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Paolo era assai timido: chiunque se ne accorgeva a prima vista. Per lui, così immerso in quella vita fra casa e scuola, fra l’isolamento dello studio e le costrizioni materne, la timidezza era un’invalicabile barriera: come capire lo stato d’animo degli altri? l’effetto delle proprie parole? ciò che si poteva dire e quello che conveniva tacere? come adattare il comportamento alle circostanze? — Il suo era un mondo di libri, di riflessione, di fantasie. Quando cercava di esternare i suoi pensieri, spesso profondi, i compagni si annoiavano o ridevano. Essere il primo della classe, o comunque costantemente fra i primi, non lo rendeva popolare. L’invidia era sempre in agguato. E i “grandi”, che forse lo avrebbero capito, o almeno alcuni di loro, erano così lontani.

Quando tentava di attaccare discorso con Claudia su un bell’argomento come la caduta dell’impero bizantino, la vedeva appartarsi a ridere con la compagna di banco, Marta, una piccoletta dal viso ovale, con lisci capelli neri, che talvolta faceva tardi a scuola, per pigrizia. Quando Paolo discorreva con Claudia, Marta cercava di distrarla, e lui considerava ciò un gesto ostile. In realtà la ragazza conosceva l’“amica” e aveva imparato a commiserare i ragazzi che se ne innamoravano, specialmente Paolo, che appariva così indifeso.

Come tutte, Claudia si lasciava corteggiare solo da quelli che la divertivano, ma era il penultimo giorno di scuola e la tentazione di arricchire la collezione di cuori infranti fu irresistibile. Quella mattina, durante l’intervallo, mandò via Marta con una scusa e si appartò nel corridoio. Un istante dopo, come previsto, Paolo era già vicino a lei.

“Ti disturbo?” domandò. Vedendola sola immaginava che fosse immersa in chissà quali meditazioni.

“Oh, no”, fu la risposta, ornata da un sorriso incoraggiante.

“Volevo dirti una cosa.”

“Ah, sì?”

“Ma non qui.”

“Va bene. Andiamo sul terrazzo, lì nessuno ci sente.”

Quando furono soli in un angolo:

“Claudia, la scuola sta per finire…”

“Me ne sono accorta anch’io.”

“Sì, ma vedi… ecco… io vorrei…”

Sentendo di fare una magra figura, Paolo arrossì e cercò affannosamente nella memoria qualche brandello del bel discorso preparato con tanta cura. Claudia lo fissava, godendosi ogni momento della sua confusione, e facendo non poco sforzo per non mettersi a ridere. “Ecco,” riuscì a dire alla fine “vedi, vorrei che noi ci vedessimo ancora.”

Uno dei compagni, un certo Icardi, si avvicinò:

“Che ne direste di venire a casa mia questo pomeriggio? Facciamo un po’ di musica. Ne vengono già un mucchio di quelli della vecchia banda.”

La “vecchia banda” era poi tutta la classe, con l’eccezione dei ripetenti, che erano alquanto emarginati.

Paolo si sentì montare il sangue alla testa contro quel guastafeste, ma poiché Claudia aveva accettato l’invito, gli parve di dover acconsentirvi anche lui. In quell’istante suonò la fine della ricreazione. Aveva ancora tante cose da dire: provò a scriverle, e sulla carta le parole si disponevano facili, ubbidienti. Ma poi rifletté che il suo bigliettino sarebbe stato letto anche da Marta e forse anche da altri, e lo stracciò in minutissimi pezzi, che si ficcò in tasca per gettarli più tardi per la strada, in qualche tombino.

Il resto della mattinata trascorse fra chiasso e indisciplina, senza costrutto. Paolo si avviò verso casa, infastidito. Aveva dovuto scartare l’idea di chiedere a Claudia il permesso di accompagnarla, perché la ragazza se n’era andata a braccetto con l’amica, parlandole fitto fitto e ridendo con aria di trionfo. Ma poi egli rifletté che l’invito di Icardi gli offriva un’altra occasione di aprirsi con l’oggetto della sua appassionata adorazione, e il disappunto svanì. Per strada rivide la solita coppietta: questa volta lei aveva una caviglia fasciata e zoppicava appoggiandosi all’innamorato. Ed ecco i suoi sentimenti verso i due mutarono: niente più invidia ma gioia: c’era amore nel mondo, la speranza non era vana.

Arrivato a casa, chiese a sua madre il permesso di recarsi alla festa. Lei tirò su col naso — il suo modo per indicare fastidio — ma non disse di no. Euforico ed eccitato, Paolo indossò con la massima cura l’abito migliore, che non era poi niente di speciale, solo un po’ meno liso degli altri, e uscì di volata. Nello slancio sbagliò strada e dovette compiere un lungo giro prima di arrivare.

La casa di Icardi sorgeva nel quartiere elegante, circondata da viali alberati e giardini. Paolo fu incerto nella scelta dell’ascensore, e finì per prendere il montacarichi: era così bello che sembrava fatto per i cristiani. Prima ancora di suonare alla porta dell’appartamento, sentì voci confuse e un giradischi al massimo volume. Alcune coppie ballavano, la maggior parte dei ragazzi preferiva chiacchierare e ascoltare il frastuono del giradischi, qualcuno fumava. Era per lui la prima festa, e i compagni non gli parevano neppure più gli stessi a vederli così, fuori della scuola, spensierati, liberi.

Ecco Zanelli, quello che aveva sempre le unghie lunghissime, perché gli dava fastidio tagliarsele. Quando era interrogato, prima di ogni risposta gli sfuggiva un prolungato: “Eeeeeee…” di dubbio e incertezza: le parole gli venivano lente, stentate; era teso, nervoso, facile al rossore. Adesso invece parlava, parlava, tutto eccitato e contento, perfettamente a suo agio. Lo studio non era il suo forte.

Paolo sentiva per lui una certa simpatia. Forse ne avrebbe provata un po’ meno se avesse saputo quel che Zanelli diceva di lui:

“Oggi Donati ha dato spettacolo.”

Lo ripeteva ogni volta che Paolo prendeva un bel voto a un’interrogazione, appena tornato a casa. Per lui ogni successo dell’altro era una forma di esibizionismo. Lo ripeteva piano al vicino di banco quando quello veniva interrogato:

“Un’altra esibizione.”

Adesso era lui a dare spettacolo, infilando una sciocchezza dopo l’altra, con la sua voce nasale, sprofondato nella poltrona, le lunghe gambe accavallate, gli occhi grigi accesi dall’eccitazione, le guance in fiamme. Ma nessuno avrebbe malignato: i suoi voti ispiravano ben poca invidia.

Più degno di stima era Elio Belmonte, con il quale invece Paolo tardava a far lega, essendo ambedue di carattere chiuso. Elio era di bassa statura, capelli e occhi neri, lineamenti un po’ irregolari. Troppo sensibile. Appena i compagni davano la stura alle chiacchiere sul sesso, si allontanava a capo basso, con aria quasi di colpa. Ciò destava la loro ilarità.

“Mammoletta” lo chiamavano.

E ridevano, e lo prendevano in giro. Erano ragazzi senza “complessi”, modernamente “educati”.

Fra tutti, l’unico per cui Paolo nutrisse vera amicizia era Andrea Falco: un tipo minuto, vivace, facile allo scherzo, che, per quanto un po’ invidioso dei voti altrui, cercava di nasconderlo e, in fondo, si accontentava della semplice promozione. Paolo gli era assai utile, perché non mancava mai di spiegargli quello che non aveva capito. Lo studio gli pesava e preferiva il cinema: aveva una particolare abilità nel raccontare i film, e non la trama soltanto, ma le scene ad una ad una, con vivezza e precisione, rifacendo i gesti degli attori.

A ricreazione teneva circolo. Paolo provava un vero piacere ad ascoltarlo, poiché non andava mai al cinema. Infatti sua madre, al minimo suggerimento di una spesa non rigidamente necessaria, tirava fuori i ritornelli del “non si sa mai” e del “pan dimandato”. Anche adesso Andrea era impegnato in uno dei suoi racconti, ritto in piedi perché star seduto era un tormento per lui, circondato dal solito crocchio di compagni, ai quali stava spiegando come avesse fatto lo sceriffo da solo a sterminare un’intera banda di fuorilegge. Paolo ascoltava sempre quei racconti rapito, e anche quella volta si avvicinò ad ascoltare, ma mentre il capo dei banditi fingeva di volersi arrendere al braccio della legge e mandava nel frattempo i suoi uomini ad aggirare lo sceriffo alle spalle, e questi, accortosi con mirabile perspicacia del vile inganno, attendeva a piè fermo dietro una roccia con il Winchester spianato, ecco che squillò il campanello e Claudia, sorridendo trionfalmente, fece il suo ingresso nella festa.

Per Paolo svanirono di colpo sceriffi, pistole, banditi, e le andò dritto incontro. Era davvero graziosa, nel suo semplice abitino rosso. Il fiato gli mancò nel guardarla. Ma non era il solo che la stesse aspettando: tre o quattro compagni l’accolsero con grandi sorrisi e le fecero corona, fra essi Icardi che le aveva aperto la porta. Claudia era gentile con tutti, accettava con naturalezza ogni premura come cosa dovuta. Icardi la invitò a ballare e a Paolo non rimase che guardare da lontano il compagno più ricco e fortunato cingerle la vita e portarsela via. Sconforto e umiliazione lo invasero: non sapeva ballare, non aveva denaro, non era né bello né alto. Desiderò esser lontano e si mise in un angolo, fingendosi indifferente.

“Be’, Donati, come te la passi?”

Paolo levò gli occhi: era Andrea. “Che vuole questo seccatore?” pensò, e rispose:

“Non c’è male.”

“Sei promosso di sicuro anche quest’anno, vero?”

“Sì, credo”, mormorò Paolo. Ecco: Claudia con la testa rovesciata all’indietro rideva delle spiritosaggini di un ragazzo bruno e prestante.

“Io sono preoccupato per matematica”, soggiunse Andrea.

“Davvero?”

“Non ho avuto fortuna nell’ultima interrogazione. Quanto mi avrà dato? che ne dici?”

“Che cosa?” Miracolo. Era libera. Piantando in asso l’amico, Paolo si avvicinò a lei. Ma cosa dirle? la sua anima traboccava e la sua bocca era arida.

“Come stai?” riuscì a spiccicare, quasi che non l’avesse vista a scuola poche ore prima.

“Bene”, rispose lei con un piccolo sorriso, e attaccarono la più banale delle conversazioni. Sì, faceva bel tempo; già, le vacanze erano una bella cosa.

Un ragazzo la invitò a ballare e se la portò via, mentre Paolo stava ancora parlando. Ne fu avvilito e infuriato: immaginò di essere alto, atletico, forte, anzi fortissimo. Quello era un covo di spie che avevano rapito Claudia e lui un agente segreto. Entrava col mitra sotto il braccio, cauto e silenzioso come una pantera. Pochi minuti di ferocissima lotta e tutte le spie cadevano crivellate di colpi. Claudia, salva per il suo eroismo, gli si precipitava fra le braccia. Il comandante in persona, il più importante di tutti, lo faceva chiamare per conferirgli di persona una speciale decorazione e per dirgli…

“Un po’ d’aranciata, Donati?”

Tutto come prima: festa, muri, compagni, poltrone, mobili, bicchieri, bottigliette, giradischi che assordava, e Claudia che se la spassava con gli altri.

“Sì, grazie.”

“Meno male. È la terza volta che te lo chiedo.”

Mentre sorseggiava la bibita, Paolo pensò di tentare con Claudia un invito al ballo. Immaginava che avrebbe fatto una figura meschina, ma poteva tenersi in disparte mentre gli altri le parlavano, la prendevano tra le braccia, gioivano della sua compagnia? Appena il disco finì, mise in atto l’idea, ma credette suo dovere avvisarla della propria assoluta inesperienza.

“Non importa: ti insegno io”, ella rispose con l’abituale sorriso, che andò dritto al cuore di Paolo.

Per nulla imbarazzata, gli mostrò come doveva abbracciarla, ed egli, al contatto di lei, fu scosso da un brivido. Mentre Claudia lo guidava con grazia, si sentiva un bastone, rigido, emozionatissimo. Che avrebbero detto i compagni delle sue goffe zampate? cosa ne avrebbe pensato la “dolce fanciulla”? E sua madre? perché mai gli veniva da pensare a sua madre? avrebbe detto che era “scosso”, che nel suo modo di parlare significava “non proprio a posto con la testa”. Pensare a sua madre gli faceva sempre l’effetto della testa di Medusa. Cominciò a pentirsi della propria audacia. Volle dire qualcosa per nascondere l’imbarazzo. Poi gli venne alla memoria di aver letto da qualche parte che “la donna si conquista con lo sguardo”, e tentò di esprimere con gli occhi quello che non osava dire a parole: l’amore in cui aveva riposto tutto il suo sentimento vergine, intatto.

Claudia lo guardava pensando: “Sembra un pesce bollito”.

Alcuni compagni non mancarono di notare quell’atteggiamento di adorazione. Ce n’erano due che, appoggiati al muro con le mani in tasca, fissavano con insistenza Paolo e Claudia. Uno, il più piccolo della classe, nero di occhi e di capelli, con un gran ciuffo impertinente sulla fronte; l’altro, circa della stessa statura di Paolo, aveva tratti meno marcati e aspetto più composto, un sorriso vacuo sempre dipinto sulla faccia. Quest’ultimo si chiamava Leonida Motterini, un pluriripetente, invitato alla festa per misericordia, dato che piativa sempre per non essere escluso. Il nome dell’altro non è stato tramandato alla storia. I due tizi cominciarono a ridere e far commenti sulla nuova coppia.

Paolo, tutto preso dalla vista, dal contatto, dal profumo di Claudia, non si accorse di nulla. Ma la ragazza vigilava sempre, captando, per una specie di sesto senso, ogni sfumatura. Subito s’irrigidì e, poiché dava gran peso alle chiacchiere, fu pentita di aver accettato fra i suoi numerosi corteggiatori, un tipo così goffo: come aveva fatto a non prevedere che un po’ di ridicolo sarebbe ricaduto su di lei? Ebbe cura di mostrarsi subito più gelida, cosa che le riusciva a meraviglia, e di piantare in asso il compagno appena possibile. Intanto era ormai certa della nuova conquista. Poteva già vantarsene con le amiche e — a pensarci bene — quel ragazzo era così svenevole, così scioccamente sentimentale… Cos’è il sentimento nell’era delle macchinette a gettone?

Il voltafaccia di lei ferì Paolo crudelmente. Si guardò intorno: tutti si divertivano. Fra tanti coetanei era solo.

“Forse non so esprimermi,” pensò “forse li annoio: ecco perché nessuno mi guarda”. E si sentì oscuramente umiliato, come se l’avessero sorpreso in flagrante colpa. Come se sua madre fosse lì a gridare: “Vita maledetta”, uno dei suoi ritornelli favoriti, che spuntava ogni volta che lui la deludeva. Era assetato d’amore, senza nulla cui attaccarsi.

Intanto Leonida e l’altro si erano stancati presto di ridere alle sue spalle e avevano rivolto altrove l’attenzione del loro fertile spirito. L’arrivo di Marta fece svanire ogni speranza di colloquio con Claudia: l’amica se l’accaparrò subito con un fiume di chiacchiere. Paolo cercava ugualmente di starle vicino, e la seguiva, facendosi piccolo piccolo in mezzo al chiasso e alle risate degli altri. A un certo punto si trovò insieme a una decina di compagni, fra cui Claudia e Marta, intorno ad Andrea Falco che raccontava una barzelletta, prodigando la sua più irresistibile mimica, con la quale anche le storielle più sciocche diventavano accettabili:

“Un ragazzo e una ragazza, tutti e due in bicicletta, in una strada di campagna, superano un gruppo di amici che camminano a piedi. Poco dopo il ragazzo torna indietro solo, con le due biciclette. Gli amici lo fermano e domandano dov’è la ragazza. E lui: “È rimasta più su, in un prato”. “Ma perché?”. “Ecco, il fatto è che, quando siamo arrivati in un posto solitario, lei si è gettata a terra e mi ha detto: “Prendi di me quello che vuoi”, e io mi son preso la bicicletta e il suo orologino d’oro”.

Mentre Marta e Claudia fingevano di non capire, i ragazzi si buttavano via dalle risate, compreso Paolo, che in verità non aveva afferrato troppo bene il sale della storiella, ma temeva la derisione che i compagni non avrebbero certo risparmiato alla sua ingenuità.

Con un movimento incomposto, qualcuno aveva gettato all’aria i pezzi di un gioco di scacchi pronto su un basso tavolino. Mentre Paolo, che non sapeva cosa fare, li rimetteva a posto usando la mano sinistra, udì una voce:

“Ma tu sei mancino.”

Era uno spilungone, uno degli ultimi della classe, abbonato alle bocciature.

“Sì,” rispose Paolo, a disagio “te ne accorgi solo adesso?” Nella sua mente si formò immediatamente l’immagine di sua madre. “Vita maledetta”. ”Maledetto il giorno, l’ora, il minuto che son nata”. “Sono proprio lo striglione di casa, che nessuno mi dà retta”. “Ma sei proprio scosso”. “In una vita precedente dovevo essere Gengis Khan” (non sapeva con precisione chi fosse questo Gengis Khan, ma doveva essere stato molto cattivo; né aveva idee chiare sulla reincarnazione, ma una cattiva esistenza precedente le sembrava spiegare la punizione di un figlio mancino che non riusciva a raddrizzare). Tutta una panoplia delle sue espressioni favorite.

“Con l’abitudine della scuola… sai?” replicava lo spilungone per giustificare il fatto di non essersi accorto prima del “vizio” di Paolo.

Ormai la freccia era partita, ed altri cominciarono ad occuparsi del curioso fenomeno. Era una classe appassionata alle scienze naturali.

“Dipende dai nervi,” sentenziò Acerra, un biondastro occhialuto, dal volto coperto di pustole, che aveva la media dell’otto in tutte le materie scientifiche.

“Ma i mancini non sono mica nevro… nevrotapici. Ti sembra che lui sia nevrotapico?” intervenne Icardi, che amava le parole difficili, specie quelle che non capiva.

“Si dice nevropatico, che significa…” cominciò Acerra.

“Scosso”, pensò Paolo, che aveva sempre davanti a sé il fantasma ringhiante della madre.

“… ‘sofferente nei nervi’, in pratica una persona con disturbi mentali, che non è proprio il nostro caso…” continuava Acerra serio serio, col tono del primario di fronte allo studente ignorante “in qualche punto i fasci nervosi della parte destra del cervello passano a sinistra…”

“… ‘emisfero’ si dice, non parte…” corresse qualcuno ancor più primario di Acerra.

“… e quelle della sinistra passano a destra…” continuò Acerra imperterrito (non aveva neppure sentito) “così, se adoperi meglio la mano destra vuol dire che nel tuo cervello comanda la metà sinistra e viceversa… dipende dalle fibre nervose, da come s’incrociano le fibre… che c’entra la nevropatia?” concluse trionfante.

“Ma perché una parte deve comandare? non possono andare d’accordo?” osservò Marta, con finta ingenuità. Quella spiegazione le sembrava ridicola, per il tono saputello con cui veniva pronunciata. Lei ci si divertiva e voleva provocare Acerra, indurlo a continuare lo sproloquio. E lo sproloquio continuò, con una lunga spiegazione dell’anatomia del cervello, con il cervelletto, il midollo spinale, i bulbi, i gangli, i neuroni e tutto il resto. I compagni cominciavano ad annoiarsi, e Motterini volle introdurvi uno dei suoi brillanti scherzi:

“Fibre, eh? non sapevo che fossi un tipo fibroso, eh, Donatello, ih, ih, ih.” Vedendo che nessuno rideva, s’allontanò fischiettando con aria di sovrana indifferenza.

“Io ho mia madre che è mancina, anzi ambidestra,” osservò Falco “avrei potuto esserlo anch’io, perché mi ricordo d’aver letto che la cosa è ereditaria.”

“Io non vorrei esserlo”, asserì Zanelli.

“Perché?” volle sapere Falco.

“Così… non vorrei essere diverso dagli altri… non vorrei dare spettacolo…”

Era proprio quello stava pensando Paolo. Avrebbe pagato qualcosa, se avesse avuto qualche lira, perché i compagni cambiassero bersaglio, specie ora che Claudia si era messa ad osservarlo, con un misto di ironia e di compatimento. Ma gli sollevò lo spirito la risposta di Falco:

“E con questo? Leonardo da Vinci era mancino.”

Finalmente si decisero a parlare d’altro: progetti per le vacanze, calcio, canzoni. Prevalse ben presto la passione emiliana per i motori. Alcuni di quei ragazzi, appena varcati i diciotto anni, avevano preso la patente, precocità che nel 1950 (l’auto, anche se andava rapidamente diffondendosi, rappresentava ancora un lusso) era piuttosto rara. Icardi e Zanelli, cui i genitori avevano già concesso un’automobile tutta per loro, cominciarono a vantarne i pregi. Un altro raccontò la storia di quando s’era trovato al volante della macchina di papà, presa senza permesso, al passo del Bracco sotto la pioggia e con la benzina a zero e aveva fatto la discesa a motore spento fino al distributore più vicino, mentre la ragazza che lo accompagnava, alla quale aveva promesso di far provare l’emozione di una corsa in auto, giurava solennemente, verde dalla paura, di non metter mai più piede su un veicolo a ruote.

Qualcuno, più intellettuale, preferiva a queste chiacchiere appartarsi a parlare di musica — altra passione emiliana. Paolo si unì a questo gruppo, nel quale erano Belmonte; un certo Marchisio che riusciva benissimo in lettere e aveva quattro in matematica, ed era stato “destinato” dai lungimiranti genitori alla facoltà d’ingegneria; e Giovanni Lucchese, un tipo capace di ascoltare musica classica per dodici ore consecutive, finché il giradischi non era sul punto di fondersi, e, siccome i suoi condividevano la stessa passione, in quella casa si pranzava al suono della Pastorale di Beethoven e si facevano i compiti con Mendelssohn, Smetana, Bach e Vivaldi.

“Paganini è trascurato,” asseriva Lucchese “nemmeno metà delle sue composizioni è conosciuta, eppure è un grande compositore, non solo un virtuoso.” Parlava quasi con irritazione, come se gli avessero inflitto un affronto personale. Ogni tanto sentiva il bisogno di partire, lancia in resta, in difesa di qualche autore secondo lui non abbastanza apprezzato. Una volta, mentre leggeva una storia della musica, aveva scaraventato il libro contro il muro perché l’autore aveva osato mettere sullo stesso piano il divino Brahms e Berlioz. Quest’ultimo era un grande compositore, certo, ma non da potersi paragonare al sublime genio di Amburgo. Considerava Weber superiore a Wagner, cosa del resto normale, perché Wagner è popolare a Bologna, città che, pur essendo la più importante della regione, non capisce nulla di musica.

“Veramente” obiettò Marchisio “non mi sembra tanto eccelso. È tutto tecnica. Tolta quella, addio.”

“Ah, sì?” ribatté Lucchese “qualunque artista è finito senza la tecnica, senza l’umiltà dell’artigiano. Lo stile è conseguenza di una perfetta padronanza della tecnica, in qualunque arte, non solo nella musica. Senza la complessa tecnica della ciaccona l’ultimo movimento della Quarta di Brahms sarebbe molto diverso e quasi certamente inferiore. Beethoven ha rifatto più di duecento volte uno dei temi della Nona. Rossini diceva: ‘Il genio è sgobbare’.”

Mentre la discussione continuava in tono un po’ acceso, Paolo ascoltava ammirato i compagni, e specialmente Lucchese, che, in fatto di musica classica aveva una cultura senza fondo. Al tempo stesso si rammaricava di non possedere neppure un giradischi. Il grammofono paterno a manovella e i pochi dischi a settantotto giri di musica operistica di suo padre lo interessavano relativamente. Doveva accontentarsi di qualche concerto alla radio, ma questo svaniva nell’aria, lasciando in lui una dolcezza che non avrebbe provato mai più, perché chissà quando il medesimo pezzo sarebbe stato eseguito di nuovo. Ma un giradischi no, perbacco, un lusso sfrenato del genere era fuori questione; e che? si voleva forse ridurre la famiglia “a pan dimandato”?

Si andava facendo tardi, e qualche coppietta cominciò a ritirarsi negli angoli. Un profondo malessere si stava impadronendo di Paolo: i suoi occhi si volgevano continuamente a Claudia, mentre tutto il resto diventava insignificante. Grazie al cielo, non la vedeva appartarsi con nessuno: che avrebbe fatto se questo fosse accaduto? cosa poteva fare? meglio non pensarci. Le smaglianti fantasticherie non venivano come al solito a dargli sollievo: nessuna città da salvare, nessun atto eroico, niente.

Icardi, vedendo che qualcuno si annoiava, come sempre avviene in una compagnia prevalentemente maschile, in cui pochi trovano compagnia femminile e gli altri restano a bocca asciutta, propose il gioco “della bugia”. Parecchi sedettero intorno al tavolo più grande, sgombrato alla meglio da bottigliette, bicchieri, vassoi, portacenere. Anche Claudia si unì al gruppo. Paolo la seguì cercando di mettersi al suo fianco, ma altri lo precedettero e, in mancanza di meglio, a lui non rimase che sedersi al lato opposto del tavolo, per averla almeno di fronte. Icardi mescolò due mazzi delle apposite carte dalle figure multicolori e le distribuì. Ogni carta rappresentava un oggetto diverso, ma legato ad un certo tema. I temi erano cinque, cui corrispondevano altrettanti gruppi di carte.

Il primo giocatore a destra di Icardi mise sul tavolo una carta con la figura coperta, dichiarando a quale gruppo apparteneva. Gli altri continuarono il giro, deponendo una carta coperta ciascuno, sempre del medesimo gruppo, se possibile. Chi ne era privo doveva metterne giù una qualunque, ma a suo rischio, perché bastava che un giocatore gridasse “bugia” per costringerlo a prendere tutte le carte in tavola. Ma anche lanciare l’accusa era rischioso, perché, se la carta risultava del gruppo dichiarato, l’incauto accusatore subiva la penalità. Tutto il divertimento consisteva nello scoprire le bugie degli altri e nel saper mentire al momento giusto: una breve sintesi del gioco della vita.

Fra strilli e risate, quel gioco d’astuzia andava avanti finché vinceva quello che riusciva per primo a restare senza carte. Paolo era infastidito: una bugia, sia pure per scherzo, lo infastidiva. Non vinse neppure una volta. Solo gli occhi di Claudia lo trattenevano lì seduto. Quando ella s’illuminava di un sorriso (che era poi un sorriso di compiacimento per averla fatta franca nel raccontare bugie), un’onda di tenerezza colmava la sua anima.

Il buio invadeva le strade, rischiarate ormai dalla luce elettrica. Anche quelle ore, che avrebbero dovuto essere di svago, non erano ormai che un ricordo. Il tempo macina la realtà e la trasforma in ricordo, poi a poco a poco distrugge anche il ricordo. A gruppetti, ancora ridendo e scherzando, ragazzi e ragazze lasciarono la casa di Icardi e si dispersero in direzioni diverse.

Paolo seguì Claudia, che era accompagnata da Marta e da alcuni ragazzi. Camminarono insieme per un buon tratto, ed egli giurò dentro di sé che il giorno dopo le avrebbe chiesto un appuntamento. Intanto cercò di attaccar discorso con qualche frase stereotipata. Fu colpito dal tono con cui la ragazza gli rispondeva: dolce, suadente, quasi invito e preghiera. Chiunque altro avrebbe capito che lo stava prendendo in giro, che lo trovava ridicolo e voleva divertircisi ancora un po’ prima di gettarlo via come una bambola rotta. Ma Paolo volava nel suo sogno inebriante, la terra non esisteva più, i mormorii dei compagni non lo ferivano.

Il profumo della gioventù: sembra d’essere sulle tracce di un immenso mistero, grandi destini ci attendono e gli occhi altrui ci sono fissi addosso aspettando da noi chissà cosa. E poi?

Sulla via del ritorno, Paolo passò vicino allo scalo merci, che fino a poco tempo fa usava attraversare per giungere più presto a casa. Eppure i treni gli incutevano una strana paura: quei mostri d’acciaio erano per lui il simbolo stesso del terrore. Ne era affascinato e irresistibilmente attratto come da un gorgo senza fondo. Frenava l’impulso di attraversare i binari solo da quando un ferroviere l’aveva inseguito urlando:

“Incosciente. Se ti pesco un’altra volta…”

Anche sua madre era irata come quel ferroviere, e lo accolse tirando su col naso: segno di tempesta.

“È questa l’ora di rientrare a casa? La cena è già fredda, impiastro, bestia gramma. Cosa credi? che io sia lo striglione di casa? E muoviti, sei ancora lì? Vita maledetta. La pazienza di Giobbe ci vuole con te.”

Ma la continua violenza verbale dell’essere femminile che l’aveva messo al mondo non guastò l’umore di Paolo. C’era abituato. Le immagini della giornata continuavano a ruotare nella sua testa, e gli apparivano sempre più belle man mano che il trascorrere del tempo rendeva i fatti indistinti e lontani, sì che attimi banali gli parvero splendidi e si rimproverò di non aver saputo apprezzarli.

Ma c’era il domani: quante cose belle domani. Le vacanze, l’appuntamento con Claudia. Si sarebbero scambiati i propri piccoli preziosi segreti, avrebbero passeggiato tenendosi per mano come le altre coppiette. La vita era davvero meravigliosa.

 


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