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IL FARAONE PATAPUNFÉTE

E LA DISASTROSA GUERRA AGLI ETTITI

Antiche cronache riferiscono che agli allievi del tempio di Amon-Ra a Tebe venne un giorno assegnato il compito di scrivere un breve esercizio sui rischi del malgoverno, e tutti gli studenti furono concordi nell’additare ad esempio negativo la miseranda storia del faraone Patapunféte. Dopo un brevissimo regno di soli due anni, era piaciuto agli dei che fosse abbattuto, spogliato del potere e condannato alla cancellazione del suo nome da tutti i templi e gli obelischi.

Neppure è certo come si chiamasse: il nome Patapunféte pare gli sia stato attribuito dal rumore del suo cranio pelato contro il pavimento della reggia quando gli fu tolto lo scranno di sotto. Comunque si chiamasse, pare sia stato allievo del corso di magia dell’ottimo buon maestro Aniutep Petunia nel sapienziale tempio di Falcmartellomofiltep. Forse però non aveva ben assimilato le lezioni dell’ottimo buon maestro, o forse li aveva assimilati fin troppo bene, dato che i fondamenti dell’arte di governare si riducevano, per lui, nell’indossare pesanti paludamenti istituzionali, usare eloquio mellifluo quando sperava di persuadere qualcuno, mettersi a urlare appena contraddetto e assentarsi dalla reggia il più a lungo possibile.

Forte di cotanta ottima buona formazione kul-turale, Patapunféte regnava con piglio dispotico sulla terra d’Egitto. Il suo primo decreto fu diretto a far svolgere lezioni in piazza, il che causò qualche problema a passanti e mercanti i quali, non si sa perché, albergavano l’insana pretesa di poter circolare per le strade senza impedimenti. Subito dopo, il bizzarro monarca impose l’adorazione coatta dell’obelisco storto di Odinfrigotep e del simbolo del nulla custodito nel tempio sbilenco di Augiasbis.

Queste imposizioni ebbero scarso successo, perché si perdettero nella fittissima nube di pernacchie emessa dall’indomabile popolo degli Ettiti, guidato dall’intrepida regina Orazia, che in quel momento si trovava nella terra di Gosem. Alcuni individui di vario (e talora non ben definito) genere, che formavano il pecoresco seguito dello sconclusionato faraone, pensarono bene di soffiare sul fuoco mettendo sotto accusa il fatal papiro dell’ettita Aemilius Honestus.

Oh, scandalo, in esso papiro, privo del prescritto sigillo di autorizzazione falcmartellomofillica, l’omofobo e reazionario autore osava sostenere che la terra è rotonda, che un uomo è un maschio e una donna è una femmina, e perfino che di giorno è chiaro e di notte è buio, in tal modo prendendosi temerariamente gioco sia dell’obelisco stortignaccolo di Odinfrigotep che del tempio sbilenco di Augiasbis.

Oh, di quanta ira si accese l’alta fronte coronata del faraone Patapunféte. Colto da colica relativista, il pelato sovrano convocò l’ettita Aemilius e il suo allievo Gavinus Glacialis, imponendo loro, con accompagnamento di urla e manate sul pregevole scrittoio della quarta dinastia, di distruggere pubblicamente il papiro nel tempo di Odinfrigotep, pena lo sputtanamento a tappeto mediante la mobilitazione di tutti gli schiavi scribi e scribacchini.

“Ma che scribacchini d’Egitto,” replicò per conto del suo devoto Aemilius la regina Orazia, quando seppe della scena isterica dello sconclusionato faraone “noi non siamo egiziani dediti al nulla e alla magia nera, ma apparteniamo ai gloriosi Popoli del Mare. Non sottostiamo alle chiacchiere e alle scene indecenti di un qualunque Patapunféte, e se proverai a darci fastidio finirai col sedere, pardon, col kul per terra.”

Dopo ciò, i terribili Ettiti raddoppiarono la pernacchie contro Odinfrigotep e Augiasbis e si schierarono a battaglia. La rottura era irreparabile, e specialmente si erano rotte le fragili scatole del lunatico faraone. Per suo ordine, schiavi e servetti vari si scatenarono con scribacchiamenti che lasciarono il tempo che trovarono, ma le armi degli Ettiti si rivelarono di gran lunga più appuntite. Si venne dunque a battaglia nella terra di Gosem e i carri da guerra falcati dei terribili Ettiti spazzarono via in men che non si dica le ridicole truppe di Patapunféte, malamente guidate da Sandroxusmaxiantep ed altre insignificanze travestite da condottieri.

Mesto e ramingo il povero Patapunféte andò lagnandosi per tutto l’Egitto, finché la sua lagna monocorde divenne talmente noiosa e insopportabile, e le sue assenze dalla reggia, che gli ricordava solo la sconfitta subita, a tal punto incompatibili con il suo vantato ruolo istituzionale, che lo sconclusionato faraone fu destituito dal consiglio della corona, o meglio gli venne amorevolmente “konsigliato” di “togliersi dalle skatole egizie”.

Fondando una nuova dinastia, prese il suo posto il nuovo faraone Marcinofis, che da tempo meditava di fargli i calzari, avendo ben capito che uno sprovveduto del genere non sarebbe potuto durare a lungo.

A Patapunféte fu permesso di ritirarsi nel vacillante e scalcinato tempio di Amonplidas, edificato alquanto tempo avanti da una potente congrega di liberi muratori. Il tapino fu ricoverato negli ammuffiti sotterranei del vecchio tempio e ricevette a mo’ di consolazione l’importante incarico della direzione scientifica del locale decadente laboratorio di scrittura geroglifica. Ivi ricevette molte visite consolatorie dell’amicuzzo Osvaldapis e si sfogò scribacchiando ossessivamente, grattando con le unghie sulla muffa dei muri: “La barbarie ci travolge ……. ci travolge ……. ci travolge …….”.

 


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