Parliamo, senza pretese di originalità, delle fonti della Fede. La fonte primordiale è l’umiltà. Di fronte alla vastità e agli splendori del Creato, l’uomo non può sottrarsi all’idea di una maestà nascosta, sapiente, al di là della nostra comprensione. È questo lo stadio del teismo, raggiunto da ogni popolo a qualsiasi livello di civiltà. Come dice Cicerone nel De natura deorum, non vi nazione tanto barbara da non avere l’idea di Dio. L’ateismo, ammesso che realmente esista e non si limiti ad una superficiale moda, non è che il ripiegamento di una mente malata su se stessa, gonfia di orgoglio insensato che la spinge a pensare che non deve esistere una realtà superiore al proprio Io: la cura a tale errore è appunto l’umiltà.
Dallo stadio della generica accettazione del fatto che dev’esservi una divinità si sale al riconoscimento dell’esistenza di Dio mediante l’amore. Nel Creato si manifesta la bontà dell’Essere supremo ed è quindi del tutto naturale amarlo. A questo punto si arriva a scoprire il contatto con Dio: è la fede, e dalla fede nasce la speranza di incontrare questo Dio e di conoscerlo. La fede stessa si fa sostanza di cose sperate ma non ancora raggiunte. Vedi la definizione di san Tommaso d’Aquino nella Summa teologica. Come scrive il Sommo Poeta: “fede è sustanzia di cose sperate / et argomento delle non parventi, / e questa pare a me sua quidditate”.
La più perfetta manifestazione della fede si trova nei Vangeli. Un Dio che si sacrifica per le sue creature, che le ama al punto di affrontare per loro una morte atroce per salvarle dal peccato e da pene orribili ed eterne. E qui si manifesta il grande nodo: il male. Per molti è un ostacolo che tarpa la fede: “Se Dio è così buono, perché esiste il male?” dicono, e ancora: “Se è vero che Dio è l’autore di tutte le cose, allora ha fatto anche il male.” Taluni inventano un dio malvagio che combatterebbe quello buono: è il manicheismo. La risposta a tali angosciosi enigmi è già stata data molti secoli fa da s. Ireneo, da s. Agostino ed altri.
Come il freddo non è una cosa ma la mancanza di una cosa, il calore, come il buio non è una cosa ma la mancanza di luce, come il vizio e il peccato non sono cose ma sono mancanza di castità e di onestà, così il male non è che mancanza di bene. Il calore e la luce si possono misurare, castità e onestà si riconoscono dai loro positivi effetti. Al contrario, freddo, tenebra, peccato, vizio, solo solo nomi che diamo al vuoto lasciato dalla mancanza dei corrispondenti beni. Se Dio è il Tutto, non può esservi in lui nessuna mancanza, nessun male.
Ma allora come nasce il male? La risposta è semplice: il male nasce nelle creature superiori, angeli ed esseri umani, tutti esseri dotati di libero arbitrio. Il libero arbitrio è il massimo dono della libertà dato da Dio alle sue creature. E la libera volontà può inclinare dove vuole, verso l’amore o verso l’odio, verso il bene o verso il male, verso l’obbedienza alle sante leggi che Dio ha insegnato alle creature per proteggerle, o verso la ribellione.
Dio è amore, e l’amore ama, vuole espandersi ed essere amato. Ma l’amore, per sua natura, è possibile soltanto fra esseri liberi. E le creature libere che liberamente scelgono il male non vengono obbligate da Dio a fermarsi, a correggere le loro scelte. Altrimenti non sarebbero più libere. Dio onnipotente potrebbe obbligarle, ma non lo fa, perché si è imposto di rispettare le loro scelte, qualunque esse siano. Questa è dunque una necessità secondaria e inviolabile quanto quelle primarie (ad esempio la necessità di esistere: Dio non può cessare di esistere).
Quando una parte degli angeli, capeggiati da Lucifero, si ribellarono alla volontà divina, per superbia e invidia verso le creature umane, Dio non li fermò, così come non ferma gli esseri umani quando si ribellano alla Sua volontà. Anche così, Egli non abbandona le creature ribelli, ma cerca in ogni modo, con ogni bontà, ogni misericordia, ogni sacrificio, di persuaderle al ravvedimento. Solo quando la ribellione è incancrenita e irrimediabile, cessa il tempo della misericordia e inizia il tempo della giustizia.
Le creature indurite nella ribellione non possono che venire abbandonate al male che hanno liberamente scelto, ed è questa la terribile punizione, questo è l’inferno: la definitiva lontananza da Dio, la privazione della Sua presenza e della Sua amicizia, cui si aggiungono vari castighi, graduati a seconda della gravità del male in cui le sciagurate creature hanno scelto di sprofondarsi. Ma anche nell’inferno (che è un luogo terribile, non solo uno stato d’animo, come la Chiesa cattolica ha sempre creduto, come precisò il Divino Maestro alla grande veggente Maria Valtorta; un luogo tutt’alto che vuoto che è stato più volte mostrato ad altri veggenti come ad esempio di pastorelli di Fatima), anche nell’inferno, come insegna s. Caterina da Genova, Dio spande la Sua misericordia.
Infatti la gravità dell’offesa è proporzionata al valore di colui che viene offeso, e siccome il peccato è offesa a Dio, che è Persona infinita, merita pena infinita. Ma Dio attenua il castigo in misura della gravità in sé dell’offesa. Così i peccati di incontinenza sono meno gravemente colpiti di quelli di violenza, e questi ultimi subiscono condanna minore di quelli più atroci commessi con malizia e tradimento. Sono comunque tutti terribili perché eterni.
Gli angeli ribelli in modo definitivo non possono più pentirsi. L’essere umano dopo la morte entra nell’eternità e non può più cambiare, così che riceve il premio eterno o la pena eterna che ha meritato. Poiché quasi tutti gli esseri umani che raggiungono la salvezza hanno ancora delle imperfezioni, devono riparare in purgatorio con pene per periodi più o meno lunghi prima di poter entrare nella beatitudine celeste.
Il premio del paradiso ha varie forme. I beati ricevono il soddisfacimento di tutti i loro desideri, ritrovano le persone amate e le opere che hanno compiuto in vita, ottengono il riconoscimento per quanto hanno fatto di buono sulla terra: nulla si perde perché Dio non dimentica nulla. Ma questi sono solo i premi minori, che siamo in grado di immaginare e di esprimere verbalmente. Il premio maggiore, la presenza di Lui, la comunione con Lui, la visione beatifica, sono tutte cose che non si possono esprimere a parole, assolutamente ineffabili e perfette. Vi sono varie gradazioni anche in questo, ma nessun beato invidia quelli che hanno raggiunto più alti gradi di perfezione, perché ha il massimo di beatitudine che la sua anima può recepire.
A questo glorioso trionfo conduce la Fede, con la Speranza e la Carità. Anzi, la Fede ha ormai terminato il suo compito e cessa perché l’anima beata ha ormai la visione diretta. Cessa pure la Speranza perché è divenuta ormai certezza pienamente realizzata. Quella che rimane in eterno è la Carità, l’amore giunto alla perfezione che riempie l’anima non lasciandole nulla da desiderare per tutta l’eternità.
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