LA POESIA GENOVESE NEL SEICENTO
GIANGIACOMO CAVALLI
IL CARATTERE
Dalla poesia di Gian Giacomo Cavalli emerge il volto e l’anima del poeta. Delle sue qualità fisiche non si ha alcuna notizia. Solo da un sonetto di Antonio Riccardi si deduce che la sua compagnia era piacevole, la sua conversazione arguta e corretta. Il Riccardi si stupiva appunto che, malgrado tante belle qualità, non fosse più fortunato in amore:
Ballin, se voi scrivei, se voi parlae
Tutto bonombre sei, tutto dottrin-na
Me maraveggio da vostra Maxinna
Chi zeumoe no se lasce un po’ recrae.
Ve zuro certo pe re mae pecchae
Me sata quarche volta ra berlinna
Che u pestummo de frasca si picinna
Ve tire a questo meno mille freccae.
Il carattere del poeta si manifesta, ad esempio, in un grazioso sonetto il poeta enumera tutte le più atroci torture che sarebbe disposto a sopportare pur di rendersi gradito alla sua bella. Fra i tormenti più spaventosi, come lasciarsi ridurre in pezzi, gettarsi nel fuoco, correre a piedi nudi nelle spine, uno ne aggiunge: fare giuramenti falsi. Ciò è abbastanza significativo:
Per fàma ben vorrei, per fàme caro
A questa coppa d’oro de Zanin-na
Me croù che pessi comme ra tonnin-na
Me lascerae redue, l’averae caro.
No m’avereiva in breiga ni descaro
Beive per doce l’aegua de marin-na
Piggerae per siroppo de cantin-na
L’aloè quand’o foisse ciù amaro.
Corrirrae dent’re spinne a pé descaci,
Me caccerae in’ro feugo bello nuo,
Farae, se poesse, zuramenti faci.
Quel “se poesse” è una rivelazione. Per tutte le pene crede di avere, la forza sufficiente; per questa no, e in questo rivela la sua rettitudine. L’onestà è una nota dominante nel carattere di Gian Giacomo Cavalli, il titolo di gloria a lui più gradito. È da notare, tuttavia, che il giuramento, all’epoca, era un atto ben più grave di oggi, e la sanzione minacciata per un giuramento falso era l’inferno, cosa che oggi non spaventa più nessuno, ed è per questo che la morale è andata a rotoli e l’inferno si riempie sempre più. In un altro sonetto diretto a Bernardo Schiaffino che gli aveva mandato una poesia di altissima lode, Gian Giacomo risponde con rude sincerità: “Perché tante lodi? Fatemene una sola e che sia degna d’esser tenuta per vera: dite ch’io sono un galantuomo; il resto va tutto bene”. Scrivendo al Padre Fulgenzio Baldani, suo ammiratore entusiasta, parla di sè stesso modestamente così:
Povero sciabegotto de fortun-na
Per atro bon a vive sciu un scheuggio
Galantommo impastoù de bonna lun-na
Poeta, ma per gusto d’orofeuggio
Ciù che d’oro ond’o n’ha brama nisciun-na.
Argomento della maggior parte delle sue liriche è l’amore per una donna insensibile e crudele che ride di lui. Questa donna, si chiami Minna o Zannina è sempre la stessa, come sempre lo stesso è l’amante, per quanto canti in maschera ora di pescatore ora di contadino. L’arte è così sapientemente connessa alla vita, che riesce difficile definire dove sia la realtà e dove la fantasia. Questo sentivano già i suoi contemporanei, uno dei quali, Bernardo Schiaffino, gli diceva:
Doi d’unna sola pria corpi ti fae
Finto e vero aggroppando …….
Si disse che “la lirica del Cavalli è tutta sentimento, finezza, più spirituale che sensuale; più che il possesso materiale della sua bella, pare invochi l’anima sua: sembra Dante che invoca Beatrice e Petrarca che invoca Laura”. Nulla di più falso. Lasciando stare il Divino Poeta che fa parte per se stesso, dominando dall’alto l’innumerevole schiera dei poeti grandi e piccoli con i quali non può esssere in alcun modo paragonato, il paragone è pur sempre assurdo anche limitato al Petrarca. L’amore spirituale è immutabile, eterno, come eterna è l’anima; tale è l’amore del Petrarca che resiste al tempo, alle ripulse, trionfa della morte stessa; non così nel Cavalli che dalla devozione passa alla rivolta, per ritornare poi più umile; dalla passione più impetuosa all’odio per arrivare all’indifferenza completa:
Tiranno m’ha ghioù boxardo e ingiusto
Che con l’esca d’inganni m’ha pasciùo:
Donna ho seguio, chi m’ha fin chì vendùo:
Mundo chi m’ha zeùmoae frusto e refrusto.
Egli non invoca affatto l’anima della sua bella, la quale è tutt’altro che spirituale. È una ragazza del popolo, di una bellezza del tutto fisica, allegra e civetta, che si compiace di tormentare il poeta:
Ra mae bella Zanin-na
Se ben per atro poco a me regalla
Quarche votta che l’è così de galla
Per stà con meigo un poco in pavarin-na,
Pà che così con l’eùggio
A m’aggran-ne, con dime, cose veuggio?
Mì, che son dent’ro feùgo
Che me veggo fa giusto ro mae zeùgo,
Ghe respondo con l’eùggio a lé assie,
Finché a rompe ra giassa o lé o mie.
Così con quarche attacco
Comm’a dì, de rixetti o de sospiri,
Che Amò ne mostra sempre mille tiri,
L’un l’atro mette man per dine un sacco.
Mi, che son parte offeiza,
Començo per levaghe ra defeiza:
E comme in frenexia
Con ri denti serrae ghe diggo: Stria.
Con ra bocca ben spesso bell’amara
De lançameghe in cera e d’addentara.
Del contenuto di questa canzone e di altre sullo stesso tono, è facile capire che il tormento dell’uno, costituisce un divertimento per l’altra, che spinge la sua crudeltà sino a fare del suo fedele e poco fortunato amante, l’oggetto dei suoi motteggi e delle sue risate quando scende sulla piazza colle compagne: questo lo narra in una graziosissima canzone che è una riuscitissima pittura dal vero:
Ra mae bella, amoroza comm’un zin,
Quando, per dà ra stazza
A ro fresco da ciazza,
L’è con ri atre assettà sciù l’arenin,
Per fà do bell’umò sciù mi assie,
Veggo, che in accostàme,
A comença a squadràme,
Che segnando a re atre a se ne rie,
Comme a dì: Aora fasso in sciù ro mae:
Belle, daeghe a Ballin, ch’o l’é chi lé.
Così, tosto ch’a vae l’occaxion
De fà ra sò faççeura,
Da lesta a l’esce feura,
Bellamente a me mette a ro landon:
Figge, a dixe, l’é chi l’appassionnoù.
Mirae che cera fùta.
Ogni poco de sdùta,
O ve cazze a ri pé chi strangoscioù.
Meschin. O voì levaero d’angonia,
O che tra chi e un’ora lé va via.
Appare ben chiaro da questi versi, che non siamo qui nel regno dell’ideale, ma in quello della materia, della realtà visibile e sensibile: ciò che agita il povero Cavalli è una fiamma che gli riscalda il sangue, ma non arriva al cuore, ma è piuttosto passione disordinata. Di questa passione, però, egli si fa ala per innalzarsi a Dio:
Sciù ri anni primmi, quando andéi zirando
Amò servìi mì assì con ra mae picca,
Sordatto de fortun-na sospirando,
Ma visto, Giustinian, de no fà bricca,
L’annima conseggeì e andà svorando
A ciù nobile Amò per fàse ricca.
A sospingerlo verso Dio contribuì forse non poco il pensiero della vanità, della instabilità delle cose umane, delle fortune terrene, che gli affacciava assiduo, costante alla mente anche nei momenti in cui la vita con i suoi desideri, i suoi bisogni, sue miserie, pareva prendere il sopravvento:
A che con tanta gora
Se cruçia e se travaggia
Ro Mondo apreùo a tanti pensamenti,
Se ro spasio d’unn’ora,
Anzi un feùgo de paggia
Se ne porta con lé ri nostri stenti?
Creùvan ri morimenti
In doì parmi de fondo
Anceù è sotto ra ciappa
Tà che serviro in cappa,
Ch’eri a capiro non bastava un mondo;
E in doì bàgi de galli
Tà è scentòu chi dava eri ri balli.
È un pessimismo temperato, sereno; così lontano dalle conclusioni di chi maledice la vita perché non la trova rispondente alle sue speranze, come da chi crede che sia possibile trovare un compenso ai dolori e alle delusioni avvoltolandosi nel fango; egli pensa che così com’è, la vita ha pur sempre del bello e del buono, che si può cogliere e godere in santa pace:
Lichinna, oh quanto è megio
Largo da re çittae
Fà vitta int’ri boschetti a ra verdura.
Chi e lì fase spegio
Di laghi inargentae,
Letto de l’erbettin-na da cianura.
Atro studio, atra cura
No covà dentr’o peto,
No portà drento ascoza,
Solo ciaga amorosa
Faeta da ra sò Donna per despeto.
L’oro chi pà ro ciùe,
Mettero tra re Indie perdùe.”
Ma gli anni e le delusioni si accumulano sul capo ormai canuto del poeta che volge un nuovo sguardo a “questa vana ombra che ha nome di vita” e si accorge che gli ha fallito interamente; che nulla vi è nel mondo di veramente bello e di interamente buono, ma tutto è vanità, errore, illusione. È il pessimismo che si affaccia nell’anima di tutti coloro che hanno vissuto e sofferto e non si sono mantenuti, a dispetto degli anni e delle sofferenze, irrimediabilmente e spaventosamente fatui:
Aora che in ro cangià barba e cavelli
Cianzo con canti ro mae primmo cento
Conoscio cos’è pascese de vento
Ciamando unna coassa oro d’anelli:
Se quattro fire d’oro in canestrelli
Son ligagge da ommo, o pu da foento:
Cos’è un longa mà pro, breve un contento;
Cose son questi giorni e cose quelli.
E così, a poco a poco, egli riesce a staccare il cuore da tutto ciò che è umano e transeunte, per fissare l’anima e la mente alle bellezze eterne:
L’anima conseggeì a andà svorando
A ciù nobile Amò per fàse ricca.
Non è però un figliuol prodigo, un convertito dell’ultima ora, Gian Giacomo Cavalli: il sentimento religioso in lui non è qualcosa di esteriore, è ragione intima e profonda della sua vita. Il pensiero di Dio e della vita futura è sempre presente nelle sue poesie; aleggia perfino, espresso o sottinteso, in quelle di argomento affatto profano, spesso uno scatto d’ira o di disperazione è subitamente corretto da un “Dio mi perdoni.” Una frase troppo ardita è attenuata da un “se non pecco a Dio”.
La sua fede, forse un po’ illanguidita durante la giovinezza, è però sempre quella appresa nei primi anni e mai più dimenticata: l’espressione ne è ingenua, sincera eppure magnifica, così che in certe espressioni ricorda perfino il Manzoni. Così il concetto della divina Provvidenza onnisciente, onnipotente, è racchiuso in una breve sestina di una semplicità grandiosa e commovente:
Che in desgroù do Çe pur un-na
Feuggia in terra no vacilla:
Che l’é lé chi ha in man ra brilla
Da Fortun-na;
Lé chi umilia e chi solleva
Chi da tutto e tutto leva.
La sua tenera devozione alla Vergine egli effuse nella Corona Sacra, una collana di nove sonetti insieme uniti che chiudono la prima parte delle sue liriche e in questo sì, egli ricorda il Petrarca che chiuse la prima parte del suo “Canzoniere” con la canzone alla Madre di Dio. Quello che nel Cavalli ricorda ancora il cantore di Laura è la forma sempre fine, sovente elevata ed elegante: “Musa cara, discreta, accostumà” chiama egli la sua Musa e ne ha ben ragione dato che mai gli sfugge un motto scurrile, un’espressione volgare, una frase ambigua, ciò che tanto più meritorio perché, usando la lingua del popolo, è più difficile restare immune da grossolanità plebee, e perché visse e poetò in un’epoca in cui la poesia mirava spesso alla meraviglia a qualunque costo.
Il grandissimo amore del poeta per la patria gli suggerì di comporre le sue poesie in lingua genovese. Gli era ben nota per necessità di studi e della sua professione anche l’italiano, che si chiamava ancora lingua toscana, e che sapesse maneggiarla con una certa facilità si vede dai documenti che ne restano. Ma il genovese, che a Dante pareva così aspro da affermare che “si per oblivionem Januenses amitterent z litteram vel mutire totaliter eos, vel novam reparare oporteret loquelam”, a lui pareva addirittura “inzuccherato” e ne tessé lodi entusiastiche:
Cento poera de beû tutti azzovae
No goggeran ra lengua a un Forestè,
Chi digghe in bon zeneize Bertomè,
Amò, mae, ceù, bioù, parolle tae.
Questa è particolà felicitae
A zi Zeneizi daeta da ro çe,
D’avei parolle in bocca a con l’amè,
De proferire tutte insuccarae.
Na ri Toschen, meschin, chi son marotti,
E che ro çe de bocca han bell’amaro,
Ne han noì per mezelengue, e per barbotti.
Vorrei che me dixessan se un Frae caro
Senza stàghe a mesccià tanti ciarbotti,
Và per çento Fratelli, e sta da paro.
Gustando le argute trovate tutte proprie del genovese che si trovano in certi madrigali, le grazie intraducibili di alcuni sonetti e di alcune canzoni, tornano alla memoria le parole di De Sanctis a proposito di un altro poeta regionale: Giovanni Meli: “Un pensiero insipido e volgare se lo incontrate in una lingua straniera vi par nuovo. Ed è nuovo effettivamente perché la parola straniera te lo porge in un’altra immagine, sotto un altro aspetto. Questo sentite nel dialetto dove vi brilla innanzi e vi stupisce quella che nella esausta parola italiana ha perduto ogni sapore.”
E come fu bene ispirato Giovanni Mieli a comporre in siciliano le sue deliziose poesie, ugualmente bene ispirato fu Gian Giacomo Cavalli a poetare in genovese.
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