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 In un testimonianza resa il 23 e il 28 giugno 1977, Antonia Lucchini (Milano? 1909-Viareggio 1990), suora delle Ministre degli Infermi, dette anche Barbantine dal cognome della fondatrice, Maria Domenica Brun Barbantini, riferisce di aver assistito Maria Valtorta dalla fine di dicembre 1931 alla primavera del 1933, facendole delle iniezioni. Suor Antonia era intimidita dal registratore usato per raccogliere le testimonianze, ma disse che sentiva il dovere di parlare contro la continua ingiustizia contro la Valtorta e contro gli Scritti. A suo parere, Maria Valtorta è troppo grande perché possa essere compresa dalla comune mediocrità dei contemporanei.

La veggente avvertiva l’avvicinarsi della suora dal momento in cui usciva dal convento che distava trecento metri dalla sua casa. Si ricordava di averla vista a Monza quando, ancora bambina, vi era stata in gita al Collegio delle Marcelline dove lei era interna.

Suor Antonia ricorda Maria dolcissima e sofferente, mentre la madre era antipatica, scostante, invadente, e non voleva che parlasse con la figlia: diceva che non aveva nulla, ma era solo isterica. Il padre di lei, invece, era buono, gentile e oppresso dall’erinni domestica, la cui presenza invadente soffocava la conversazione. Vedendo l’amicizia sbocciare tra la suora e la figlia, la madre diventava sempre più sospettosa e arcigna. Maria profetizzò a Suor Antonia che avrebbe molto sofferto, sarebbe andata in missione e si sarebbe gravemente ammalata. Il tutto si avverò. Monsignor Rocchiccioli chiese a Suor Antonia la sua opinione sulla Valtorta, ed ella rispose di averne riportato un’ottima impressione, di un’anima santa e sofferente per le pene fisiche e per la madre. “Ci vuole una virtù eroica per sopportare quella madre”, commentò Monsignor Rocchiccioli. Maria, già gravemente ammalata e prossima alla paralisi, non poteva mettersi a letto perché obbligata a lavorare come una schiava dal mostruoso egoismo materno. Infine l’erinni domestica mise alla porta la suora dicendo (mentendo) che la figlia non voleva più vederla. Allo stesso modo, facendosi scudo del nome della figlia, la madre metteva alla porta tutti quelli che le si avvicinavano.

L’anziana Suor Annunziata prese il posto di Suor Antonia e anche lei constatò che la madre era una donna “insopportabile”. L’erinni mise alla porta anche lei e andò dalla superiora a dire che “non voleva più suore tra i piedi”. Al convento andò anche il padre a scusarsi, profondamente dispiaciuto che le suore non potessero più venire a confortare la figlia. Non solo le suore, che anche tutte le altre persone che potessero aver simpatia per Maria furono messe alla porta, a cominciare dalle ex allieve di Maria all’Azione Cattolica. Anche la signora Panigadi, una buona amica, subì la medesima sorte; bastava nominarla perché la madre andasse in bestia. L’egoismo dell’erinni era tale da uccidere moralmente il prossimo; sopportava solo Marta Diciotti perché le serviva. Il calvario più duro per Maria fu quello di onorare e amare una simile madre.

Nonostante ciò, Maria non perdeva il buon umore. Usava dire che al “padellino” (l’aureola) non ci teneva. Le bastava andare in paradiso, anche “in un posticino piccolo piccolo”. Dopo vent’anni di vita missionaria in Brasile e un anno di malattia con l’angina pectoris, Suor Antonia tornò a Viareggio e seppe che MARIA era morta, aveva scritto dei libri, e che questi erano stati messi all’Indice. Subito pensò che erano opera divina e che la persecuzione fosse appunto il segnale di tale origine divina, e associò subito la persecuzione a quella contro Padre Pio e tanti altri santi perseguitati dalla gerarchia. Un’opera che non viene da Dio non è perseguitata perché il demonio non va contro se stesso. La signora Pia Donati, impiegata nella casa di cura delle Barbantine, le parlò con entusiasmo dell’Opera e gliela regalò. Ne fu anche lei conquistata e non riuscì più a staccarsene. Si scandalizzò che la si dicesse “vita romanzata di Gesù”. Chi ne parla male è semplicemente ignorante perché non l’ha letta, osservò la suora. Marta interloquisce per sottolineare il disegno di Dio che aveva permesso il suo allontanamento e poi questo incontro perché potesse testimoniare sulla madre, di cui alcuni lettori stentano a credere che potesse essere tanto snaturata.

Ora Suor Antonia, nel leggere e meditare di continuo l’Opera, vi ritrova Gesù Cristo vero Dio ma anche in tutta la Sua umanità, e la traccia delle santità della Valtorta. L’opera non è sentimentale, ma piena di sensibilità femminile, di amore per la natura, che Maria, nella sua reclusione, sentiva fortemente. L’amore per il Creato la portava ad amare il Creatore. Suor Antonia aveva incontrato Padre Migliorini alla stazione di Viareggio, ed egli le aveva detto che la Valtorta continuava ad essere “l’angelo della creazione” e “parlando con quella creatura si sente che il creato ci eleva a Dio”. Il dottor Lapi disse a Suor Antonia che in Maria vedeva un’anima santa. La stessa Valtorta disse a Suor Antonia che voleva offrirsi alla Giustizia Divina in riparazione del male, incurante delle sofferenze.

Maria amava tanto la madre da rifiutarsi di vederne la cattiveria. Suor Antonia si accorse da sé della malvagità dell’erinni domestica, mentre Maria non inveiva mai contro la madre, e se doveva parlare di lei, minimizzava. Sapeva che la madre la diffamava con tutti, ma confidava in Dio che facesse luce. Una cosa che faceva soffrire moltissimo la Valtorta era la privazione del corpo di Cristo inflittale dai sacerdoti. A questo proposito Suor Antonia rivela un particolare sconosciuto: l’erinni impose a Monsignor Rocchiccioli di portare la Comunione alla figlia solo ogni quaranta giorni e il sacerdote non osò trasgredire né parlarne a Maria per non aggravare la situazione.

Così la Valtorta restava priva del Corpo di Cristo anche per la malvagità della madre, la quale così non esitava a chiudere la porta perfino in faccia a Cristo. A causa di questi quaranta giorni Maria saltava anche il primo venerdì del mese. La stessa Marta Diciotti era all’oscuro di questa mostruosità da parte di una madre verso la figlia inferma e ne fu scandalizzata. L’erinni, del resto, cercava di ostacolare anche Marta, quando voleva uscire per adempiere al precetto festivo, fino al punto di fingere di sentirsi male.

Suor Giovanna Antonelli (Torre del Lago, Lucca 1902-Torino 1987) rese la sua testimonianza il 7 novembre 1980. Apparteneva alle Suore Medee e nel 1943 fu incaricata di assistere la madre di Maria Valtorta, cosa che fece fino alla morte di questa. Fu Maria, nonostante le ristrettezze economiche, a volere che la madre fosse assistita: era infatti piena di sollecitudine per lei. Come abbiamo visto, l’erinni aveva in antipatia tutte le suore e non lo nascondeva. Sia Suor Giovanna e la sua consorella Suor Domenica, che si alternavano nell’assistenza alla vecchia, ne ebbero un’impressione sgradevole. Per prima cosa ella disse alle suore di non dar retta alla figlia perché era “pazza”, e di non andare da lei. Maria, al contrario, che non aveva una parola di biasimo o di acredine per la madre, era una creatura eccezionale, diversa da tutte, piena di amore. A parere di Suor Giovanna, il Signore si è servito della madre per santificare la figlia, facendone risaltare le virtù eroiche.

Paola Belfanti (Reggio Calabria 1917-Milano 1989) rese la sua testimonianza nel settembre 1980. Incontrò Maria Valtorta per la prima volta nel settembre 1943. Non ebbe subito la sensazione di trovarsi di fronte a una persona eccezionale, ma se ne accorse gradualmente. Grazie a Maria approfondì la sua fede cristiana. Ella le parlava dello straordinario dono che andava ricevendo e dal quale si sentiva tuttavia disorientata. Era materna e le dava l’amore che, in quanto orfana di madre, non aveva più, dato che la matrigna (il padre della Belfanti si era risposato) non l’amava in modo particolare. Aveva un immenso amore per Gesù e da questo le veniva un’immensa carità verso il prossimo. Amava gli animali: aveva un canarino in gabbia e un passerotto che girava libero, e Maria usava parlare loro. Un inganno da parte di lei era “inverosimile, impossibile, impensabile”. Nessuna traccia di fanatismo, ma tanta semplicità. Maria leggeva a tutti i Belfanti i doni che via via le venivano largiti dal Cielo. Non si preparava assolutamente a scrivere, ma scriveva soltanto quando aveva un dettato o una visione. Non espresse mai ostilità o rancore verso la madre, alla quale era molto affezionata, sebbene non ne venisse affatto ricambiata. Era forte ma dolcissima e non autoritaria.

Interloquisce Marta parlando della suprema offerta di Maria: quella della sua intelligenza, e ricordando come il parroco di Bientina, don Falaschi, preparava le sue omelie leggendo l’Opera, e come quelle omelie fossero accolte con tanto favore dai fedeli, anche i giovani.

Nonostante le sue sofferenze, Maria riusciva a trasmettere tanta serenità. Se non l’avesse incontrata, la fede di Paola Belfanti sarebbe rimasta superficiale. Anche il padre di lei, inizialmente scettico, ne era rimasto conquistato.

Interloquisce nuovamente Marta, dicendo che, sull’esempio di Maria, odia le cassette con scritto “elemosine”. Non accetta mai offerte da quelli che visitano la casa da lei custodita, che non di rado vorrebbero darne, ma lei pensa che il denaro, nelle cose dello spirito, sia un sacrilegio.

I Mencarini-Antonini (coniugi Guido Mencarini e Anna Maria Antonini (Viareggio 1916) con cinque figli, di cui tre femmine e due maschi; e Èroma Antonini (Viareggio 1909-1995, sorella nubile di Anna Maria) abitavano due porte oltre casa Valtorta. Èroma (1995). Anna Maria era sposata a Guido nel 1938, rimasta vedova nel 1953, vive con la figlia Livia. Le altre due figlie e i due figli sono tutti sposati con prole. Alcune donne della famiglia resero testimonianze in anni vari dal 1976 al 1982.

Parla il 4 novembre 1981 Èroma Antonini. Nel 1945 la famiglia venne ad abitare in via Fratti. Ben presto i Mencarini-Antonini si resero disponibili ad aiutare Maria. Un giovane conoscente aveva dato a Èroma un’Ora Santa e lei la portò a Maria senza sapere che ne era lei l’autrice. La veggente ne fu dolorosamente sorpresa, perché era una prova dell’incauta distribuzione dei dettati fatta da Padre Migliorini. Maria era franca, aperta, sincera; se faceva un’osservazione a qualcuno era sempre e fin di bene e otteneva di far del bene. In occasione della festa di S. Anna, per la beatificazione di Maria Goretti e per quella del curato Pucci si avvertirono profumi celestiali provenienti dalla sua stanza. Nobiltà di sentire e altezza di vita spirituale erano le caratteristiche della Valtorta, che leggeva dentro le persone, ma sempre con amore. Ebbe la premonizione della morte di Monsignor Rocchiccioli, che morì infatti poco dopo.

Interloquisce Marta, regolarmente presente alle interviste delle altre testimoni, ricordando che l’Èroma entrò una volta da Maria per sfogarsi di un qualche dispiacere, e Maria l’avvertì di frenarsi perché nella stanza c’era la Madonna, che rimase vari giorni, vestita dell’abito nero dei Serviti e piangente per il cattivo comportamento dell’Ordine nei confronti di Maria e degli Scritti. Tutto il clero di Viareggio non sopportava il soprannaturale.

A quel tempo a Viareggio girava una certa Marina, vestita stranamente con una mantellina con cuciti i simboli della Passione, e diceva di avere un crocifisso che sudava sangue; voleva entrare dalla Valtorta che non la volle ricevere. Monsignor Rocchiccioli, confessore di Maria, non aveva alcuna stima di Marina, interloquisce Marta, e da buon esorcista qual era, diceva che “quella andava stuzzicando il demonio con le sue storie”.

Parla, il 19 gennaio 1982, Anna Maria Antonini, sorella minore di Èroma. Sua figlia Maria Cristina, in punto di morte, guarì in modo straordinario per intercessione di Maria Valtorta. Quali caratteristiche della veggente, Anna Maria indica austerità, riservatezza, gentilezza d’animo, dolcezza. Era grata per ogni aiuto che riceveva e cercava di sdebitarsi con piccoli doni come centrini all’uncinetto che sapeva fare molto bene e che la famiglia conserva come reliquie. Maria non poteva invece lavorare ai ferri per lo sforzo richiesto da questo tipo di lavoro, che le era reso impossibile dalle condizioni patologiche della sua colonna vertebrale. Quando era sprofondata nel suo “smemoramento”, Maria emetteva a volte dei gemiti, non si capiva se di dolore o di gioia per qualcosa che vedeva.

I Mencarini la assistevano generosamente la Valtorta, che aveva talvolta crisi tremende e Marta da sola, dovendo uscire per commissioni, pregava la famiglia amica di assistere l’inferma mentre lei era fuori. A volte dovevano correre ad aprire a Padre Sostegno, confessore di Maria, quando Marta era fuori.

Spesso la Valtorta aiutava i bambini dell’Anna Maria con i compiti e nella preparazione di lezioni ed esami. Profumi meravigliosi si avvertirono in occasione dell’apparizione a Maria della Madonna di Fatima nel ’46 o nel ’47. Altri profumi celestiali si ebbero in occasione della festa di S. Anna e quando, nel ’52, ebbe luogo la beatificazione di Antonio Pucci, il “santo curatino” servita. Marta era andata a Roma ad assistere alla proclamazione del nuovo beato, e ad assistere Maria, che aveva bisogno di una presenza continua, si era prestata la signora Panigadi, che dormiva nel letto di Marta. Quando si avvertì il profumo mentre la cerimonia era in corso a Roma, la Valtorta disse: “È l’odore del curatino. È il suo profumo.” L’impressione era che Maria, dal suo letto, avesse assistito a tutto. Un intenso profumo aveva anche la coroncina del Rosario della figlia Maria Teresa, sulla quale la veggente aveva pregato, e il Rosario restò profumato per anni.

Qui s’inserisce la testimonianza, resa nel 1976, sulla straordinaria guarigione della figlia Maria Cristina. La bambina aveva poco più di tre anni quando si ammalò di una violenta broncopolmonite “capillare”. Il medico non tacque la gravità del caso, la curò con la penicillina ma senza effetto. Nella notte del secondo giorno la bambina aveva febbre altissima, gridava che c’era la “otte” (la morte) che la voleva portar via. A un certo punto allargò la braccia e disse che non aveva più paura, perché era venuto Gesù e aveva mandato via la morte con un gesto imperioso, ed era “tanto bello”. Erano le tre meno un quarto, la bambina non aveva sognato, era ben sveglia. La mattina seguente la madre si affacciò alla portafinestra di Maria e le raccontò il fatto. La veggente domandò che ora era, e fu evidente che proprio a quell’ora ella aveva chiesto a Gesù di guarire la bambina.

Più tardi Èroma confermò in tutto il racconto della sorella Anna Maria aggiungendo particolari probanti. La bambina, prima di quell’episodio, non aveva mai visto un teschio, che invece dovette vedere la prima volta all’apparizione della “otte” che veniva a portarla via; inoltre la descrizione di Gesù e del suo vestito coincideva perfettamente con la visione di Lui che aveva avuto la Valtorta. Un giorno Èroma portò la bambina in chiesa a pregare Gesù, ma in quella chiesa c’era un catafalco ricoperto da un drappo con immagini di teschi e la bambina si spaventò credendo di rivedere la morte come l’aveva vista la notte in cui stava per morire. Era l’anno della catastrofe di Superga [1950].

Parla, nel 1976, Livia Mencarini, la secondogenita. Ricorda il doposcuola presso la Valtorta e il fastidio che loro bambini devono aver dato a quella povera inferma. Qualche volta li rimproverava affettuosamente, come una buona mamma. Era un ambiente normale, sano e operoso. Maria aveva sempre qualche lavoretto per le mani, mentre i bambini facevano i compiti a un tavolinetto, che era quello su cui Marta mangiava tenendo compagnia a Maria.

Interloquisce Marta: più di una volta ha visto piangere Livietta, la quale piangeva perché vedeva piangere la Valtorta.

Continua Livia: Maria aveva uno sguardo profondo, pieno di amore. Un anno i bambini volevano fare un bel presepio e le chiesero consiglio. Lei disegnò loro su un cartoncino (facsimile allegato al volume) una carta dell’antica Betlemme (che doveva ben conoscere, essendovi stata in spirito).

Una volta vi fu un terremoto a Viareggio e Maria lo avvertì prima che si facesse sentire la scossa.

Quando giunse allo “smemoramento”, la Valtorta gridava al “sole” in cui era immersa, mostrando una vera gioia. La stanza era piuttosto buia, e poteva anche essere una giornata piovosa. Quando gridava al “sole”, aveva un’espressione estatica. Soggiunge Marta: “Io ti smemorerò nel mio amore”, le aveva detto Gesù. Riprende Livia: forse così soffrì meno in quell’epoca di persecuzioni.

Sempre nel 1976, parla Maria Cristina, la quartogenita, nata il 3 gennaio 1947, come predetto dalla Valtorta. La sua nascita mise pace tra i coniugi Mencarini: il padre aveva un carattere difficile, am dopo quella nascita migliorò e accettò di chiamare la figlia Maria Cristina, obbedendo alla veggente. La giovane, ormai ventinovenne, ricorda ancora nitidamente di aver visto sorgere dal pavimento uno scheletro, ma subito dopo appariva Gesù, vestito di un mantello azzurro, che con gesto imperioso scacciava la morte e subito dopo si sentì bene. Anche Maria Cristina sentì la Valtorta gridare al “sole”.

Parla, nel 1982, Maria Teresa, la primogenita, coniugata con Angelo Martinelli, dal quale ha avuto un figlio e due figlie. La Valtorta era una donna sicura di sé, chiara, decisa, coerente, forte ma non autoritaria, molto riservata. Si vedeva che la Comunione era per lei una grandissima gioia, ma senza esteriorità. Quando riceveva qualcuna delle personalità che si recavano a trovarla, voleva avere qualcuno accanto a sé in caso di necessità e spesso era scelta lei, Maria Cristina, così che assistette alla visita del professor Pende e a quella di Monsignor Carinci. Con Pende discusse animatamente con grande sicurezza e dignità. Il venerabile e anziano prelato cadde in ginocchio di fronte alla Valtorta, col capo chino e con profonda devozione, piangendo. Lei era imbarazzata da quell’autorevole riconoscimento.

La grande veggente era la persona più normale di questa terra, come se dentro e intorno a lei non ci fosse nulla di straordinario. Aveva sempre la febbre e sotto l’apparenza tranquilla e distesa si capiva che doveva soffrire moltissimo. Non l’ha mai sentita lamentarsi e non l’ha mai vista oziosa. Divenne oziosa solo quando cadde nel suo “smemoramento”.

Maria regalò a Maria Teresa Mencarini un bell’anello. Un rosario sul quale ella aveva pregato e che mantenne un profumo celestiale per molti anni è pure un grato ricordo che la collega alla veggente. Quello straordinario profumo era avvertito da tutti. Il rosario, che era stato comprato dalla mamma o dalla zia Èroma, era accompagnato da un bigliettino rosa che diceva: “Cara Maria Teresa. Non perché tu divenga ambiziosa, ma perché tu ti leghi per tutta la vita con bracciale di carità al tuo e nostro Signore Gesù Cristo, Marta ed io ti diamo questo ricordino nel giorno del tuo primo incontro con l’Amore fatto Cibo celeste agli uomini. Maria e Marta – Ascensione di N. Signore 1947”.

Marta interloquisce: il biglietto non era unito al rosario ma ad un braccialetto d’argento che Maria e Marta le regalarono per l’occasione. Aggiunge Marta che Monsignor Sivieri, che pure osteggiava la Valtorta, aveva incaricato Èroma di chiederle di recensire libri per la parrocchia di San Paolino, in modo che non entrasse cattiva stampa nella biblioteca parrocchiale che si stava organizzando. Il Priore Sivieri mandava i libri tramite il sacrestano Francesconi per averne un giudizio. Erano i primi anni ’50 e Maria si sobbarcò a quel compito che era molto pesante: su tutti i libri scriveva il suo giudizio a matita, in modo che si potesse cancellare. Nonostante le avesse accordato fiducia per la valutazione morale dei libri, Sivieri, che non avvicinò mai Maria e non la conosceva, ma pur senza conoscerla espresse giudizi molto pesanti su di lei. Eppure era una sua parrocchiana e un’inferma, che fosse solo per questo avrebbe meritato un minimo di attenzione.

E qui cade a proposito una modesta osservazione del recensore: gran parte dell’opposizione alla Valtorta (e al suo Divino Maestro) deriva da pura ignoranza; poi c’è una buona percentuale di Giuda, magari consacrati, magari alti prelati, che stanno dentro la Chiesa per tradirla e negare ogni manifestazione divina, da Lourdes a Fatima, dalle Ghiaie di Bonate a Medjugorje, ma questi Giuda farebbero poco danno se l’ignoranza degli altri non li aiutasse, e a coronamento del tutto non vanno dimenticati il razionalismo e la superbia: non va dimenticato che i chierici odiano il soprannaturale che esula del loro controllo e li espone alle critiche dei laicisti, che essi temono più del Giudizio: finché si tratta dei miracoli di Gesù, passi, perché sono loro a spiegarli (spesso male) dal pulpito, ma che un laico, o peggio ancora una laica, si azzardi di ricevere comunicazioni dal Cielo senza il loro permesso, questo mai, mai, mai.

Riprende Maria Teresa, ricordando come la Valtorta non sopportava la vana curiosità nei suoi confronti, anche se il suo comportamento era sempre improntato a cortesia, gentilezza e carità. Non si poteva mentirle perché se ne accorgeva subito. Non diede mai lezioni di religione, non saliva in cattedra ma insegnava con l’esempio. Non aveva due facce, teneva sempre il medesimo contegno qualunque cosa facesse. Maria ha lasciato a tutte loro un ricordo gratissimo.

Conferma che la sorellina Maria Cristina disse di aver visto la morte che veniva a prenderla prima che intervenisse Cristo a salvarla, e ogni volta che vedeva un teschio rappresentato da qualche parte era terrorizzata e lo riconosceva come la morte.

Emilietta Ricci (Massarosa 1895-1979) lavorava come domestica a Viareggio. Nubile e sola, imparò da sé a leggere e scrivere; si dedicò ad opere pie. Fu lei a introdurre il professor Albo Centoni in casa Valtorta, tredici anni dopo la morte di Maria. Rese la sia testimonianza il 18 novembre 1975.

Conobbe Maria Valtorta nel 1950, quando la sorella del Priore di San Paolino, che era allora Monsignor Rocchiccioli, la pregò di accompagnarla a visitare un’inferma, che era appunto Maria. Marta però non la lasciò entrare, perché le minacce dell’Arcivescovo di Lucca, Torrini, di sanzioni gravi per evitare “ogni forma di fanatismo” intorno alla Valtorta avevano indotto la veggente a ridurre al minimo le visite. Poi, uscendo di chiesa, incontrò Marta che le chiese una foto di Padre Pio che doveva servire per un ammalato gravissimo, il quale viveva in peccato mortale. L’Emilietta Ricci ne aveva appunto una nella borsetta, perché era stata più volte da Padre Pio e non esitò a darla a Marta.

Successivamente, nel portare a Marta un flaconcino d’acqua di Lourdes, si sentì dire da Marta che Maria desiderava sapere se conosceva i libri su Padre Pio che erano stati messi, tanto per cambiare, all’Indice, per capire come mai erano stati sanzionati. La Ricci portò i libri e questa volta Maria lasciò che entrasse. Cominciò così a recarsi regolarmente dalla veggente, della quale ebbe subito un’impressione splendida, sentì un irraggiamento di calore incantevole. La colpirono gli occhi, che erano come quelli di Padre Pio e di altre persone messe su vie particolari, come Giacomo Gaglione, Jolanda Boni e altre: uno sguardo scrutatore, penetrante, carico di simpatia umana, di carità traboccante, di amore soprannaturale. Pur non sapendo nulla di lei, si rese conto di trovarsi di fronte a un’anima d’eccezione. Da allora prese a frequentarla e si rese conto delle ristrettezze in cui le due donne vivevano.

Maria le parlò della presenza di Cristo e delle Sue divine lacrime. All’accorata domanda di lei, il Divino Maestro aveva risposto che piangeva “per l’incomprensione dei miei amici nei riguardi dell’Opera, a cui tengo tanto e che vorrei fosse pubblicata. Ecco invece che essa rimane giacente nei cassetti. Un giorno essi dovranno rendermene strettissimo conto al giudizio particolare. Perché, se quest’Opera fosse pubblicata, farebbe tanto bene alle anime; mentre ecco che essa, per la loro avversione, resta qui inutilizzata.”

Nell’estate del 1952, Marta si ammalò ed Emilietta divenne ancor più assidua. A parte quando era impossibilitata per malattia, Marta assistette Maria con carità eccezionale, sebbene avrebbe potuto andare a servizio altrove a condizioni vantaggiose. Se Maria è santa (e per l’Emilietta lo è senza ombra di dubbio), anche Marta ha accumulato immensi meriti: assisteva Maria come una madre, con la differenza che una madre ha la consapevolezza di un risultato lieto e positivo, mentre Marta non aveva prospettive per il futuro.

Negli ultimi cinque anni di “smemoramento”, Marta assistette la Valtorta con grandissimo amore, lavandola e imboccandola, perché rifiutava il cibo. Nell’aiutare Marta a cambiare Maria, Emilietta vide il livido del colpo di flagello del 12 novembre 1944. Nonostante lo “smemoramento”, la Valtorta capiva. Quando si celebrava la Messa nella sua camera (la celebrarono diversi, tra cui il Padre Sostegno, Padre Berti, Padre Raschi ed altri), rispondeva alle preghiere e, significativamente, al momento dell’Elevazione del Corpo di Cristo e del calice, esclamava di vedere il sole.

Il Padre Servita Innocenzo Maria Rovetti era a sua volta persuaso della santità di Maria e anche di Marta. Fu lui ad assisterla quando morì. Nelle prime ore dal suo decesso sembrava una bambina che dormisse.

Marta Diciotti (Lucca 1910-dal gennaio 1997 in una pensione dopo una degenza in ospedale in conseguenza di una caduta) rese in vari anni altre testimonianze oltre a quelle già riportate nel precedente volume Una vita con Maria Valtorta.

Il 20 ottobre 1977, Marta testimoniò che il 4 febbraio 1944 la Valtorta ebbe la visione dell’apparizione della Madonna a Lourdes e solo il 2 luglio 1948 entrò in casa il libro Bernadette di Franz Werfel, libro che non era ancora neppure pubblicato in Italia quando Maria ebbe la visione, e quella visione combacia perfettamente con la realtà descritta dal Werfel. Maria mandò Marta a vedere il film tratto dal libro, e Marta rimase colpita dalla sguardo dell’attrice [Jennifer Jones] che impersonava la veggente, che era ben lontano dalla profondità di una persona messa su vie particolari. Gli occhi di chi ha visto il Cielo sono inconfondibili e Marta ne aveva un esempio continuamente sotto gli occhi. Non osò, allora, dirlo alla Valtorta, che smontava come “bazzecole” ogni cosa che suonasse a sua lode.

Maria era irremovibile sul segreto. Certi dettati terribili li bruciò per ordine del Divino Maestro. Infatti chiedeva a Marta uno scaldino per bruciarvi le carte personalmente, non fidandosi di nessuno. Una volta distrutte le predizioni diceva che avrebbe potuto riscriverle parola per parola, ma non se le lasciava assolutamente sfuggire. Anche della tomba di San Pietro non rivelò mai il segreto. Il dottor Viti Mariani, radiestesista, cercò l’ubicazione della tomba di San Pietro su una carta di Roma. La Valtorta lasciava fare perché riteneva la radiestesia un metodo naturale e non magico, ma la tomba non fu trovata perché pare si trovasse al di fuori dell’area rappresentata dalla carta.

L’incredulità e l’incomprensione dei preti la ferivano non per sé ma per l’offesa fatta al Signore. Fu infatti per punire l’atteggiamento negativo della gerarchia che Dio vietò a Maria di rivelare il segreto della tomba del primo Papa.

Anche per le cose più banali di tutti i giorni le contrarietà si accumulavano, come se il diavolo non perdesse occasione di perseguitare le povere donne, come quando un ispettore pretese che all’acquaio in cucina fosse installato lo scarico a becco d’oca, minacciando di non concedere altrimenti il permesso di affittare ai bagnanti per l’estate, e loro avevano un disperato bisogno di soldi. In circostanze simili era Maria a consolare Marta, come se Cristo consolasse il Cireneo e non viceversa. Quando il Cavalier Pisani venne per la prima volta a conoscerla, ai primi di ottobre del 1952, lei lo guardò con il suo sguardo penetrante e gli disse: “Lei è un uomo coraggioso a legarsi a me che non ho mai avuto fortuna sulla terra.”

Fra le assurdità della madre della Valtorta c’era quella di risparmiare la luce elettrica e usare invece moccoli o un lume a petrolio. Una volta, mentre Marta era fuori per commissioni, con un moccolo per poco non diede fuoco alla casa. Un’altra mania dell’erinni domestica era quella di stare alzata fino a tardi a leggere il giornale; regolarmente ci si addormentava sopra, e siccome gli altri non potevano riposare finché non fosse stata lei a letto, decurtava il riposo della figlia e di Marta. Poi però alla mattina c’era la sveglia alle sei in qualunque stagione e con qualunque tempo e sebbene non ci fossero orari particolari da rispettare. La madre era convinta di sopravvivere alla figlia e conservava le minute delle lettere di lei per non affaticarsi troppo a cercare una forma espressiva. Più volte disse alla figlia: “Così, quando non ci sarai più, potrò servirmene.” La madre non pensava mai alla propria morte ma scriveva alle “amiche” (o meglio faceva scrivere dalla figlia) elencando minutamente tutti i suoi malanni.

Il 9 dicembre 1977, Marta testimoniò, fra l’altro, sulla scomodità della casa al tempo in cui ci viveva la Valtorta. La stufetta a cherosene faceva fumo e vari incidenti in cucina mandavano fumi pestiferi che, per la circolazione dell’aria nelle stanze, finivano tutti nella camera di Maria. Solo nel 1977 Marta fece installare il termosifone a metano.

Nel 1940, ricorda Marta, morì il Sor Gino Soldarelli, ex attore del cinema, gran mascalzone e bestemmiatore. Maria, saputo dal dottor Lapi che stava morendo, pregò Monsignor Rocchiccioli di andare da lui a portargli i conforti religiosi e cercare di salvargli l’anima, ma il sacerdote lo trovò già morto. La Valtorta seppe misteriosamente l’ora precisa della morte e quella stessa mattina un feroce gatto nero si avventò sul retino che proteggeva la porta finestra della camera di lei, cercando di entrare, tanto che Maria e sua madre si spaventarono e quest’ultima si precipitò a chiudere la porta finestra.

Il 24 dicembre 1977 Marta testimoniò di aver sognato, verso l’alba del 18 dicembre, Maria, giovane e splendente, seduta sul suo letto. Era la terza domenica del mese, quando alla SS. Annunziata a Firenze si teneva la lettura di un episodio dell’Opera. “Sai, oggi vengo a Firenze”, le disse Marta. Maria si alzò e andò verso la porta. “Te ne vai già’”, domandò Marta. Maria rispose: “Sì, me ne vado, e vado dalla signorina Fausto, perché poi la devo portare con me.” Marta si svegliò e telefonò alla più giovane delle signorine Fausto per raccontarle quel sogno premonitore. La vecchia signorina Fausto, ultraottantenne, era stata buona amica della Valtorta Già a letto da più di un anno, si era aggravata negli ultimi tempi, tanto che avevano dovuto ricoverarla in ospedale. Morì pochissimi giorni dopo quel sogno premonitore e fu seppellita la vigilia di Natale.

Il 18 gennaio 1978 e giorni seguenti, Marta testimoniò che Maria amava sua madre di amore soprannaturale derivante dalla sua meditazione sul comandamento che impone di onorare i genitori. L’erinni domestica peggiorava con l’età. Sospettava di tutti. Appena un’ora prima di morire, gridava accusatrice: “Che mi avete dato? che mi avete fatto bere? Mi avete avvelenata!”

L’erinni calunniò Marta con tutti, perfino con l’avvocato Reggiani che l’aveva avuta alle sue dipendenze. Non credendo alle calunnie e profondamente indignato, i Reggiani erano pronti a riprendersi Marta e le dissero: “Se lei non lascia quella casa e quella vita mortificante, vuol dire che ha una spiccata tendenza al sacrificio. Vuol dunque rovinarsi l’esistenza? Lei è giovane, potrà così vivere la sua vita e scegliersela magari.” E questa era la gratitudine perché Marta aveva portato in casa l’avvocato Reggiani in modo che aiutasse quelle due povere donne a sbrogliare il problema della pensione dopo la morte del padre di famiglia. Marta rimase per amore e pietà verso Maria, e si accontentava di un salario di cinquanta lire mensili. Sarebbe stato impossibile rimpiazzarla per gli scarsi mezzi delle Valtorta. Quindi se se ne fosse andata, Maria avrebbe dovuto andare in ospedale e l’erinni in un ricovero.

Perfino il confessore Monsignor Rocchiccioli, che conosceva bene la situazione, incoraggiava Maria a non farsi angariare e a fare la cresta sulla spesa per avere soldi propri. Ma lei non lo ascoltava. In realtà avrebbe dovuto essere erede universale, ma l’erinni aveva fatto sparire il testamento e teneva figlia e serva a stecchetto. Marta stessa rimetteva in cassa il suo misero stipendio per alleviare le sofferenze e le ristrettezze di Maria.

I momenti di amarezza per gli Scritti furono tali che la Valtorta giunse a pensare di bruciarli. Fu Madre Teresa Maria a fermarla, dicendole che non erano cosa sua. Il comportamento ostile dei Serviti fu tale da spingere Maria a dubitare di se stessa e a pensare d’essere pazza o ingannata dal demonio.

Marta Diciotti con Anna Maria Antonini vedova Mencarini, il 13 ottobre 1986, rievocò i modi bruschi e indiscreti di Padre Sostegno Benedetti che importunava Maria con interrogazioni stringenti: “Ma è proprio vero che lei sente? che lei vede? Ma ne è proprio sicura? È certa di non essersi sbagliata? di non sbagliarsi? Di aver sentito e visto bene? di non ingannarsi e di non ingannare anche noi?” Una volta glielo chiese aggressivamente mettendole davanti agli occhi le Sacre Specie: “Mi giuri, mi giuri che dice il vero! che nei suoi scritti ha detto verità! che non mentisce! che non ha mentito! che non c’inganna! che non ci ha ingannati!” M.V. era molto triste per queste aggressioni. Poi il Padre Sostegno partì missionario per il Canada, dove morì nel 1996, e prima di morire, letti finalmente gli Scritti, cambiò nei confronti di M.V. e la venerò. E qui non resta al recensore che ribadire che l’ostilità alla Valtorta deriva spesso da ignoranza, almeno per i buoni, i malvagi invece altro non desiderano che soffocare il molesto soprannaturale e affermare il proprio misero ego.

Dell’8 dicembre 1986 è il dialogo di Marta Diciotti con Albo Centoni, ripreso su appunti di alcuni anni prima. A proposito della tomba di San Pietro, Maria soleva dire: “Se fossi a Roma potrei dire: Scavate qui, qui c’è la tomba di San Pietro.” Diceva di vedere la figura dell’Apostolo vecchio che, battendo sul suolo col bastone indicava il luogo preciso dove si trovavano i suoi resti, traslati più volte e posti al sicuro in epoche di persecuzione. Maria sapeva ma non rivelò mai il luogo della tomba perché le era stato vietato dall’Alto. La rivelazione era legata all’accettazione degli Scritti. Se la gerarchia li avesse accettati, la rivelazione della tomba di San Pietro sarebbe stata la prova delle sue affermazioni sulla vera origine degli Scritti. La tomba è tra due loculi sovrapposti, uno dei quali serve da segnale a quello vero.

Il professor Ferri, su indicazioni della Valtorta, poté raffigurare l’aspetto del corpo nella tomba; il disegno è accompagnato da una descrizione, della quale non si sa se sia di Maria, di Ferri o del Padre Berti, che dice (pp. 231-232):

Su di un foglio nero di carta da disegno Fabriano, di forma rettangolare (cm 32,2 x 47,5) l’autore ci presenta la salma del santo Apostolo disteso su un giaciglio ricoperto da un grande drappo di stoffa rosso cupo (di velluto? o di raso?): il tutto è composto nel loculo squadrato, di cui si vedono le pareti. In alto verso destra c’è un titolo scritto in matita bianca: “Il corpo di San Pietro nel suo loculo”. Sempre a destra, ma in basso, con la stessa matita, vi è scritto: “Visto da Arturo Bottai 31-7-1952”. Sotto vi è: “Viareggio 1952 Lorenzo Ferri”. Ed infine, ancora sotto: “Visto da P. Berti 31 luglio 1952”.

Dal fondo nero del foglio, come dalla tenebra del sepolcro, emerge il giaciglio funebre drappeggiato di rosso carminio, sul quale giace l’esile figura scheletrica di un uomo piuttosto basso di statura, interamente avvolto in una morbida tunica bianca che ricopre interamente i suoi piedi. Sulle spalle, al di sopra di essa, porta uno scapolare dello stesso colore rosso cupo del drappo e forse della medesima stoffa, che scende per circa tre quarti della lunghezza del corpo e nasconde le mani posate all’inguine, nelle quali è un rotolo (forse una pergamena esplicativa?), di cui il drappeggio segna la sagoma.

Dallo scollo rotondo dello scapolare emerge un esilissimo collo che sostiene la testa mummificata, ma non sfigurata, dell’Apostolo, appoggiata e messa in rilievo da un piccolo cuscino foderato della medesima stoffa bianca della tunica. Il volto, ancora ricoperto da un’epidermide simile ad un cuoio antico assai chiaro, non ha l’aspetto repellente di un teschio, ma conserva i caratteri originari dei lineamenti. La pelle inaridita sostiene ancora i larghi padiglioni auricolari, modella le ossa del cranio con molta evidenza, pone in rilievo gli zigomi, la sagoma del naso ricurvo e ben pronunciato ed il largo mento che sembra ancora ornato dall’arida peluria di ciò che è rimasto della barba giovanile del pescatore. Belli sono gli ampi archi sopraccigliari in cui si affondano gli occhi chiusi nella solennità della pace. La bocca conserva ancora una sua linea e sulle labbra inaridite sembra apparire una celestiale ombra di sorriso.

Anche se, obbedendo al Divino Maestro, non ha rivelato la località della tomba, la Valtorta ha lasciato altre preziose indicazioni, come la collocazione del loculo fra altri due in senso verticale, nel primo vi sarebbero indicazioni utili per la scoperta del sacello del Pontefice. Infine ha descritto la galleria in cui si trova, anzi ha lasciato una scatolina rettangolare che rappresenta la galleria stessa, che Marta mostra (p. 233):

È praticamente un parallelepipedo indicante il volume della galleria che ha due aperture: una sulla facciata trasversale più piccola, l’altra sull’adiacente longitudinale più grande. Sulla facciata minore, accanto al buco indicante la porta, c’è scritto: “uscita Galleria verso sud”. Accanto al buchetto della maggiore: “imbocco galleria verso nord-est”. Poi vi sono le seguenti precisazioni sulle misure, che su per giù ci fanno conoscere il volume della galleria medesima. E sono le seguenti: alta circa 6 metri – larga circa 6 metri – lunga circa 12 metri.

Il 15 marzo 1987 e giorni seguenti si svolge un dialogo tra Albo Centoni, Marta Diciotti e Anna Maria Antonini vedova Mencarini, che tratta in parte argomenti abbastanza leggeri, ma tocca anche punti molto significativi.

Un maresciallo di marina che abitava a Viareggio si recò da Padre Pio e gli chiese che pregasse per la Valtorta. Padre Pio rispose di conoscere la situazione, ma soggiunse: “Se potrò fare qualcosa sarà per la sua anima. Niente invece potrò per il suo corpo.” Mentre si svolgeva questo colloquio, presso Maria si avvertì, alla stessa ora che fu poi verificata, una straordinaria ondata di profumo celestiale.

Il Sant’Uffizio non si muoveva se non dietro una denuncia formale, e questa denuncia ci fu da parte di un Servita, del quale per carità cristiana si tace il nome. Costui, stufo di vedersi continuamente attorno Padre Berti che gli parlava della Valtorta ponendogli questioni, fece come Giuda. Gesù aveva predetto a Maria: “Gli Scritti avranno la mia stessa sorte”, ossia di essere traditi come Egli lo fu.

Dopo la messa all’Indice dei quattro volumi della prima edizione, Marta ebbe occasione di parlare con Padre Sostegno e gli domandò se per leggerli aveva bisogno di una dispensa speciale. Sostegno rispose che non ce n’era bisogno, perché si potevano sempre leggere gli originali o le copie dattiloscritte. Va notato che Padre Sostegno non era affatto un sostenitore della Valtorta: dubitava di lei, la aggrediva verbalmente con sospetto e violenza, sfidandola a giurare sul Corpo di Cristo, come abbiamo visto, solo più tardi, quando si decise a leggere gli scritti e le divenne favorevole. Non stava quindi dando un aiuto da amico, ma si limitava a svelare le astuzie di un clero che non prende sul serio nemmeno se stesso. Marta, nella sua semplicità, abituata all’evangelico “sì sì, no no”, ne fu scandalizzata: “Ma Padre, è un inganno, un’ipocrisia.” Risposta: “Non stare a pensarci su! Il Sant’Uffizio…” Marta esplose: “Il vostro Sant’Uffizio è davvero allora una grande istituzione!” E tra sé, perdendo il lume degli occhi, Marta pensava: “Razza di vipere!… anzi no! di pagliacci! falsi, ipocriti, bugiardi! La Russia [quella sovietica] ha imparato da voi, che c’eravate prima del Cremlino!” E Sostegno insistette: “Se uno ottiene il permesso di leggere [un testo messo all’Indice], può farlo ad alta voce e gli altri possono ascoltare.” A quel punto Marta ha detto che le veniva voglia di non confessarsi più. E non basta ancora: a proposito della scarsa serietà clericale e del peso nullo del Sant’Uffizio, Albo Centoni riferì che un Padre francescano raccontò che al tempo della messa all’Indice degli Scritti, aveva risolto il problema sciogliendo la rilegatura dei quattro volumi in fascicoli, perché il divieto era sui quattro tomi, non sui fascicoli che li componevano. Capziosità farisaiche a non finire: a questo punto cosa resta del prestigio della gerarchia? Non a caso, in numerose attestazioni favorevoli a Maria Valtorta, scritte dopo la messa all’Indice da dignitari ecclesiastici, teologi e docenti universitari, ricorrono dichiarazioni di sottomissione a quello che potrà essere il futuro giudizio della Chiesa, come se il Sant’Uffizio non si fosse mai pronunciato.

L’incauta propagazione degli Scritti da parte di Padre Migliorini, oltre che contraria agli ordini del Divino Autore, era pure pericolosa, perché il Padre li batteva a macchina con molti errori, che potevano comportare seri rischi di eresia. Dopo che Padre Migliorini fu allontanato da Viareggio, l’incarico di dattilografare gli Scritti ricadde su Marta, che si alzava dalle cinque e mezzo alle sei, magari col freddo pungente, per battere a macchina, oltre a doversi occupare di tutte le incombenze indispensabili per mandare avanti la casa.

Nonostante le sofferenze e le persecuzioni, ricorda Marta, Maria era felice, spesso cantava, era spiritosa, diceva battute in vari dialetti. Riferendosi a qualche malefatta dei nostri governanti, Maria declamava (p. 258): “Ahi serva Italia, di dolore ostello”, che Marta erroneamente attribuisce al Leopardi, mentre è un endecasillabo dantesco.

Secondo la testimonianza di Marta Diciotti del 19-20 giugno 1979, nei primi mesi del 1961, M.V. veniva colta da una misteriosa inquietudine, smania, crisi di tormento. Marta tentava di assisterla come poteva, con qualche cardiotonico, abbracciandola e consolandola; e annotò pure la date di queste crisi. Poi da Padre Berti si venne a sapere che proprio in quelle date il dottor Luciano Raffaele, segretario generale della Società Italiana di Parapsicologia aveva fatto dello spiritismo su molte cose di Maria incautamente dategli dallo stesso Padre Berti. Era stato il professor Pende, nell’intento di risollevare le sorti dell’Opera con il pretesto dell’interesse scientifico, a proporre che se ne occupasse la Società Italiana di Parapsicologia, ed ecco perché il dottor Raffaele faceva quegli esperimenti spiritici.

Ai primi del 1960, febbraio o marzo, giunsero a Viareggio il Padre Berti, Emilio Pisani e Luciano Raffaele, che furono ospitati in casa Valtorta. Quando si congedarono, M.V. salutò gli altri due, ma cacciò il Raffaele, gridandogli ripetutamente, col dito puntato verso la porta: “Vai via!”

Testimonianza di Marta Diciotti del 12 gennaio 1986. L’anno precedente, pubblicato da Piemme e pubblicizzato da “Avvenire”, uscì l’infame libro di don Gramaglia contro la Valtorta, che la dice “dotata di facoltà medianiche”, “attratta dallo spiritismo”, una “mente malata”, una “fantasia ossessiva”, “piena di sé”, che aveva delle “allucinazioni”. Nulla di più falso, attesta Marta Diciotti: in ogni occasione Maria manifestò sempre la più energica repulsione verso lo spiritismo, da lei giustamente ritenuta diabolico e combattuto con l’esorcismo di Leone XIII. Una volta in un’abitazione situata fra casa Valtorta e casa Mencarini, si erano installati alcuni spiritisti che furono costretti ad andarsene dalle preghiere di lei. Dopo una notte di pandemonio nella casa dove si svolgevano le sedute spiritiche, due individui si presentarono a casa Valtorta a protestare e dissero a Marta: “Qui non ci si può stare. Noi parliamo con le anime del Purgatorio ma dobbiamo andarcene perché da una parte [cioè dai Mencarini] c’è una che tutte le mattine va a Messa e fa la Comunione [probabilmente l’Èroma] e di qua c’è una che vede il Signore.” “Scusi, eh! Ma come fa lei a sapere queste cose?” domandò Marta. “Eh, lo so, lo sappiamo! Son le anime del Purgatorio che ce lo dicono.” Risposta di Marta: “E non piuttosto quelle dell’Inferno? Se fossero quelle del Purgatorio non vi sarebbero contrasti, e voi stareste bene qui. Ma non è invece il demonio e i suoi amici che voi andate stuzzicando?”

Il libro di don Gramaglia non è che una serqua di velenose falsità, come del resto l’altra opera del medesimo autore, nella quale si cerca di negare l’autenticità della Sindone, secondo un evidente piano dissacratorio volto a stroncare tutto ciò che può ravvivare la Fede e confortare il popolo cristiano, lasciando unica autorizzata a pontificare la superbia dei dottori difficili.

Perché Piemme, editrice cattolica, diede spazio a un sedicente studioso del genere? Anzitutto perché veramente adorno di titoli accademici (povera teologia! poveri studenti!), e poi che c’entri il fatto che il dottor Marietti, andato a visitare Padre Berti per assicurarsi la pubblicazione degli Scritti, si era visto opporre un rifiuto? Poteva sembrare plausibile, almeno giudicando dall’esterno, che i Pisani, dopo la messa all’Indice, fossero disposti a liberarsi dell’Opera. Come può anche darsi che si tratti di una fantasticheria di Padre Berti, come ipotizza il dottor Pisani. Ciò che è certo è che con il Gramaglia, apertamente ostile alla Chiesa dei grandi Papi Pio X, Pio XII e Giovanni Paolo II, furioso contro l’esaltazione della Madonna che bolla in modo blasfemo di “madonnismo”, esaltato per la “teologia illuminata” (la sua), l’isterismo anti-valtortiano tocca il fondo, rivelando come non si può essere contro la Valtorta senza affondare nella menzogna e nell’orgoglio satanico.

 

 

 

 


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