Per la serie “Ma quant’è scema la gente”, consideriamo un poco l’opera lirica. Per quanto datata, essa continua ad attirare pubblico, soprattutto grazie alla magia della musica. Di solito si bada alla melodia e si passa sopra alle incongruenze teatrali e logiche, ma siccome siamo scrittori, non possiamo fare a meno di notarle. Ce ne sono alcune da rotolarsi dal ridere.
Prendiamo ad esempio l’Euryanthe di Carl Maria von Weber, su libretto della famigerata Helmina von Chézy. Sulla protagonista pende un terribile sospetto, ma di cosa? Che avrà mai combinato di tanto terribile la povera Euryanthe? E perché non tentare di chiarire subito come stanno le cose, dato che basterebbero un paio di opportune domande? E poi c’è quel combattimento del protagonista maschile Adolar con un “mostro” che appare d’improvviso senza alcuna giustificazione e senza che si capisca cos’è e di che specie sia. Bah, misteri zoologici…
In Der vliegende Holländer (“L’olandese volante”, o “Il vascello fantasma”), un’opera giovanile, Richard Wagner, librettista di se stesso, celebra il suicidio come mezzo di redenzione; bel colpo, ragazzo mio, proprio un’idea coi fiocchi.
Nel Parsifal, sua ultima opera, Wagner giocherella in modo gnostico molto disinvolto con l’idea della Redenzione: Parsifal, figura divina, avrebbe lui stesso bisogno di redenzione (sic). L’opera infatti si chiude con le ambigue parole: Höchsten Heiles Wunder! / Erlösung dem Erlöser! (“Altissimo miracolo della salvezza! Redenzione al Redentore!”, traduzione per gli amici degli amici che non hanno studiato il tedesco). E una colomba, che si presume rappresenti lo Spirito Santo, scende sul Redentore “redento” mentre gli spettatori sbadiglianti e morti di sonno si preparano a tagliare la corda.
Altro colpo di genio nel Lohengrin, opera della maturità, dove Wagner si diletta con la fanfaluca anticristica dell’“incompatibilità” della natura divina con quella umana: infatti, appena Elsa osa chiedere a Lohengrin “come ti chiami?”, lui deve lasciarla, perché di natura troppo divina per mescolarsi ai mortali; si presume che la povera Elsa debba sposare uno di cui non sa neppure il nome, né di dove venga, e neppure che cavolo sia (e se fosse un extraterrestre che di colpo diventa verde mentre gli escono serpenti dagli occhi e dalle orecchie?). “Nie sollst du mich befragen, / noch wissens Sorge tragen / woher ich kam der Fahrt / noch wie mein Nam’ und Art”, impone il guaglione, appena accorso a salvare la donzella dalle calunnie di Teramund. (“Mai devi domandarmi, né cercare di comprendere, di dove io venga né quale sia il mio nome e quale la mia natura”, traduzione per gli amici degli amici che hanno dimenticato a casa il vocabolario tedesco).
Tutto ciò, ovviamente, cozza frontalmente con la realtà dell’Incarnazione. La natura divina è tanto compatibile con quella umana, formata da Dio a Sua immagine e somiglianza, che il Verbo si è fatto carne, identico in tutto a noi, eccetto che nel peccato, ci nutre con la Sua carne e il Suo sangue, e non aveva nessunissimo bisogno di redenzione (anche se qualcuno, in altissimo clerical-loco, si è permesso di blaterare che si era fatto diavolo e non era uno pulito). Sarà bene ricordare tutto questo, visto che i preti al giorno d’oggi hanno di solito tutt’altre preoccupazioni che difendere la dottrina.
Bella la musica, demenziale il contenuto. Wagner si considerava, bontà sua, un grande filosofo e un grande scrittore, oltre che un grande musicista. Nella sua piramidale confusione sarebbe andato benissimo come “teologo” leggermente laico, aggregato allo stratosferico giornale Repubblicao meravigliao e all’iperuranica rivista Espressao caffesiñao. Chissà come si sarebbero divertiti, lui, Corrado Augias e il matematico raffreddato, a giocare “al teologo”!
La monumentale Tetralogia del solito Wagner (Rheingold, Die Walküre, Siegfried, Götterdämmerung; ossia “L’oro del Reno”, “La valchiria”, “Sigfrido”, “Il crepuscolo degli dei”, per gli incolti che non masticano il tedesco), la Tetralogia, dicevo, racconta una lunghissima e ingarbugliata storia, in cui il dio supremo Wotan fa costruire la reggia del Walhalla ingaggiando (non si capisce se come architetti o muratori, piastrellatori, impiantisti, o altro) i due giganti Fafner e Fasolt, e li paga con l’oro sottratto alle figlie del Reno (formose ondine che vagando canticchiando nel fiume). Non contento, Wotan spinge i fratelli Siegmund e Sieglinde all’incesto, poi li fa morire per punirli. Dall’incontro ravvicinato del poco simpatico tipo incestuoso è nato un bambino: Siegfried, eroe invitto, allevato dal malvagio nano Alberich. Dopo molte peripezie, Siegfried fa una brutta fine perché Wotan lo abbandona lasciandogli commettere piramidali corbellerie (gli manca solo l’invenzione del “reddito di cittadinanza”). La pira funebre dell’eroe dà fuoco al Walhalla, dopo che Wotan stesso ha fatto riempire la reggia di cataste di legno in modo che arda meglio, e ha fatto radunare tutti gli dei perché nessuno sfugga al barbecue. Dopo tutte queste costruttive e intelligenti imprese, l’oro del Reno ricade nel fiume, dove le figlie del sullodato corso d’acqua lo aspettano canticchiando esattamente come prima, e tutto torna al punto di partenza, con la trascurabile differenza che sono tutti morti, e morti per niente. È il trionfo dell’eterno ritorno, caro all’obituario Nietzsche e agli altri necrofori del neopaganesimo tedesco, che propizieranno il delirio hitleriano.
L’opera italiana, a sua volta, non è avara di casi esilaranti. Vedi, ad esempio, la Norma di Vincenzo Bellini, con i complimenti al librettista Felice Romani, peraltro non del tutto colpevole perché si appoggia ad uno zoppicante dramma di Louis Alexandre Soumet. La sacerdotessa gallica Norma, quando non gorgheggia alla Luna, intrattiene una relazione non proprio platonica con il locale comandante romano Pollione, con il quale trova il modo di mettere al mondo due pargoletti, il tutto senza che nessuno al villaggio, un pugno di case che si presume approssimativamente grande quanto il villaggio di Asterix, si accorga di niente: né delle ripetute gravidanze della sacerdotessa né dei parti di lei, né dei bambini frettolosamente nascosti da qualche parte. Com’è evidente, tutto ciò appare del tutto logico e assai verosimile. Pollione, che non dev’essere proprio il massimo in fatto di capacità militari, si fa beccare dai galli come un pollo, e finisce arrosto insieme a quella gallina di Norma.
Bellini colpisce ancora ne I puritani, sfacciata opera di propaganda giacobin-risorgimental-anticattolica, su libretto di Carlo Pepoli, dove la sanguinaria soldatesca di Cromwell diventa una banda di eroi e lo stesso Oliver Cromwell, in realtà un mostro che non esitava a sterminare intere popolazioni, diventa una specie di benefattore, generoso fino al ridicolo.
E Puccini con la Tosca? Giuseppe Giacosa e Luigi Illica sono gli autori del libretto, basato su dramma di Victorien Sardou. Palese il furore ideologico, che sbandiera la malvagità dell’inquisitore pontificio Scarpia, accanto alla suprema innocenza delle sue vittime, tutte protese verso le recondite armonie ed a vivere d’arte e d’amore e a non far mai male ad anima viva. Altra infornata di propaganda giacobin-risorgimental-anticattolica, che mira a suggerire: “Vedi quant’era cattiva la Chiesa? Che bella idea abbattere il potere temporale! Bravo Garibaldi, lui sì che aveva ragione quando chiamava il Beato Pio IX ‘un metro cubo di letame’!”.
A proposito, lo sapevate che il mondo dell’opera era tutto massone? Massoni erano gli editori, massoni gli impresari, massoni i compositori, massoni i librettisti. Chi non era massone alle scene non ci arrivava. Come mai il Teatro alla Scala, che era rigorosamente chiuso a compositori seri e già affermati come Amilcare Ponchielli, fu subito a disposizione di un Giuseppe Verdi appena arrivato dalla campagna? Come mai continuò ad essergli aperto nonostante il duplice fiasco di Oberto, conte di San Bonifacio e di Un giorno di regno, mentre qualunque esordiente al primo fiasco sarebbe stato cacciato a pedate? Eh, no, doveva diventare l’araldo dell’impresa sabaudo-massonica di conquista e colonizzazione inglese dell’Italia, nota come “risorgimento”? Che ci abbia messo lo zampino qualche loggia?
La pletorica produzione verdiana è assai ineguale: a veri capolavori si alternano opere allo zum-pa-pa-zum, più adatte a una banda di paese, ma non per questo venne mai piantato in asso dai suoi sponsor, dalla clacque e dal pubblico. Logica e coerenza teatrale latitano spesso dai libretti delle opere verdiane. Un bell’esempio è il “Trittico romantico” di Giuseppe Verdi, formato da tre opere (Il trovatore, su libretto di Salvatore Cammarano; La traviata e Rigoletto, su libretto di Francesco Maria Piave).
Ne Il trovatore, la zingara Azucena, in un momento di normalissima e comprensibile distrazione, aveva bruciato vivo il suo figlioletto e aveva poi allevato come proprio quello del conte suo nemico. Per tutta l’opera, benché confessi al figlio adottivo quello che ha fatto, nessuno è in grado di sbrogliare l’inghippo, finché la maliarda, prima di salire sul rogo, confessa in modo più chiaro, e la truculenta vicenda si conclude.
A proposito de La traviata, che non manca di coerenza e pathos (non per niente ha alle spalle il dramma La dame aux camélias di Alexandre Dumas figlio), c’è piuttosto da dire sulla condanna che pesa su Germont, il quale, alla conclusione del lacrimevole dramma, viene portato a condannare se stesso, e si sdilinquisce: “Oh, malcauto vegliardo!… Ah, tutto il mal ch’io feci ora sol vedo!” Ma fate il piacere: quale male? Il padre di quello zuzzerellone di Alfredo era “colpevole” solo di voler riportare a casa il figlio che stava perdendosi dietro a una mondana, o una “escort”, per essere moderni. Peggio, i critici non hanno mancato di appesantire il giudizio negativo. La morale è relativa, abbaiano gli indignati speciali contro l’autorità paterna. Il padre di Alfredo, ha scritto uno dei critici, è “una figura grottesca”. Ma, pennivendoli della malora, nessuno di voi ha pensato a un fatto elementare: la traviata Violetta non solo era traviata, “escort”, mondana, eccetera, il che già basta a giustificare ampiamente le preoccupazioni paterne. Era pure infettiva, e allora speranze di cura non ce n’erano, si sapeva solo che era un male terribile e mortale: alla scoperta dei bacilli di Koch mancava ancora una trentina d’anni. Lo volete capire che era tubercolotica, e quale padre, a parte la morale e le convenienze sociali, poteva stare tranquillo, sapendo che suo figlio, coi suoi baci appassionati, mescolava la saliva con quella di una tisica? Ve lo immaginate il tripudio scatenato dei bacilli di Koch (ancora da scoprire)?
Passiamo al Rigoletto, che si basa sul drammone antimonarchico Le roi s’amuse, nientepopodimeno che di Victor Hugo, ciò che non lo salva da una massiccia dose di ridicolo. Victor Hugo stesso non era esente da tratti di ridicolaggine assoluta per la sua sconfinata fiducia nel Progresso, come quando predisse: “Il secolo XIX è stato grande, il XX sarà felice”. Infatti si è visto. Ritornando a Rigoletto, questo buffone di corte, poverino, ha la singolare particolarità di andare a spasso quando più urgente e necessaria sarebbe la sua presenza. Dopo aver raccomandato alla venale e infedele fantesca: “Veglia, o donna, questo fiore”, con tale immagine vegetale intendendo l’unica figlia Gilda, che fa lo sprovveduto? Invece di restare in casa a presidiare la piazzaforte, pronto a sparare a vista agli intrusi, esce e se ne va a spasso, il fesso. Ma dove vai? a comprare l’insalata? la focaccia? i sigari? la ricarica del telefonino? Ma se è notte, le strade sono buie, la luce elettrica è ancora tutta da inventare, e i negozi tutti chiusi… E lui esce, il belinone fessacchiotto. Così il drudo seduttore, il solito sciupafemmine, il duce, pardon il duca di Mantova, entra a suo agio in casa del buffone, complice la fedifraga fantesca, corrotta con denaro, e imbottisce la svampita Gilda di chiacchiere, riuscendo naturalmente a circuirla, a sedurla, a farle perdere quel poco di ben dell’intelletto che forse aveva in quel cervello di gallina. Tanto la suddetta svampita non domandava altro che di essere circuita e sedotta. Era lì che si annoiava chiusa in casa con paparino e la fantesca, senza mai vedere un cane, e logicamente si domandava: “ma insomma, quando arriva un bel maschietto?” Poi compaiono i cortigiani, del duce, pardon, del duca, a rapiscono la verginella, ancora verginella per poco, mentre lo stordito Rigoletto, reduce dalla sua insulsa passeggiata, è tanto fesso da reggere la scala che i maramaldi usano per entrare in casa sua a rapirgli la figlia. Il buffone non la prende bene. “Sì, vendetta, tremenda vendetta, di quest’anima è solo desio, di punirti già l’ora s’affretta, e il buffone colpirti saprà”. In realtà non saprà, perché è troppo fesso. Infatti, Rigoletto fa tendere al vile seduttore una trappola dal sicario borgognone Sparafucile, occasionalmente disponibile in quel di Mantova per aiutare a risolvere piccoli problemi di eutanasìa precoce. Ma che fa il buffone? Invece di restare sul posto a completare la vendetta, ancora una volta, proprio al momento cruciale, quando dovrebbe bucherellare per bene il mascalzone, se ne va a spasso, promettendo: “Più tardi tornerò l’opra a compire”. La benemerita opra di bucherellamento, naturalmente, non si compie, per colpa della foia di due femmine: la sorella di Sparafucile, emerita meretrice, complice di quell’assassino che è suo fratello, la quale si è stupidamente invaghita del dongiovanni (“Somiglia a un Apollo quel giovine”), e l’incurabile oca Gilda, che si sacrifica al posto dell’impudico farabutto. Nel frattempo Rigoletto che fa? È fuori portata, non si sa bene a fare cosa, sta andando a passeggio di notte, nella città di Mantova dai negozi chiusi e che, all’epoca, non doveva neppure essere particolarmente ben illuminata. Avrebbe potuto stare lì a far fuori il drudo, o per lo meno a sincerarsi che Sparafucile compisse “l’opra”. Ma l’ex buffone, ormai senza lavoro, e pure senza cassa integrazione, all’epoca ancora da inventare, quando finalmente si decide a tornare per “compire l’opra”, trova che quell’oca giuliva di sua figlia, invece di partire per Verona, obbedendo all’ordine paterno, è rimasta a fare la cretina e a farsi ammazzare al posto del farabutto, il quale farabutto riprende a girare per Mantova a caccia di femmine, blaterando: “Questa o quella per me pari sono a quant’altra d’intorno mi vedo, del mio core l’impero non cedo…”, e così via: teppista da centro sociale fino alla fine. Consumato il disastro, caro Rigoletto, secondo me non dovresti gridare: “Ah, la maledizione!”, ma: “Ah, la fesseria!”.
I TRIGOTTI
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