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ORO O LATTA: QUESTO È IL PROBLEMA

Abbiamo deciso di premiare con opportuni segni del nostro apprezzamento le opere letterarie e cinematografiche che hanno attratto il nostro interesse. Questa rubrica viene aggiornata quando ci pare e il nostro giudizio è inappellabile.

I TRIGOTTI

-Figura_vipera
Il dubbio onore oggi tocca a:

ROBERTO PALUMBO, 1657. L’anno della peste, Lodi, Arpeggio Libero, 2017

Non senza dispiacere dobbiamo insignire l’autore di questa opera non dell’Aquila d’oro come avremmo voluto, ma del poco lusinghiero riconoscimento della Vipera di latta.
 
Segue un commento di Emilio Biagini:

PALUMBO R. (2018) 1657. L’anno della peste, Arpeggio Libero, Lodi

L’elemento più interessante in questo libro è il quadro della Genova secentesca, basato su dirette conoscenze della topografia e su ricerche di archivio. La parte saggistica, che illustra comunicazioni, marineria, tecnologia, medicina, abbigliamento, è valida, mentre l’impianto narrativo zoppica. Infatti il romanzo cade nell’errore, frequente nella narrativa storica, che consiste nel coniugare un’esatta ricostruzione degli aspetti puramente materiali di un’epoca con una falsa interpretazione dei valori e degli atteggiamenti propri dell’epoca stessa.

Gli esempi di ciò non mancano, a riprova di quanto sia difficile entrare nello spirito di epoche passate, mentre non ci vuole molto a documentarsi sulla tecnologia del tempo. In un pretenzioso giallo storico ambientato nel Settecento inglese (La morte e la piramide nera, di Deryn Lake), i protagonisti si comportano come disinibiti e disattenti personaggi del secolo XXI, tanto che non fanno alcun caso al colore della pelle, ciò che può essere normale per i liberal di oggi ma non certo per gente del Settecento, che detestava perfino la “tintarella”; i personaggi sono talmente ciechi alle differenze razziali da non accorgersi neppure che una persona è mulatta, ciò che avrebbe dato un indirizzo ben diverso alle indagini. Un altro esempio, più noto, è quello dei romanzi di ambiente medievale di Ken Follett, nei quali a una documentazione pignola sui dettagli tecnici riguardanti la costruzione di cattedrali e ponti fa riscontro una galleria di personaggi uno più fuori posto dell’altro, perché tutti atei o agnostici della nostra epoca, sballottati in pieno Medioevo, ma assolutamente incapaci di pensare e comportarsi da persone medievali.

Per contro, è indubbiamente molto più facile, per un romanziere contemporaneo, mettere in scena personaggi dell’antichità pagana, dato il clima di neopaganesimo in cui l’autore si trova immerso. Più difficile è descrivere personaggi dei tempi d’intensa fede, come l’età paleocristiana, il Medioevo e l’età della Controriforma. In tali epoche il timor di Dio, i Novissimi, il rispetto dei Comandamenti, la santità del matrimonio, l’amore per il Crocifisso e la Madonna, la distinzione tra bene e male, l’orrore del peccato, la paura dell’inferno erano d’importanza cruciale. Neppure allora, naturalmente, mancava chi violava i Comandamenti, ma ciò veniva sentito e stigmatizzato come peccato, e i peccatori erano travagliati dai rimorsi. Il Manzoni, nel suo capolavoro, ha colto perfettamente questa visione cattolica. Non vi è traccia di ciò nel romanzo di Palumbo: il cattolicesimo vi compare solo come elemento di sfondo. Si potrebbe obiettare che, a causa della peste, il sentire della gente era sconvolto, ma i personaggi di 1657 appaiono fuori posto fin dal principio, quando la peste appariva ancora un’eventualità remota.

Non si fa questione qui, se un certa visione della vita sia giusta o meno. È un problema serio che andrebbe approfondito, ma non è questa la sede opportuna. Il punto è che un romanzo storico dev’essere popolato di personaggi la cui scala di valori sia quella della loro epoca, o almeno non se ne discosti troppo. Ora, in una società tradizionale all’epoca della Controriforma la scala dei valori era profondamente cristiana, e sotto quella prospettiva occorre rappresentare i personaggi, se non si vuole che appaiano psicologicamente e storicamente anacronistici.

Il protagonista di questo romanzo, il medico Pietro Argentieri, è un agnostico per non dire ateo, ed è vittima esclusivamente della sua follia, ciò che non gli assicura certo la simpatia del lettore. È un donnaiolo impenitente abbastanza ridicolo per la notevole e recidiva propensione per le tardone (nel sec. XVII, a differenza di oggi, quando le donne erano sui quaranta erano già tardone).

L’Argentieri s’inguaia con la marchesa Malaspina, commette adulterio con lei e causa il tentativo di avvelenamento del legittimo marito che la svergognata damazza commette, con l’intento di liberarsi del consorte per godersi l’amante. Ciò provoca la comprensibile ira del figlio di lei, il quale, non volendo prendersela direttamente con la madre, cerca di rovinarne l’amante accusandolo del veneficio. Solo per un pelo il piano non riesce perché il protagonista, già condannato a dieci anni di remo sulle galere, viene liberato da una banda di malviventi. Certamente, fatti del genere potevano succedere, a quell’epoca come in qualunque altra, ma quello che non si accorda con la mentalità dell’epoca è il gelo spirituale dei personaggi. Ammettendo che l’Argentieri non abbia partecipato al tentato omicidio e non ne abbia saputo nulla all’epoca, il veneficio è stato tentato, ed egli ne era la causa, ma non mostra il minimo rimorso o scrupolo di coscienza, anzi si sente del tutto innocente ed ingiustamente perseguitato, e vuole cinicamente servirsi dell’amante, potenziale assassina, per cavarsi dai guai.

Inoltre l’Argentieri è spaventosamente imprudente, per cui si comporta come un vero cretino, e i protagonisti cretini non hanno molta probabilità di accattivarsi la simpatia dei lettori. Pur sapendosi in pericolo di cattura ed estradizione, infatti, lo sprovveduto libertino va in giro per la città in modo quanto mai temerario, si ubriaca in una bettola, va a puttane con una mammana, la quale poi lo tradisce consegnandolo al sicario che dovrebbe ricondurlo in Toscana. Lo sciagurato viene poi rocambolescamente salvato un’altra volta dagli agenti segreti della Repubblica di Genova.

Ma appare alquanto assurdo che la Serenissima Repubblica prenda tanto interesse a questo individuo, lo protegga e lo coinvolga in un intrigo per una questione di confini col Granducato di Toscana, inviandolo come agente segreto con un misterioso messaggio ai confini del Dominio, pur sapendo che la missiva poteva più facilmente venire intercettata dagli agenti avversari, i quali ricercavano ancora il galeotto evaso; sarebbe stato molto più ragionevole, invece, affidare la missione a qualcuno che fosse del tutto sconosciuto ai toscani. Infine, dopo averne passate di tutti i colori, fra peste, ubriachezza, botte da orbi e improbabili intrighi politici e di alcova, questo sbalestrato individuo affoga nel modo più banale durante un viaggio per mare verso la Riviera di Levante.

Alcune osservazioni su punti particolari, con indicazione delle relative pagine.

6 – Il genovese del sec. XVII era molto diverso da quello attuale: se ne possono avere esempi in Ra Çittara Zeneize, “La cetra genovese” del 1630, di Gian Giacomo Cavalli (1580-1657). Infatti era una lingua che faceva largo uso della “r”; come si vede sopra: l’articolo odierno “a” era infatti “ra”. Non si capisce quale funzione abbia l’introduzione di frasi in genovese contemporaneo. Del resto non sarebbe stato consigliabile mettere frasi nemmeno in genovese del Seicento. Bastava indicare che i personaggi parlavano in lingua genovese, evitando inutili complicazioni.

35 – Comunque la traduzione di “Mi devi dire” è sbagliata. Dovrebbe essere “Ti me devi dî …”, e non “Me devi dî…”

63 – Non si capisce cosa sia un “libero pensatore” del sec. XVII. Nel secolo successivo, con l’Illuminismo, sarebbe stato comprensibile, ma nel XVII no.

230 – Un errore di stampa: “Dal quel punto” (riga 3 dal basso) va corretto in “Da quel punto”.

232 – Gli adulteri, cioè il protagonista e la fedifraga avvelenatrice fallita si incontrano in chiesa fingendo una confessione, e lui addirittura svelle la grata per poter meglio carezzare la damazza più vecchia di lui. Poi si separano perché disturbati dagli uomini della scorta della sullodata damazza, i quali, insospettiti dalla inconsueta lunghezza della “confessione”, entrano in chiesa a cercarla. Ma i due amanti, hanno almeno risistemata in tutta fretta la grata? La circostanza non è di secondaria importanza: se qualcuno avesse visto la grata divelta avrebbe potuto cominciare a fare domande imbarazzanti. Fra l’altro, divellere e rimettere a posto una grata di confessionale sono operazioni di falegnameria tutt’altro che semplici e tali da causare non poco rumore e disturbo, per cui si tratta di un particolare assolutamente fuori posto.

251 – Le ultime 5 righe dovrebbero essere in corsivo, in accordo con il corsivo nella pagina seguente.

264 – Riga 17 dall’alto. Non si capisce perché il senso del pudore sarebbe “assurdo”. Forse si intende che, dato il generale crollo della moralità a causa della peste, il pudore poteva sembrare assurdo, ma l’affermazione sembra comunque generalizzata e apodittica.

282 – Riga 13, “dissoluzioni” al posto di “dissolutezze”. Forse è termine arcaico trovato in qualche documento, ma stona, data la generale modernità di linguaggio del romanzo.

299 e segg. – Frati della Francia meridionale del sec. XVII non avrebbero sicuramente parlato francese, e tanto meno francese moderno. Con ogni probabilità si sarebbero espressi in provenzale, reciprocamente comprensibile col genovese. Nella Francia dell’ancien régime i linguaggi regionali erano fortissimi e parlati da tutti; soltanto a partire dalla Rivoluzione francese, creatrice dello Stato centralizzato, il regime impose, e non senza grande fatica, il linguaggio dell’Île-de-France sull’intero territorio nazionale. Si tratta di un difetto non da poco in un romanzo storico, in quanto applica acriticamente la situazione attuale di lingue nazionali codificate e ufficializzate anche nei territori provinciali e periferici, a un’epoca storica in cui la situazione linguistica era di gran lunga più fluida e diversificata, ciò che fa il paio con l’applicazione, vista sopra, del sentire laicistico e agnostico di oggi a personaggi che dovrebbero essere immersi in tutt’altra temperie religiosa e culturale.

320 – Una stranezza sotto il profilo medico: come mai il protagonista non accusa nessun disturbo di stomaco nel viaggio verso Genova come clandestino, al chiuso e col mare agitato, cioè nelle condizioni peggiori per uno che vada soggetto al mal di mare? E come mai ne soffre invece durante l’ultimo viaggio, all’aperto, dove è molto più difficile soffrirne?

Concludendo, al vizio di fondo, e cioè all’anacronismo dei personaggi, si aggiungono le varie “smagliature” del racconto indicate sopra. Sarebbe forse stato meglio limitarsi ad una monografia storica senza addentrarsi nel difficile cammino del romanzo.

EMILIO BIAGINI


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