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In una specie di delirio si sentì investire più e più volte, mentre un terrore arcano, sconosciuto, lo invadeva: un’antica angoscia senza fondo, in cui era travolto e a poco a poco inabissato come tra sabbie mobili. In un crescendo atroce, riviveva l’attimo dell’urto. Tutto il suo essere era teso nello spasimo di terrore del colpo imminente. Il treno mostruoso giocava con lui come il gatto col topo. Non c’era difesa né pietà: non ce n’era mai stata per lui. Egli era il giocattolo del treno, e da uno dei finestrini spuntava a un tratto un viso lungo, giallastro, diabolico, che ricordava il professor “Kon-Tiki”.

Poi la figura si scomponeva in una nebbia indistinta e il convoglio si trasformava: ogni vagone una belva. Tutta la stanza era popolata di bestie feroci, di mostri senza nome. E uno dei mostri aveva faccia umana, e somigliava a “Kon-Tiki”. E anche gli altri avevano faccia umana: uno era il dottor Frontoni, un altro il “genio”, un altro il corruttore Seppia, altri erano coloro che Paolo aveva conosciuto nell’unica breve vacanza della sua vita: scimmie, vermi, scorpioni, coleotteri mostruosi. Urlavano, saltavano, correvano verso di lui per divorarlo. Egli voleva gridare, ma non poteva; difendersi, ma non poteva; fuggire, ma non poteva.

Ecco la iena con la faccia del professor Tichi saltare sul letto ringhiando:

“Lo sa che la sua preparazione è pietosa? lo sa? lo sa? lo sa? lo sa?”

“Che vuole? Cosa le ho fatto?” voleva gridare il ragazzo “Andate via. Che male vi ho fatto per azzannarmi tutti così? perché mi date la caccia come a un cane rabbioso? vi prego, basta, vi prego, vi supplico.”

“Taccia,” grugnì la iena nell’incubo “e mi dica dov’è il muscolo grande psoas. Già lo so che lei non lo sa. Può risparmiarsi la risposta.”

“Sì che lo so;” credeva di rispondere Paolo “il muscolo grande psoas è nella parte posteriore dell’addome e prende inserzione a mezzo di arcate tendinee dai corpi dell’ultima vertebra toracica e dalle prime quattro lombari, e scendendo verso il basso si unisce al muscolo iliaco formando l’ileo-psoas che mette capo a un tendine che va a inserirsi… va a inserirsi…”

“Non lo sa, non lo sa, non lo sa”, ghignò la iena.

Non lo sa, non lo sa, non lo sa”, fecero eco sghignazzando i mostriciattoli che ballavano sul pavimento.

“Ma sì, lo so, aspettate un attimo, non urlate così, vi scongiuro; fate tacere l’orologio; quell’orologio mi fa impazzire.”

“Non lo sa, non lo sa, non lo sa, non lo sa, non lo sa”, ripetevano in lacerante crescendo i mostri, facendogli orribili smorfie.

L’infernale sabba si dilatava e si gonfiava. Ecco le ragazze che aveva conosciuto alle feste: erano vipere, ognuna con un dente avvelenato proprio per lui, e strisciavano, strisciavano. Ecco i compagni di scuola, Zanelli, Candiani, Motterini, Pampalini, Monticelli, la Pignardi, e tutti, tutti gli altri: bertucce e gorilla che gli facevano gesti osceni.

“Basta! basta! basta! basta! basta!” credeva di urlare Paolo.

Le visioni s’intorbidarono e l’incubo prese forma di un immenso muscolo. In tutto il mondo sembrava non esservi altro. Dall’immane pezzo di carne pendeva un cartellino: “il grande psoas, ovvero il trionfo dell’anatomia, firmato Tikfrontoni”. E il muscolo lo schiacciava sotto la sua mole: a Paolo sembrava di sentire le proprie ossa schiantarsi una ad una.

Tichi e Frontoni gli apparvero due in uno: un mostro che aveva le sembianze dell’uno e dell’altro, che si scomponeva e ricomponeva in tutte le forme, divorando e rivomitando fuori se stesso, aggrovigliandosi e plasmandosi come cera. E dopo ogni metamorfosi si fermava a guardarlo e gli sputava in faccia.

Poi, come in una lanterna magica, la scena cambiava. Era sul tram, cercava il denaro frugando in tutte le tasche. Il bigliettaio protendeva verso di lui un volto adunco che ricordava quello del professor Tichi e ringhiava come una iena. Tutti sul tram avevano già pagato il biglietto e lo tenevano in mano ben in vista per mostrare che non avevano nulla da temere, loro. Erano a posto. Ma Paolo no; non aveva ancora pagato, non era in regola, e tutti protendevano verso di lui visi adunchi per spiare se riusciva o no a trovare i soldi. Li riconobbe uno ad uno: compagni di scuola e d’università, ragazze, professori, villeggianti, vicini di casa, e gli assistenti del Tichi, con Frontoni in testa. Questi i passeggeri, tutti quelli che aveva conosciuto nella sua vita, ed erano tutti a posto, tutti in regola, tutti sbandieravano il loro bravo biglietto. Lui no. E dietro, sopra, e intorno, stendeva le ali un mostruoso pipistrello nero, dagli occhi come carboni ardenti, che urlava:

“Vita maledetta, vita maledetta, vita maledetta, vita maledetta, vita maledetta, vita maledetta.”

Il bigliettaio era il professor “Kon-Tiki”, che lo fissava con occhi di iena.

“Lei ignora perfino che il grande psoas è un muscolo;” proruppe lo spettro “mi parli allora della vena azigos.”

“Non ho denaro; mi lasci scendere, la prego”, credeva di supplicare Paolo.

“Non sa niente, eh? lo sa che la sua preparazione è qualcosa di pietoso? lo sa? lo sa? lo sa? lo sa? lo sa? lo sa? Torni a febbraio, a giugno, di nuovo a ottobre. Tutti gli anni e tutte le sessioni, sempre.”

“Non ho niente,” delirava Paolo “le giuro che non ho niente.”

“Ah! anche lei se n’è accorto! anche lei ammette di non saper niente”, gli occhi del mostro-bigliettaio luccicavano.

“Ho detto che non ho niente;” ansimava Paolo “ho dato tutto ai poveri. La cassetta, sa? la cassetta… Ho le tasche vuote, guardi…”

“Sciocchezze!” urlava Tichi “sciocchezze! che vuole che facciano i suoi quattro soldi? che vuole che facciano i suoi miserabili spiccioli nella macina del processo storico? Altro ci vuole per la miseria. La miseria ha fame e lei è troppo magro. Fuori, fuori da questo tram di gente onorata.”

Lo scaraventavano giù dal tram, sotto le ruote. Egli sentiva stritolargli le ossa e non poteva far nulla. Poi le ruote si staccavano e il tram svaniva. Ogni ruota era divenuta un enorme scarafaggio. Un’interminabile processione di scarafaggi si trascinava sul suo corpo.

“Basta! Basta! Basta!” credette di smaniare, e questa volta una specie di gemito o di vagito gli uscì dalle labbra.

L’incubo disparve. Una nebbia gialla, spessa, lucente, soffocò ogni cosa al suo sguardo.

Quando la nebbia si fu dileguata, intravide volti umani chini su di lui. Ne riconobbe uno: era Alberto Viviani. Provò a sorridergli, ma il viso gli si contrasse in una incontrollabile smorfia. Paolo chiuse gli occhi per non vedere. I muscoli palpebrali erano fra i pochi che ancora potesse comandare. Con la lucidità era tornata la memoria. Ricordava nei minimi particolari quanto era avvenuto. Dopo il tormento del delirio, quello della realtà.

“Signore, Signore, perché mi hai abbandonato?” invocò in silenzio. Un’ingegnosissima spira di circostanze l’aveva avvolto e annichilito. Tutto era accaduto perché così doveva essere. Un solo anello della catena gli sfuggiva: perché all’istituto di anatomia erano passati da tanta stima a tanto disprezzo. Ma, quasi subito, anche questo si chiarì nella sua mente: il capriccioso professor Tichi era solito cambiare ogni anno il luogo di villeggiatura: Taormina, Cervinia, e disgraziatamente, proprio quell’anno, sulla Riviera adriatica. E se ne vantava pure, per cui anche chi non era minimamente interessato veniva a sapere tutto dei suoi spostamenti vacanzieri.

Ma che importava ormai tutto ciò? Col procedere del pomeriggio, Paolo si rese conto della gravità del proprio stato. Quelle poche cognizioni di medicina che aveva potuto assimilare in due anni d’università, gli servirono per diagnosticarsi una prognosi infausta.

Cominciarono dolori atroci, venivano a ondate dalle estremità inferiori e dal petto, parti che prima sembravano aver cessato di esistere. Incoerenti grida gli sfuggivano dalle labbra arse dalla febbre. Venne un’infermiera ad iniettargli del liquido in un braccio. Con lei era un dottore che sussurrò:

“Forse non passerà la notte.”

Così aveva colto nel segno: il medico laureato confermava la sua prognosi. Era una soddisfazione anche quella, e mentalmente ringraziò il quasi collega.

Infine la sua testa si annebbiò del tutto, i dolori si attenuarono, e si assopì pesantemente.

Quando l’effetto della morfina cessò, era già buio. Le luci erano accese. Ripresero i dolori, ma non così forti. Anche la testa era meno annebbiata. Si mise a pensare a cosa lo aspettava nell’al di là. Riandando alla vita passata, trovava tante cose di cui non era soddisfatto. Avrebbe voluto confessarsi, perché aveva paura di presentarsi a quel Giudice i cui giudizi non ammettono appello.

A un tratto entrò nel suo campo visivo un uomo con una tonaca bianca, che sedette accanto al suo letto. Eccolo finalmente. Parlargli, confessarsi, ricevere conforto e l’assoluzione. Ma non poteva articolare sillaba.

Il frate, curvo su di lui, mormorò:

“Puoi parlare, figliolo?”

Non poteva neppure rispondere di no.

In quel momento, con stupore, riconobbe un’altra persona che stava vicino al letto. Alberto Viviani era tornato a visitarlo. Il fratello di Lucia gli si accostò e disse lentamente, scandendo le parole:

“Mi riconosci? Questo è un mio amico, padre Giuseppe. Fra poco andremo tutti e due in missione in Africa centrale, e io spero di essere presto sacerdote come lui. Non temere. Dio non ha abbandonato me. Non abbandonerà te.”

Paolo compì uno sforzo per manifestare la sua gioia e, come per miracolo, riuscì a sorridere. Incoraggiato da quel sorriso, il frate fece cenno al fratello di Lucia che si ritirasse e iniziò la confessione.

“Dirai di sì chiudendo gli occhi una volta; se li chiuderai due significherà no; va bene?”

Paolo abbassò le palpebre per indicare che assentiva. Il sacerdote lo interrogò, e la prima domanda fu:

“Hai tentato di ucciderti?”

Avrebbe voluto gridare di no, che un’idea simile gli era balenata, ma che il pensiero di Lucia l’aveva salvato. Riuscì solo a dare il segnale convenuto per il no. In ultimo ricevette l’assoluzione. Il frate gli impartì l’estrema unzione, ma dovette rinunciare a dargli il Viatico, perché il moribondo non poteva più inghiottire.

Paolo si sentì forte ugualmente. Non era più una creatura torturata. Faceva parte di un tutto. Un Altro, duemila anni fa, gli aveva aperto la strada. Da allora ad oggi, secoli e secoli prima che nascesse, milioni di anime avevano pregato per lui, Paolo, e preparato la sua salvezza.

Miracolosamente, la parola gli tornò. Suonava strana, quasi solo un soffio, ma il confessore la intese e si curvò verso di lui per afferrare quanto diceva:

“Grazie padre, di essere venuto. Può chiamare anche il signor Viviani, ora che la confessione è finita? Vorrei salutare anche lui.”

“Sono qui”, sussurrò Alberto.

“Sono felice che siate venuti. Ora sono davvero felice. Questo posto è come un convento. Forse sarei anch’io diventato frate, se ne avessi avuto il tempo. E ho la mia croce da portare, per poco tempo. Dunque, vedete, ho tutto quello che mi serve. Un giorno saremo tutti felici insieme…” e con un crescente sforzo aggiunse: “Mi sarebbe piaciuto venire anch’io in Africa centrale. Un medico poteva far comodo alla missione.”

“Ma tu verrai lo stesso.”

“Sì, verrò, in spirito. Vorrei che ascoltaste le mie ultime volontà. Non ho niente sulla terra da lasciare in eredità, ma vorrei dire questo. Il mio santo prediletto è sempre stato San Giuseppe, perché è un meraviglioso padre di famiglia e “terrore dei démoni”. Ho perfino composto una piccola preghiera che dico tutti i giorni. Vorrei che non morisse con me. È semplicissima: O Sancte Joseph, terror demonum, adjuva nos; o Sancte Joseph, terror demonum, noli derelinquere nos; o Sancte Joseph, terror demonum, ora pro nobis. Se solo qualcuno la dicesse dopo che non ci sarò più… ne sarei felice.”

“Me la scriverò. È facile da ricordare” disse, per fargli piacere, padre Giuseppe.

“Sì, è facile da ricordare. In questo momento sono un po’ confuso. Non riesco a ricordarmene bene altre.” Gli occhi gli si stavano velando e si sentiva prossimo a perdere i sensi.

Ma prima aveva un’ultima cosa da dire:

“Non so quanto possa valere, ma forse un moribondo vede cose che gli altri non possono vedere. Ho visto Lucia.”

“Hai visto mia sorella?” esclamò Alberto.

“Le volevo bene… come a una sorella, anch’io.”

“L’hai vista? come?”

“Non so se fosse un sogno. Probabilmente era un sogno. Era circondata dalle fiamme e soffriva, ma non era disperata. Ha detto: “Mi sono pentita in tempo, all’ultimo istante, prima di passare dall’altra parte. Ma pregate per me, perché io possa essere liberata presto da questo tormento”. Io ho offerto quello che sto soffrendo. Spero che serva ad abbreviarle il tempo della penitenza. Ora ho capito il significato della mia vita: è un sacrificio. Deve essere così, e ne sono felice. Sono certo che è salva.”

“Faccio sempre dire delle Messe in suffragio di Lucia;” replicò Alberto” anch’io sento che non si è perduta.”

Ma Paolo non ascoltava più. Era di nuovo sprofondato nell’incoscienza, che era ormai il suo stato abituale per la maggior parte del tempo. Fu così che non vide i suoi genitori, che pure vennero ogni giorno a trovarlo.

Suo padre era muto, una statua, paralizzato dal dolore e incapace di esprimerlo, in preda ad un atroce male fisico che lo piegava in due: l’ulcera si era aggravata sempre più, e da quando era giunta quella terribile notizia aveva anche dimenticato del tutto di prendere le medicine. Sentiva oscuramente che non gli restava molto da vivere. Ne era contento: si sarebbe ricongiunto al figlio, sarebbe cessato tutto il male della sua esistenza.

Sua madre stupita, incredula, sentiva un grande senso di perdita: su quel figlio aveva fatto tanti piani. Quante delusioni le aveva dato. E ora anche questa doveva farle: ma che gli era saltato in mente, a quell’idiota, di gettarsi sotto il treno? Già, sempre così chiuso… Se invece si fosse confidato con sua madre, che voleva solo il suo bene. Ma dal fondo più oscuro della mente materna, che era piena di bui anfratti e di strani labirinti, si affacciavano domande: il ricovero in ospedale deve costare una fortuna, e se fosse morto, quanto sarebbero costati il funerale e la tomba? Non lo avrebbe mai ammesso, neppure con se stessa, ma il suo cervello aveva già cominciato, con l’automatismo dell’abitudine, a fare calcoli.

A dispetto dell’opinione del medico, Paolo superò quella notte e visse ancora tre giorni. Nei brevi momenti di veglia pregava mentalmente, mentre la vita materiale si ritirava a poco a poco dal suo corpo. Era sereno: sentiva che tutto ciò che era accaduto aveva un senso, e gli pareva strano d’essersela presa a cuore, in passato, per tante ridicole inezie. E sentiva un’altra certezza: ben lontano dall’essere una fine, quello era solo un inizio.

All’alba del terzo giorno si destò, e con voce flebile ma chiara disse:

“Ho sete.”

Si meravigliò nel riudire ancora una volta la sua voce, dopo tanto silenzio. Un’infermiera venne senza fretta e gli inumidì le labbra con una pezzuola bagnata. Ma non di quell’acqua aveva sete.

Poi si riassopì e non riprese più conoscenza, continuando a trascinare quel residuo barlume di esistenza fisica, quel tenue legame della sua parte immortale con quel corpo devastato. Il tempo era burrascoso. Per ore ed ore la pioggia aveva continuato a battere sui vetri, a raffiche ora più ora meno violente, fra balenìo di lampi e scoppio di tuoni. Verso le tre del pomeriggio il cielo si schiarì. Le nubi si squarciarono, mostrando agli uomini la benedizione dell’azzurro. In quel momento tramontò la vita terrena di Paolo Donati.

Sognò per l’ultima volta.

Gli parve di trovarsi sulla soglia di un immenso giardino, buio ma accogliente, che sembrava invitarlo ad inoltrarsi. Ed ecco una figura bianca emergere da quelle profondità. Procedeva a testa alta, sicura. Le piante sembravano illuminarsi al suo passaggio. Mentre si avvicinava, Paolo riconobbe colei che aveva disperatamente atteso nella sua breve vita. Somigliava a Lucia, non più deforme e malata, ma perfetta, bellissima, e viva.

Sì, era proprio lei. E senza articolare suono, parlando da mente a mente, gli disse una sola parola:

“Grazie.”

Era vicina a lui, ora; lo prendeva per mano, conducendolo via con sé.

“Il mio tormento sarebbe durato anni, ma tu mi hai liberato”, aggiunse.

Insieme varcavano il cancello, inoltrandosi nel giardino incantato che sembrava non aver mai fine.

Lucia gli indicò in silenzio una luce verso cui si dirigevano, e che ingrandiva sempre più.

La luce riempì gli occhi di Paolo. Le cose della terra erano ombre. Egli comprese: tutto passa, la vita e la morte, tutto dilegua. Una sola è la realtà eterna, in cui tutto il bene si compendia, senza più dolore e peccato.

La luce si dilatava nella sua anima, e il suo spirito s’immedesimava con essa, pur continuando a vedere e a sentire, ad essere se stesso. Avvertì un’immensa onda propagarsi da distanza infinita e sollevarlo, sempre più in alto.

La luce dominava tutto l’universo.

 


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