ricevere l’oggetto. La notte, quando era sveglia, calcolava e architettava cosa si potesse fare per risparmiare e accumulare. Forse la famiglia non era tanto povera, ma viveva come se lo fosse, mentre ella carezzava dentro di sé la granitica convinzione di essere l’unico baluardo che si frapponeva tra loro e la totale rovina. In segreto sentiva di meritare il prestigioso titolo di “Salvatrice della famiglia”. Guai se avesse lasciato fare a quel beota di suo marito, capace solo, quand’era a casa, di ascoltare le radiocronache delle partite di calcio: una circostanza che le dava un enorme fastidio.

 

Tutto il mondo di Paolo si divideva tra casa e scuola. In quelle mattine il sole era per lui la striscia luminosa che, attraversando i vetri, rivelava la danza del pulviscolo atmosferico e si spostava via via da un banco all’altro, per tutta l’aula. Questa era uno stanzone dalle pareti intonacate di giallino sino a un metro e mezzo dal pavimento, il quale era di graniglia scura assai consunta e irregolare. Il resto delle pareti e il soffitto biancheggiavano di calce. A chi per caso avesse desiderato tornare a casa col vestito decente conveniva stare alla larga dai muri che regalavano l’intonaco un po’ troppo volentieri. I banchi in tre lunghe file fronteggiavano la cattedra che sulla sua predella sembrava una fortezza assediata. Al di sopra di essa era appeso alla parete un crocifisso, cui ben raramente veniva rivolto uno sguardo. La lavagna nera, sempre coperta di segnacci bianchi mal cancellati, e alcune grandi carte geografiche dai colori un po’ smorti completavano l’arredamento di quel tempio del sapere.

 

Paolo si univa di rado al chiacchierìo dei compagni durante gli intervalli e prima dell’inizio delle lezioni. Non era alto, cosa cui le ragazze sembrano attribuire grande importanza. Aveva capelli biondo-cenere, dorati dal sole in quel momento, i suoi lineamenti erano comuni. Dalla sua persona non emanava alcun fascino particolare. Non possedeva automobile, naturalmente. La mamma non l’avrebbe permessa neppure se fosse stata economicamente alla loro portata. E forse lo era, ma nessuno doveva saperlo.

 

Infine, i difetti di Paolo erano completati dal fatto di essere troppo giovane: altro motivo per cui il gentil sesso non si curava di lui. Era avanti di un anno negli studi, e ciò lo aveva messo a disagio di fronte ai compagni, se non più maturi certo più smaliziati. Sua madre aveva avuto fretta di iscriverlo a scuola, non vedeva l’ora che prendesse la maturità. Nei suoi piani lo aveva destinato a diventare magistrato. Ma Paolo non pensava a cosa avrebbe fatto dopo la scuola. Aveva già abbastanza problemi, anche se la situazione non era più così seria come quattro o cinque anni addietro, quando cominciava ad avvertire i primi turbamenti della pubertà.

 

I suoi compagni l’avevano già superata. Egli non capiva certi discorsi, e spesso ne era sconvolto. Gli altri, scoperto il suo punto debole, ne avevano fatto il bersaglio preferito dei loro scherzi. Il suo carattere si era chiuso sempre più. Il tempo aveva poi rimarginato la piaga. Ma la cicatrice era rimasta. Facilmente Paolo si avviliva: una parola, un’occhiata bastavano a ferirlo. Era figlio unico: sua sorella, che era quasi una seconda mamma, e molto più affettuosa della prima, gli era morta all’età di sedici anni, nel 1944. Era stato il maggior dolore della sua infanzia.

 

In casa parlava poco. Raramente si confidava con sua madre. Temeva di non essere compreso, come di solito accadeva. Finito di parlare e di spiegare qualcosa, era come se non avesse detto nulla. Soprattutto lo tratteneva una sorta di timore misto a vergogna, specie dopo aver udito qualche discorso lubrìco, ciò che a scuola avveniva spesso. Amava gli animali, in particolare gli uccellini, e avrebbe desiderato tenerne uno. Ma sua madre gliel’avevano proibito, perché “le penne in casa portano pene”. Altro buon motivo di timidezza l’oscura “colpa” d’esser nato mancino, “vizio” che ella aveva tentato di estirpare, con ammonimenti e colpi sulle mani.

 

A volte egli sentiva slanci d’amore verso il mondo intero: poter difendere la giustizia, compiere qualcosa di grande e benefico. Poi la fiamma languiva. Amava la solitudine, desiderava la compagnia, ascoltava gli altri, si sognava grande e si ritrovava piccolo. Tutta l’incostanza dell’età si univa a un carattere sensibile e assetato d’affetto.

 

Entrò l’insegnante di lettere e si fece silenzio. Tutti si alzarono in piedi: allora usava così. Era la più anziana e paziente, forte di un’esperienza di tutta la vita, la sola capace d’imporsi senza alzare la voce e senza ricorrere a castighi. Paolo aperse il testo di greco per seguire le interrogazioni dei compagni, ma non vi riuscì. I suoi pensieri erano trascinati da un’onda irresistibile verso la ragazza del banco dietro al suo, che i caldi raggi cominciavano ora a lambire. “Fra poco lo avrà negli occhi,” pensava “ma i suoi capelli splenderanno in pieno sole”. Il desiderio di voltarsi a guardarla e il timore di un richiamo dell’insegnante combattevano in lui. E poi i compagni non l’avrebbero deriso, vedendolo innamorato?

 

Una mano gli sfiorò la spalla. Si voltò di scatto e vide gli occhi scuri, la bocca rosea, i capelli rosso-bruni che ricadevano sulle spalle di Claudia.

 

“Donati, vuoi accostare le persiane, per favore?”

 

Chiesto il permesso all’insegnante, egli si alzò ed eseguì, felice perché Claudia Maltese, la compagna prediletta, si era degnata di rivolgergli la parola. “Devo dirle quello che sento,” pensò “lo devo assolutamente”.

 

Non poteva tenere più a lungo il suo segreto. Ma come esprimersi? Mille volte aveva architettato un discorsino adatto, ma dove trovare il coraggio? e la terribile delusione di una ripulsa? e le beffe degli altri? Forse avrebbe tentato, ma non subito, non subito: l’ultimo giorno di scuola, per non essere più costretto a vedere i compagni, che avrebbero avuto l’intera estate per dimenticare il suo fallimento, invece di seppellirlo subito sotto una montagna di ridicolo. Per il momento si sentì di arrischiare solo qualche timida allusione. Volgendosi cautamente, le sorrise. Fu ricambiato e gli parve di sfiorare la felicità.

 

Il resto della mattinata passò senza nulla di nuovo fino all’ultima ora, quando fu interrogato in storia. La Riforma, un doloroso ma inevitabile passo verso la modernizzazione, la Santa Inquisizione, mamma mia quant’era cattiva, la Rivoluzione francese, il passo decisivo verso liberté, egalité, fraternité. Rispose bene, secondo quanto gli avevano insegnato e c’era scritto sul libro di testo, opera di un frammassone e pubblicato da una casa editrice il cui proprietario era Gran Maestro in una delle più influenti logge dell’Alta Italia, che si era votato ad erudire i pupi perché non prendessero cattive pieghe cattoliche. Paolo, non avendo mai potuto sentire altre campane, credeva a quanto era scritto nel libro, aveva studiato e prese un ottimo voto, felice che Claudia lo vedesse far bella figura.

 

Al momento di uscire si arrischiò a sorriderle di nuovo, ma la ragazza, infida quanto il testo di storia, non lo guardò neppure. Stava discorrendo di un certo profumo con una compagna e non gli badò affatto. Fu per lui come ricevere uno schiaffo, come quando lo picchiavano sulle mani perché era mancino. Se ne andò rapidamente senza guardare nessuno.

 

I compagni che scendevano le scale a precipizio gli sembravano tartarughe. Avrebbe voluto poter volare, per levarsi al più presto di lì. Finalmente fu in strada e si allontanò correndo verso casa. Era l’una, ma non aveva fame. Claudia non l’aveva guardato: una giornata perduta. L’impressione di quel meraviglioso istante, quando lei aveva ricambiato il suo sorriso, doveva essere falsa. Forse, e questo pensiero gli dava un dolore quasi fisico, forse Claudia amava un altro. Cominciò rabbiosamente a passare in rassegna i compagni che le facevano la corte per scoprire il pericoloso rivale.

 

Poi una coppietta che camminava davanti a lui attrasse la sua attenzione. Gli parve un simbolo: la gioia agli altri concessa, a lui negata. Si accorse di camminare troppo in fretta, per l’agitazione che l’aveva preso, e rallentò il passo, mettendosi dietro ai due, che si tenevano per mano. Adesso era spettatore delle loro effusioni. Immaginò Claudia al posto di quella ragazza, ma lei non era contenta, e lo chiamava in aiuto perché la liberasse da un corteggiatore sgradito. Ecco che li raggiungeva con un balzo, ingaggiava una virile e selvaggia lotta col rivale, che infine si abbatteva boccheggiante e sconfitto. Claudia gli apriva le braccia e fuggivano insieme.

 

Spenta la vampata della fantasticheria, ricadde nella realtà. La coppia svoltò in una strada secondaria ed egli si trovò solo nella via inondata di sole. I magri alberi ai lati del marciapiede offrivano poca ombra, disegnata a macchie irregolari sul selciato grigio. Era giunto presso la stazione ferroviaria, quasi a casa. Malvolentieri percorse l’ultimo tratto ed entrò nel portone, avviandosi all’ascensore.

 

Un palazzo abbastanza confortevole il suo, dalle linee diritte e anonime in cemento armato. Le famiglie che vi abitavano apparivano tutte più agiate della sua, o almeno spendevano di più, si vestivano meglio e in gran parte possedevano l’automobile. La famiglia di lui, però, o meglio sua madre, era proprietaria dell’appartamento, acquistato con tutti i risparmi disponibili, riducendosi, come diceva la mammina, “all’ablativo”. Era stato un grande affare: con la medesima somma, ormai, si poteva comprare al massimo un frigorifero. La grande risparmiatrice aveva naturalmente ripreso a raggranellare ogni centesimo, perché, come diceva, “non si sa mai” e “lo stupido e i suoi soldi sono presto separati”.

 

Paolo entrò nell’ascensore e contò, salendo, i soliti quattro piani: un’abitudine come un’altra nella sua esistenza sempre uguale. Ma non era ancora schiavo delle abitudini. A diciassette anni la vita è nuova ogni giorno; ogni giorno reca nuove scoperte e nuove emozioni; immagini e ricordi fluiscono come in una lanterna magica; i castelli in aria hanno colore di realtà.

 

L’ascensore si fermò. Sul ballatoio si aprivano due porte: quella di destra recava la targhetta in ottone col nome “Donati”. Paolo suonò il campanello: tre squilli a uguale intervallo come al solito, quasi un segnale convenuto.

 

Venne ad aprirgli sua madre: di mediocre statura, bionda come il figlio, ancora giovane ma già in declino. Più che le incipienti rughe e qualche capello bianco, l’espressione tesa e affaticata la facevano apparire più vecchia. Indossava un vestituccio liso, pantofole e grembiule. Aveva le mani rovinate della donna che non si concede svaghi e quasi neppure la cura della propria persona: tutte cose che costano.

 

Il marito era la maggior fonte di ansietà e fastidi. Aveva un modesto impiego negli uffici del comune e possedeva un paio di piccoli appartamenti che aveva ereditato da suo padre, ma questi erano affittati, secondo la madre di Paolo, a canoni troppo bassi, e non contribuivano abbastanza al gruzzolo. Il peculio era da mettere da parte, in banca, in obbligazioni, perché rendesse il più possibile col minimo di rischio, e non doveva essere toccato in nessun caso perché “non si poteva mai sapere”. Il marito, secondo lei, spendeva troppo: pretendeva un nuovo vestito anche se l’ultimo era di soli cinque anni fa, e diceva che qualche volta avrebbero dovuto prendersi un giorno, forse addirittura una settimana, di vacanza. Ma non c’era la minima probabilità che una sua opinione potesse mai prevalere.

 

Il padre di Paolo stava tra l’incudine dei colleghi più abili e meglio ammanigliati con l’onnipresente partito, che più volte lo avevano scavalcato nella carriera e il martello della moglie che a casa lo attendeva e sapeva sempre meglio di lui cosa avrebbe dovuto fare e come avrebbe dovuto essere. Sì, era proprio debole, ma se non fosse stato così avrebbe sposato proprio lei? O, avendola sposata, non avrebbe cercato di liberarsene? Questioni difficili, che non sfioravano neppure la mente di Paolo, ancorata al principio che “non si deve giudicare la mamma”, anche se da un pezzo aveva cominciato a trovarla opprimente, per le sue imprevedibili fissazioni maniacali, per la sua violenza verbale, per il modo in cui lo seguiva dappertutto in casa e finiva per sbarrargli continuamente la strada e ostacolare i suoi movimenti. Il figlio era sua proprietà.

 

Così fu anche questa volta. Dopo avergli aperto, lei lo seguì per il corridoio fino alla camera, interrogandolo con minuzia su tutto quanto aveva fatto e visto nella mattinata. Anche se l’appartamento era in un palazzo relativamente nuovo e di buon livello, aveva l’aspetto di una spelonca. L’arredamento era misero, le tappezzerie scialbe e scadenti, i mobili pochi e modesti, e vi erano pochissimi quadretti e stampe, che facevano parte dell’eredità che il padre aveva ricevuto dalla sua famiglia.

 

Nella camera di Paolo, il mobile più importante era lo scaffale in legno chiaro incastrato nel vano della finestra: qui erano i suoi tesori, i suoi prediletti libri: li aveva comprati a poco per volta, risparmiando sulle piccole cose: andava a piedi invece di prendere il tram e si negava perfino l’ombra di gelati o dolci. Ogni volta doveva nascondere i suoi nuovi acquisti e metterli nello scaffale quando sua madre non guardava. Poi seguivano le recriminazioni.

 

“Quel libro prima non c’era. La tua è una mania. Perché butti via i soldi?”

 

“Ma no, mamma, c’era da un pezzo. L’ho solo spostato.”

 

“Smettila di dire bugie. Cerchi d’imbrogliarmi giocando d’audaccia (con due”c”), bestia gramma (con due”m”).”

 

“Ma ti dico di no.”

 

“Cosa sono io in questa casa, lo ‘striglione’ di casa, che non riesco a farmi ubbidire?” “Striglione” (genovese”striggiun”) è colui che pulisce, o striglia, i pavimenti.

 

E via di questo passo. Niente doveva sfuggire agli occhi della mammina, e specialmente non dovevano uscire lire dal peculio. E se fossero ancora esistiti i centesimi, neppure quelli.

 

In quali sciocchezze librarie dissipava il peculio, quel notorio scialacquatore di Paolo Donati? fumetti, gialli, romanzetti, pornografia? Non proprio. Anzitutto la sua biblioteca includeva i libri scolastici degli anni precedenti che, a differenza di molti suoi compagni più agiati, si era ben guardato dal vendere, e che ogni tanto consultava ancora. Quelle erano state spese inevitabili, alle quali persino la signora Donati non aveva potuto sottrarsi, pur lamentandosi del prezzo eccessivo dei testi scolastici, perché il figlio doveva pur frequentare la scuola. Poi c’era una serie di edizioni economiche: volumetti divulgativi su ogni ramo della scienza. Libri d’avventure? solo qualcuno che era appartenuto a suo padre. Preferiva fabbricarsele da sé le avventure fantastiche, altrimenti a che serve la fantasia?

 

A casa, accaldato dopo una corsa fatta per risparmiare i soldi del tram, spesso si ritirava nella sua camera a leggere, nei limiti permessi dalla continua, amorevole sorveglianza della mammina. Lo interessavano soprattutto le scienze che trattavano l’uomo sotto i più vari aspetti: antropologia, medicina, psicologia, sociologia. L’essere umano, creato a immagine e somiglianza di Dio, racchiudeva ai suoi occhi i maggiori segreti dell’universo.

 

Per il resto, la stanza di lui conteneva le solite cose: un armadio, un comodino con una piccola vecchia sveglia a molla, il letto sovrastato da un’oleografica immagine sacra, un paio di sedie parecchio scomode, un tavolo ingombro di libri e quaderni; vicino ad esso erano appesi al muro un calendario e un foglietto di carta fissato alla parete con due puntine da disegno, su cui Paolo aveva tracciato lo schema dell’orario scolastico per averlo sempre sotto gli occhi e perché sua madre potesse sapere, in ogni momento della mattinata, mentre lavorava in casa, cosa stesse facendo suo figlio. Era stata lei a suggerirgli, anzi a ordinargli, di scriverlo e appenderlo lì.

 

La linea dei mobili era uniforme e anonima, il colore una tinta neutra fra l’ocra e il marrone. La tappezzeria gialla chiarissima, con un tenue disegno di radi fiorellini sbiaditi, recava macchie scure intorno all’interruttore della luce e negli altri punti dove più facilmente accadeva di toccarla. Le macchie erano fonte di occasionali rimproveri della mamma, preoccupata per le tappezzerie. Sostituirle costava e bisognava conservarle al massimo. E poi ritappezzare la casa sarebbe stato un grande fastidio e uno scombussolamento delle sue tranquille abitudini. Era chiaro che quell’abitazione non avrebbe mai conosciuto interventi migliorativi, finché lei comandava. E poi ci sarebbe stata la necessità, per lei, di “strigliare” i pavimenti per lo sporco che i lavori avrebbero causato.

 

Il pavimento della camera era coperto da un tappeto, che una volta aveva forse sfoggiato smaglianti colori. Alle pareti, piccoli quadri con stereotipate vedute di marine e campagne. Il vano, rivolto a oriente, era invaso dal sole la mattina, quando Paolo era a scuola, e un po’ buio il pomeriggio, quando era costretto a starci per studiare. Qui egli consumava la migliore parte della gioventù, e non se ne lamentava. C’era già la mamma a lamentarsi continuamente di tutto.

 

Anche quel giorno, come sempre, si cambiò e ripose gli abiti con riguardo, altrimenti erano guai. Poi gettò uno sguardo alle lezioni, prima di essere perentoriamente chiamato per il pranzo. Si affrettò a ubbidire. Suo padre intanto era tornato dall’ufficio e la famiglia fu ben presto riunita in cucina.

 

Il padrone di casa era di mezza età, ma già coi capelli bianchi e lo sguardo assente. In casa, di solito, non lo si sentiva fiatare. Talvolta suonava brani di opere in vecchi dischi sul grammofono a manovella. Aveva dapprima sperato che il figlio divenisse ragioniere come lui, ma i consigli degli insegnanti lo avevano persuaso a lasciare che scegliesse il liceo classico, e soprattutto avevano persuaso sua moglie: colei che alla fine decideva per tutti. Era a quel tempo che la signora Donati stabilì che suo figlio si sarebbe laureato in giurisprudenza e avrebbe fatto il giudice.

 

Allo scoppio della guerra, il padre di Paolo aveva superato i quarantacinque anni e ciò, oltre a un principio d’ulcera (che in seguito s’era assai aggravata), gli aveva sbarrato la via alla gloria militare. Benché la città fosse stata duramente colpita dai bombardamenti, il palazzo nel quale abitavano era rimasto miracolosamente intatto. Il cataclisma aveva infuriato intorno ai Donati senza colpirli direttamente. Ma era morta la figlia, che forse in tempi normali avrebbe potuto salvarsi: dopotutto si era trattato solo di una polmonite, e senza tutte quelle fughe verso il rifugio antiaereo, sotto i bombardamenti, nel gelo dell’inverno, avrebbe potuto riprendersi. Il padre l’adorava, e quella disgrazia gli aveva inflitto un colpo ben più duro di quel che la sua maschera d’indifferenza lasciasse trasparire. La sua apatia era aumentata. Ma non avrebbe saputo dire: “soffro”. Non ne era capace.

 

A tavola si parlò poco. Paolo continuava a pensare alla “sua” Claudia, ripassando nella memoria tutti gli atteggiamenti di lei, quasi fosse una lezione da imparare. Finito il pranzo, andò a chiudersi in camera e si concentrò sul libro di scienze. Come sempre, il suo interesse aumentava man mano che si accorgeva di conoscere meglio la materia. L’energia nello studio gli era moltiplicata dal timore di sfigurare davanti a Claudia.

 

Dopo due ore si concesse un po’ di riposo e si mise alla finestra. Moto, biciclette, automobili passavano per la strada. Un camion traballante carico di verdura perdette un cespo d’insalata: quel colore verde tenero spiccava sul selciato a cubetti di porfido; poi un’auto lo schiacciò. Una farfalla variopinta svolazzava sul giardino di fronte. Il gran caldo era appena mitigato da una brezza tiepida. Il tempo scorreva, segnato dal ticchettìo della sveglia, che i rumori della strada non giungevano a coprire.

 

“Ecco,” pensava Paolo “le stagioni si rincorrono come un gatto che cerchi di acchiapparsi la coda, gli uomini invecchiano e scompaiono; un giorno anch’io… e anche Claudia…”. Tentò di raffigurarsi Claudia vecchia e subito se ne ritrasse. Nulla gli pareva così tremendo come la vecchiaia: veder scomparire salute e bellezza sotto una maschera di squallore. La morte… la sua immaginazione di ragazzo la trovò preferibile. Nonostante il doloroso ricordo della sorella, non temeva la morte: la sentiva come qualcosa di lontano, che non lo toccava direttamente; per contrasto ne era affascinato, vedendo che i “grandi” ne parlavano come di una cosa terribile. Talvolta si perdeva a fantasticare su quel che si sarebbe detto di lui da morto: altissime lodi, naturalmente, poiché il suo nome era immacolato e, anzi, sperava di lasciare dietro di sé qualcosa di buono e grande.

 

Amava immaginare qualche gravissimo frangente; una rovinosa alluvione, o un nuovo vulcano che d’improvviso spuntasse vicino alla città, minacciando d’inghiottirla come Pompei. Egli da solo salvava tutto con una diga mobile di sua invenzione, o con una polverina da lui scoperta, capace di consolidare all’istante la lava, ma sempre perdendo la vita nell’eroica impresa.

 

Tutti lo piangevano e gli innalzavano un superbo monumento in bronzo sulla piazza principale. Claudia veniva a tagliarsi la bellissima chioma rosso-bruna sulla sua tomba. Il pensiero della ragazza, di solito, dopo averlo lanciato nel sogno ad occhi aperti, lo restituiva alla realtà. Così anche ora, dopo aver salvato la città e il mondo dalla terribile invasione delle astronavi calate dal pianeta X-12, a prezzo della vita, naturalmente, con relative onoranze postume, pensare a “lei” lo riportò sulla terra. I sogni di gloria svanirono.

 

Sedette di nuovo a tavolino lasciando la finestra aperta e cominciò una traduzione dal greco. Studiò fino a sera. Venne l’ora di cena, preparò la cartella, augurò la buonanotte ai suoi e andò a coricarsi. Sua madre venne a controllare lungamente che tutto fosse in ordine.

 

Una giornata come tante altre.

 


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