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ORO O O LATTA: QUESTO È IL PROBLEMA
Abbiamo deciso di premiare con opportuni segni del nostro apprezzamento le opere letterarie e cinematografiche che hanno attratto il nostro interesse. Questa rubrica viene aggiornata quando ci pare e il nostro giudizio è inappellabile.

I TRIGOTTI

-Figura_aquila

And the winner is …….

Ecco il vincitore della prossima Aquila d’oro:

Una valida opera di poesia drammatica tesa ad esplorare la condizione umana:

FRANCESCO MAJ (2006) RAPPRESENTAZIONI, Firenze, L’Autore Libri

Segue una recensione ad opera di Emilio Biagini:

 

MAJ F. (2006) Rappresentazioni, Firenze, L’Autore Libri

 

Volume di poesia drammatica, formato da diciotto “sacre rappresentazioni” in versi, adatte ad essere rappresentate in un teatro dall’atmosfera surreale, con personaggi che trascendono lo spazio e il tempo.

Bello nell’insieme, ma sussiste qua e là qualche dubbio su taluni versi che potrebbero far pensare ad una concezione panteista più che cattolica.

Notevole il “Canto di Natale”, sia pure alquanto venato di panteismo, come nel componimento “Magnificat”:

 

L’ora presente si rivela un’alba:

d’essere già vissuta io sento altrove,

in altri tempi ho detto la preghiera

con padri profetanti lungo il viaggio.

Ho udito le promesse del Signore

mentre mangiavo il pane dell’esilio.

 

Qui non si capisce bene quale personaggio parli: il titolo suggerisce che si tratti della Santa Vergine, ma come può essere vissuta altrove in un altro tempo? Per un cattolico la reincarnazione è improponibile. Forse si tratta di una metafora dell’immedesimazione di tutte le donne (o di tutti gli esseri umani) nella vicenda dell’Incarnazione? Comunque non è molto chiaro.

Apprezzabile comunque nell’insieme, e bella la preghiera conclusiva “di un disperato”:

 

O tu che appari, stella solo luce,

seguita a illuminare questa notte!

Alati messaggeri, puro canto,

ripetete l’annunzio nell’attesa!

Breve fiammella nata dalla Terra

invoco imprigionato nella fuga,

debole orecchio aperto alle risposte

io chiedo un cenno della tua presenza!

O Tu che ascolti, illumina e rispondi

ultima meta, puro fondamento!

 

Notevole il canto dei Magi, in cui gli stessi doni prendono la parola: l’oro e l’incenso si rivelano fuggevoli e ingannatori; solo la mirra rimane:

 

Io sono la creatura dell’oriente

e ti ricordo l’ultimo regalo:

il dono da nessuno valutato.

A Te recai dolore onnipresente

delle pietre che scoppiano nel sole,

delle piante bruciate dall’incendio,

dell’uomo senza pace e maledetto.

Son l’unico regalo che ti resta!

 

Il Canto della Via Crucis contiene momenti di riflessione profonda e varietà di personaggi e di punti di vista. Non mancano punti deboli per mancata aderenza alla Scrittura e alla Tradizione: non si parla della tempesta e del terremoto, storicamente ben documentati; e il centurione disse subito: “Costui veramente era il Figlio di Dio.” Non vi è nemmeno il nome: dalla Tradizione si sa che si chiamava Longino e che, pienamente convertito, morì martire a Mantova. È santo sia della Chiesa cattolica e di quella ortodossa. Secondo il poeta, invece, si limita a rimuginare.

Il Canto di Pasqua è sviluppato con maestria, ma desta qualche perplessità sul piano storico, riguardo all’atteggiamento dei legionari romani, che sembra fossero assai favorevoli a Gesù, poiché predicava la pace e certo non la ribellione a Roma, mentre nel Canto pare non ricordino neppure come si chiamava, ciò che sembra un po’ strano, anche con riferimento alla conversione di San Longino, ricordato sopra. I militi messi a guardia del Sepolcro, poi, non erano affatto legionari romani, ma guardie del Tempio: i romani avrebbero saputo fare buona guardia perché erano disciplinati, mentre la soldataglia al soldo del Tempio dormiva e non vide affatto il Risorto. Nicodemo e Giuseppe di Arimatea appaiono tremolanti, depressi e pieni di dubbi, e invece ebbero il coraggio di richiedere il Sacro Corpo per la sepoltura, onde evitare che finisse in una fossa comune. Tommaso poi disposto “a mille volpi”? È un’espressione un po’ oscura, anche se, riflettendo, si capisce che si intendono “astuzie”; ma non sembra che Tommaso fosse sull’orlo di diventare miscredente; piuttosto riteneva difficile credere che il Salvatore avesse ancora voglia di avere a che fare con l’umanità dopo quello che Gli avevano fatto, ed anche questo era certamente mancanza di Fede, ma non così grave come appare dalle parole che il Poeta gli attribuisce. Infine, i discepoli non stettero quaranta giorni “incerti se la barca procedesse”: durante quei quaranta giorni il Divino Risorto assistette costantemente i Suoi, già incoraggiati dal fatto stesso di rivederLo vivo, e li istruì sul Regno di Dio e su quanto restava da fare per propagare la Fede.

Il Viaggio verso Emmaus è una sacra rappresentazione più lirica che drammatica, in pratica una meditazione di profonda ricerca spirituale, priva però di veri spunti drammatici.

Il Canto di Maria, fatta salva, a tratti, la bellezza dei versi, non è molto aderente alla personalità della protagonista e alla sua grandezza di Madre di Dio. Ma come può interrogare il figlio chiedendoGli chi Egli sia? Lo sapeva benissimo Chi era, già dall’Annunciazione. In più conosceva le profezie e il suo strazio per tuta la vita dovette essere quello di sapere fin dall’inizio di quale morte il Figlio sarebbe morto. Resta alquanto difficile, poi, capire che significhi “Lo intesi come lamina affermare (…)”; cos’è, in questo particolare contesto, una lamina? Che sia un errore di stampa? Ma non si riesce a capire che altra parola avrebbe dovuto esserci. E arriviamo alla Passione e alla Resurrezione: ancora una volta la Madonna appare smarrita e lacrimante; certo che piangeva, ma era anche la più grande eroina che il mondo abbia mai conosciuto, l’unica che non perdette mai la fede: sapeva che sarebbe risorto anche se il diavolo la tentava a crederLo morto per sempre, e con le sue santissime e potenti preghiere affrettò di molto la Resurrezione. Cristo doveva restare nel sepolcro tre giorni interi, mentre vi rimase solo trentotto ore. Un altro verso suscita non poca perplessità: “Tu non attendi alcuna apparizione.” Ma perché? Se doveva risorgere, ed era profezia certa e infallibile che lo avrebbe fatto, doveva pure apparire. E infatti apparve per prima alla Madre, sebbene i Vangeli parlino solo delle apparizioni ad apostoli e discepoli. Ma non c’è solo la Scrittura (altrimenti saremmo protestanti), c’è pure la Tradizione a dirci del ruolo fondamentale ed eroico della Santissima Vergine. Trovo poi quanto meno inaspettato l’ultimo brano: un “prologo” davvero “stranissimo”, che appare alla fine invece che al principio del Canto e deride le apparizioni della Madonna; naturalmente molte di queste sono false, ma ve ne sono anche autentiche e preziose, dalla Vergine del Pilar apparsa a San Giacomo, a quella di Guadalupe, La Salette, Lourdes, Fatima, Medjugorje. Ora, l’interpretazione che appare più probabile di questo brano è che voglia raffigurare l’insidia diabolica che vuole neutralizzare l’azione benefica, taumaturgica, profetica e ammonitrice, della Santissima Vergine nella storia.

Nel Canto di Giuseppe, “uomo che, guidato da Dio, diventa grande attraverso la vita quotidiana”, il padre putativo del Redentore è rappresentato come un essere comune, innamorato di Maria come chiunque poteva esserlo. Niente è più lontano dalla realtà: era di stirpe reale, decaduto per colpa degli erodiani che l’avevano spogliato di quasi tutto. Non poteva guardare alla casa di Maria con desiderio, anzitutto perché lei non c’era, essendo una vergine del Tempio dall’età di tre anni, in secondo luogo perché votato alla castità. Divenne sposo di Maria perché, secondo l’uso ebraico che prevedeva il matrimonio delle vergini del Tempio quando avessero raggiunto i quindici anni, si recò insieme ad altri candidati al Tempio recando una verga. Sarebbe stato prescelto quello la cui verga fosse fiorita, e appunto la sua fiorì. Anche Maria aveva fatto voto di castità perpetua e di conseguenza nessuna difficoltà alla loro vita comune come fratello e sorella. Giunto il “momento della prova” non era quindi questione di “cuore innamorato” e geloso, ma di preoccupazione per il voto violato. Appare comunque ben rappresentato il momento della rivelazione della verità in sogno. Nell’epilogo ritornano immagini panteistiche non proprio in linea con la Tradizione cristiana:

 

O gocce che mi avete preceduto,

o gocce che lontane mi seguite,

solo nel calmo respiro del mare

io potrò riconoscere chi sono.

 

L’immagine delle gocce, prive di individualità, non rende giustizia all’individualità umana e all’unicità dell’individuo, garantita dall’anima immortale. Le gocce si dissolvono e si fondono tra loro, le anime no: sono dotate di essere, a immagine e somiglianza dell’Essere, ossia Dio. Prive di essere, le gocce non sono che semplici accidenti. Queste gocce ricordano da vicino le “onde”, anch’esse accidenti privi di individualità, di Baruch Spinoza, filosofo ebraico antesignano della dissoluzione del concetto di “essere”, e quindi assolutamente incompatibile con il Cristianesimo. Certo, in questo caso, il poeta ci presenta immagini poetiche e non certo prese di posizione filosofiche, tuttavia la consonanza con l’immagine spinoziana suscita ugualmente un certo disagio a chi ha a cuore l’ortodossia che lo scrittore cattolico è chiamato a difendere.

 Il Canto di Giovanni (Battista) è ben articolato, con vari personaggi che si alternano offrendo riferimenti all’età contemporanea. Non si capisce, però, l’ambiguo personaggio  dell’angelo “in forma di Erodiade”: che razza di angelo poteva essere quello che rappresenta un essere diabolico? Più grave è il dubbio di Giovanni, non suffragato da alcuna fonte: quando infatti mandò i suoi discepoli a chiedere a Gesù se era il Messia, non era per dubbio proprio, ma per persuadere loro, in modo che si unissero al Redentore. Egli infatti aveva predetto che lui, esaltato come profeta, avrebbe dovuto diminuire, mentre “Colui che veniva dopo di lui”, e al quale egli non era degno di slacciare i sandali, doveva crescere. Giovanni, che esultò nel seno di sua madre all’avvicinarsi della Santa Vergine recante nel grembo il Salvatore, fu sempre una roccia di fede, come, con felice intuizione, lo rappresenta il poeta nei versi di apertura, chiamandolo “l’ostinato scoglio”.

Il Canto di Giuda inizia molto bene, inquadrando la sete di potere del traditore e la sua speranza di ottenere grandi vantaggi da quello che reputava un Messia terreno e la sua progressiva delusione. Le parole di un Demonio colgono nel segno la corruzione del potere e dei metodi per conseguirlo. Poi le immagini si fanno più sfuocate: Giuda diventa quasi sincero, mentre era ben deciso a tradire, legato da sette demoni, in precedenza ladro. Getta i trenta denari in faccia ai sacerdoti non perché pentito, ma perché si rende conto di essere perduto: il suo tradimento gli ha chiuso tutte le porte. Il personaggio completamente sbagliato, però, è Giovanni: di certo il discepolo che più amava Gesù non avrebbe avuto dubbi sulle intenzioni del Maestro, né mai avrebbe pensato che il Figlio di Dio, onnisciente, potesse “illudersi” di salvare Giuda; né tanto meno avrebbe pronunciato, dopo la Crocifissione, parole di bestemmia come queste:

 

Chiamo la terra intera a testimone.

Gli spiriti celati nell’abisso,

gli angeli luminosi di ogni cielo:

se tocca questa sorte all’uomo giusto,

occorre protestare presso Dio

e chiedere giustizia bestemmiando;

se così muore il Figlio dell’Altissimo,

disperazione è l’unica risposta.

 

Questo è un Giovanni troppo umano, non l’apostolo più perfettamente conformato alla volontà del Maestro, tristissimo, certo, ma non ribelle, e sostenuto dalla fede della Madonna, sua nuova madre, la quale mai perdette di vista le profezie e quindi la promessa della risurrezione, e certamente seppe illuminare il figlio adottivo: un apostolo che non avrebbe mai disperato. La disperazione era propria di Giuda Iscariota, non di Giovanni. Giuda disperato, poi, mai e poi mai avrebbe pregato all’ultimo istante l’Onnipotente. I demoni che erano in lui non glielo avrebbero permesso. Allora perché Gesù Cristo, onnisciente, accettò il traditore tra gli apostoli? Per un motivo molto semplice: per dare un esempio ai futuri direttori spirituali, perché comprendessero la necessità di non tralasciare alcuno sforzo nel tentativo di salvare le anime, anche le più nere.

Molto bella la sacra rappresentazione del Canto di Lazzaro, abbastanza fedele al testo  evangelico, con l’unica eccezione di una improbabile Maria Maddalena che dubita del Maestro: non era da lei, così focosa nella lussuria come nella conversione, di carattere intrepido e fermo, a differenza della più debole Marta, adorante il suo Gesù senza esitazioni e senza limiti, dubitare di Lui. Sarebbe stato bene anche introdurre i farisei, lividi di odio e di invidia, accorsi come avvoltoi in casa di Lazzaro ad attenderne la morte e, delusi dal miracolo di Gesù, e ben lungi dal convertirsi, complottarono di uccidere anche Lazzaro perché molti credevano al Redentore proprio grazie a quel miracolo.

Decisamente valido il Canto di Nicodemo, che ben ne rappresenta la ricerca della luce. Solo, manca il nascondimento del protagonista “propter metu Judeorum”.

Molto ben riuscita è la sacra rappresentazione de Il Canto del Figliol Prodigo, profonda esplorazione dei sentimenti e delle motivazioni dei protagonisti, della illimitata misericordia del Padre e del divergente ma simile comportamento dei due figli, il minore che si ribella clamorosamente e il maggiore che tradisce silenziosamente. Straordinaria appare poi l’immagine della “Maga fiammeggiante”, potente simbolo della tentazione che distrugge l’uomo e lo trasforma in animale: evidente il richiamo, in chiave cristiana, all’Odissea e alla Maga Circe. Anche il figliol prodigo è una sorta di Ulisse, perduto nel mondo e fra le tentazioni del mondo. A differenza di Ulisse non è perseguitato da una divinità, ma dal proprio stesso io, che si piega alle tentazioni; non ha da temere che se stesso, un po’ come tutti noi. Il suo ritorno al Padre è l’approdo finale del vagabondo che ha finalmente compreso la vanità del mondo che tenta e inganna; e a questo proposito un simbolo potente ed originale è quello della “danzatrice molle di profumi” che si trasforma in uno scheletro. Alla fine anche il figlio maggiore si rivela bisognoso della misericordia paterna, ricordandoci che tutti, anche se ligi al dovere, siamo solo dei poveri peccatori.

Delicato il Canto della madre, che accosta idealmente ogni maternità a quella della Santissima Vergine. I versi scorrono disegnando un destino che potrebbe essere lieto o terribile, perché “uragani infesti sono figli / di luminose soste meridiane”, e il figlio tanto atteso potrebbe rivelarsi un trionfo, ma anche un disastro. Ciò non deve tuttavia impedire alla vita di andare avanti. È la madre sempre e comunque che tesse il futuro.

Giungiamo così ad una vera perla, il Canto di Maria Goretti che segue la vicenda della giovanissima santa, vera anima vittima, in un succedersi commovente, profondo e ricco di bellissimi versi, come in “Chiaro di Luna”:

 

Vedo specchiarsi candida tra i giunchi

immobile la luna dell’estate…

La bellezza dell’attimo improvviso

si scioglie in cuore, seme sotto terra.

 

o in “A Messa”:

O Tu che in rapimento mi consegni

nuovamente ai sentieri della Terra

ignara del domani che mi insegue,

Padre buono, mi libera dal male!

 

Un solo punto di dubbio: in “Dal cuore dell’uomo”, i versi, peraltro bellissimi che dicono:

 

O cuore umano, mare senza riva,

di tali meraviglie sei sorgente

che illumini di gioia il paradiso

e di tali misfatti sei l’origine

per cui trema l’inferno di spavento!

 

Il dubbio è: ma l’inferno può tremare di spavento di fronte ai misfatti dell’uomo? Dato che il demonio è un tale concentrato di male da rallegrarsi soltanto di fronte alle atrocità commesse dall’umanità, tremerà piuttosto di delizia diabolica.

Sublime “Il passaggio”, quando l’anima beata della santa raggiunge il meritato premio:

 

Si aprì la porta e subito scomparve.

Più la luce terrena non risplende;

la campana non suona della sera;

le piaghe hanno cessato di bruciare.

O sonno non turbato da visioni,

ristorami di tutte le vicende!

Insegnami, silenzio profondissimo,

quanto fu puro suono e solo immagine!

O spazio senza limiti si ostacoli

Conducimi per secoli lontano!

Il mare irrompe nella breve goccia

E senza turbamento la rinnova,

Una strada lunghissima si schiude

E nasce una pianura sconfinata

E quanto fu memoria si rinnova,

trasfigurato torna il mio passato.

Un’unica Presenza tutto illumina.

Ricordi, desideri si dilatano

In voli che non hanno più confine.

O Vita Nuova, donami di vivere!

 

In questa prospettiva di paradiso, anche l’immagine della “goccia” che, in altri contesti, poteva richiamare concetti panteistici, non essendo la goccia di per sé dotata di individualità, assume una prospettiva decisamente più chiara e teologicamente accettabile. Infatti è possibile pensare ad un Divino Oceano infinito che crea, e poi richiama a sé, le gocce che sono le anime che Egli ha creato. È evidente infatti che la “goccia” continua ad esistere come individuo anche dopo essere tornata all’Oceano divino, altrimenti non potrebbe richiamare a sé e redimere la goccia “colpevole” che viene redenta. Ciò appare ancora più chiaro dal bellissimo “Congedo”:

 

La Voce senza suono parla in cuore

mentre ricordo e medito pregando

la sorte della martire sorella.

Io vivo nella Notte, eppure avverto

in regni liberati dallo spazio,

ardenti fiamme, spiriti celesti

convivere nell’aria luminosa.

E vedo umani cuori e volti umani

rapiti in comunione senza tempo

nella Presenza fonte della vita…

Ivi il tormento crudo della terra

libera al volo il canto della gioia

e, offerta pura in calici viventi,

si sciolgono le torbide vicende,

e quanto fu presagio e appena cenno

illimitatamente si distende.

Ivi Alessandro vive con Maria

ed il ferro omicida sulla terra

risplende d’oro come una ghirlanda

e la palude è tutta in fioritura.

O tu che viaggi curvo sulla terra

dubbioso nella nebbia dell’istante

e nella calca vivi da Nessuno,

respirando l’affanno dell’insidia,

non avverti la nascita incessante

che ti affatica, nell’attesa memore

delle schiere celesti vittoriose?

All’effimera luce tentennando,

o ancora senza nome pellegrino,

a piene mani semina nel tempo!

 

Segue immediatamente un’altra perla, Il Transito: una splendida meditazione sulla morte che contiene versi commoventi e profondi, dei quali appare necessario riportare almeno qualche esempio.

 

A una ad una, strade del passato,

volti veduti e voci appena udite,

alberi, sassi, nuvole e torrenti,

io vi saluto mentre me ne vado

e vi ringrazio con affetto memore…

e come dono splendere vi avverto

della sorgente che mi diede vita.

 

Di fronte al giudizio, il poeta si pone in atteggiamento di supplica, secondo la lunga e santa tradizione cattolica che ha un modello esemplare nel Dies irae:

 

Angeli dell’aurora sempre nuova,

cori di santi, spiriti in attesa

con fiamme pure, dono dell’amore,

redimete l’immondo che vi supplica,

calmate il vuoto ardente che mi piaga.

 

Il bellissimo canto termina con un’intuizione del Paradiso, in cui tuttavia riemergono espressioni di sapore alquanto panteistico:

 

L’origine comune si rivela,

tutto rinnova e porta a compimento

e sono cibo e sono commensale,

vento che soffia e foglia trasportata,

uno e diviso, a tutto compartecipe.

 

Il Canto di un soldato, ben congegnato, scorrevole e largamente condivisibile, avrebbe potuto essere un capolavoro se non per un dettaglio che lo rovina alquanto. In “Un’occasione soltanto mia!”, il protagonista ha l’opportunità di eliminare un soldato nemico, ma non spara. Benissimo: alla fine arriva la disfatta. Le truppe avversarie incalzano, i nostri crollano, il protagonista fa una morte poco eroica. Ma viene da chiedersi: quanti di quei nemici che hanno massacrato i nostri sono stati risparmiati da poveri diavoli che non se la sono sentita di sparare, come appunto ha fatto il nostro soldatino? E così, uno spirito un po’ maligno esclamerebbe: “Ti sta bene! L’hai risparmiato? Ma lui non ti ha ricambiato il favore!” Non sarebbe stato meglio, sia dal punto di vista drammatico che da quello poetico, rinunciare al buonismo di risparmiare l’avversario? Successivamente il protagonista, colto dal rimorso, avrebbe fornito una migliore occasione per drammatizzare l’evento e meglio sottolineare la condanna della guerra. Così, invece, un filino di ridicolo si insinua in un Canto altrimenti validissimo, a riprova dell’adagio, ben noto a tutti gli scrittori, che dal sublime al ridicolo c’è solo un passo.

Il Salto degli sposi racconta una leggenda della Val di Scalve: il suicidio, avvenuto due secoli fa, del musicista polacco Massimiliano Paihoska e di sua moglie Anna Stareat, che insieme, vestiti a festa, si gettarono al sorgere della luna abbracciati nel precipizio. Forse a spingerli al disperato gesto fu la paura del futuro, ossia il timore che l’amore finisse, o più probabilmente l’angoscia della separazione, quando uno inevitabilmente sarebbe morto lasciando solo l’altro. Il componimento è una sequenza di versi bellissimi e romantici, sebbene desti non poca inquietudine l’esaltazione del suicidio ne “L’ultima preghiera”:

 

Lo Sposo:

Amara è la vita per chi resta sola.

Non puoi tu, Signore, donarmi di vivere

con lei che rimane e insieme morire?

La Sposa:

Morire è pur dolce se è morte d’amore…

Non puoi tu, Signore, donarmi la morte

con lui che scompare per vivere insieme?

Lo Sposo e la Sposa:

La vita e la morte non hanno confine,

l’amore soltanto ci dona di esistere.

È dolce morire per vivere insieme!

 

Eh no, ragazzi, un momento: anche Paolo e Francesca morirono insieme e insieme restarono a vivere anche nell’altra vita, ma all’inferno; e non erano neppure colpevoli di suicidio ma erano stati ammazzati a tradimento, quindi più degni di compassione. Comunque “Un ammonimento a chi resta”, che conclude il Canto, ed è di grande valore poetico, al pari di tutta l’opera del Maj, l’ammonitore esorta giustamente a non giudicare, perché solo nell’aldilà potremo conoscere quello che il velo della carne ci impedisce di vedere:

 

Io sono quel mistero da sempre interrogato

che imprime ad ogni evento il nome che non muta.

 

Io sono quel Silenzio che ascolta le parole,

il desiderio insegue e legge nella mente.

 

Io sono quell’Oceano a cui le gocce mobili

in mille e mille fiumi domandano la pace.

 

La Stella non visibile io sono che ricorda

ad ogni navigante la traccia da seguire…

 

A te che ancora interroghi la sorte degli sposi

io dico di tacere: risposta non attendere!

 

Io sono quel Mistero che solo si rivela

all’ultimo momento nell’ultima Parola.

 

L’ultimo Canto, “Il testamento di Carlo Michelstaedter”, è dedicato a un giovane filosofo goriziano, suicidatosi a ventitré anni perché si persuase che non esistesse un valore assoluto a fondamento all’esistenza. In definitiva un disgraziato che, ubriacato dalla propria presunzione di potere con le proprie forze scoprire l’Assoluto, finì per approdare a “La bestemmia finale”, che forma l’ultima parte del Canto, che così termina:

 

O nulla che divori e non intendi

e illudendo torturi inconsapevole

indifferente mostro senza nome

io so come spezzare la catena

innocente che strazia ed abbandona…

Ora ho compreso ed ora ti rispondo.

più non intendo bere la lusinga

delle promesse a facili domani.

Invoco il maledetto che in futuro

sappia carpire l’ultimo segreto

che tutto annienti, fulmine non visto,

e sorridendo, bello di vendetta,

ti spenga in ogni dove eternamente.

Io lo precedo, lucido ribelle,

e ti rinnego finalmente libero

nel silenzio infinito della morte.

 

Questa conclusione richiama la poesia satanica in voga nell’Ottocento e ai primi del Novecento, e non tanto l’Inno a Satana del Carducci che lo stesso autore più tardi definì “una chitarronata”, quando piuttosto le poesie giovanili di Karl Marx, cupe e sinistre, del futuro estensore di “Das Kapital”, poesie nelle quali il poetastro di Treviri si scaglia contro quello che chiama “il nano gigantesco”, cioè Dio, come la sua mente distorta lo concepiva. È merito non da poco del Maj, l’aver saputo cogliere in modo così drammatico e profondo un atteggiamento mentale che certamente gli è estraneo. È ciò infatti che distingue il vero drammaturgo: saper mettere in bocca ai propri personaggi le parole che essi direbbero e penserebbero, e non le opinioni dell’autore stesso. Questo canto finale è un’interessante e profonda esplorazione del nulla che attanaglia l’infelice che non crede, e quindi nel nulla della morte eterna precipita senza speranza.

Sebbene non sia facile dare un giudizio d’insieme di questo volume, formato da opere bellissime e da altre che, pur esteticamente pregevoli, possono suscitare qualche perplessità, non si può non concludere ammirando il talento poetico dell’Autore, che meriterebbe di essere assai più conosciuto e rappresentato in scena. Solo che il regime relativista dominante giocherella con le medesime idee di Carlo Michelstaedter, senza avere nemmeno il coraggio di levarsi di torno, e promuove agli onori delle cronache robaccia che domani non servirà nemmeno a far fuoco. Ma sia pure conosciuta da pochi, l’opera del Maj resterà.

EMILIO BIAGINI

 


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