Emilio Biagini
IL DILEMMA DI FONDO
Ogni opera narrativa, specie se di ampio respiro come un romanzo, deve affrontare un dilemma di fondo tra realismo e idealizzazione della realtà. Il problema è meno serio nel caso di un semplice racconto di poche pagine o poche decine di pagine che può limitarsi a mostrare uno squarcio della realtà, ma per un romanzo il dilemma non può essere eluso. Una rappresentazione realistica della realtà deve fare i conti con la condizione umana, e il rischio è perciò quello di scrivere un’opera deprimente (si pensi ad esempio quanto deprimenti sono le biografie, che finiscono sempre davanti ad una tomba). Idealizzare la realtà significa invece concludere con il classico lieto fine: si tratta di un artificio, grazie al quale la narrazione viene “tagliata” al momento culminante, quando i due “eroi” finalmente si sposano e si suppone quindi che da allora in poi vivranno “sempre felici e contenti”. Il lieto fine non mostra quindi l’inevitabile invecchiamento, le eventuali e sempre possibili disgrazie, le malattie, la solitudine del coniuge rimasto vedovo. La condizione umana non perdona. Anche se tutto va bene, finisce sempre male.
Della vita di ciascuno si potrebbe concludere così:
EPITAFFIO
Arrancava facendosi del male
nella palude triste della vita.
Quando un tenue barlume di buon senso
entrò nella sua testa, d’improvviso
sentì un colpo alla porta. Era la morte.
Come uscire da questo dilemma, fra realismo e artificio? Il segreto è semplice. Occorre la Fede (con la maiuscola). Se si sa (non semplicemente si “crede”, ma “si sa”, con Fede certa, perché Cristo non inganna e non può ingannarsi) che tuis enim fidelibus, Domine, vita mutatur, non tollitur, et dissoluta terrestris huius incolatus domo, aeterna in cielis habitatio comparatur, la prospettiva cambia radicalmente, sia per la narrativa che per la vita stessa. Il narratore segue allora i suoi protagonisti nell’altra vita, dove, “asciugata ogni lacrima, i nostri occhi vedranno Iddio”. Non è un caso che il più sublime ed inimitabile capolavoro della letteratura d’ogni tempo e paese si svolga interamente nell’aldilà, per giungere infine a “l’amor che move il sole e l’altre stelle”. Non c’è più alcun motivo di depressione, e non c’è più artificio.
LA TECNICA NARRATIVA
Sul piano tecnico, chi vuole scrivere deve sapere un certo numero di cose. Non deve impararle, perché, se non le sa d’istinto, se non le sente dentro di sé, nulla e nessuno potranno mai insegnargliele. Le norme pratiche inconsciamente seguite dal sottoscritto sono le seguenti.
-Primo. Scrivere, o almeno concepire la conclusione di una storia fin dal principio. Troppi romanzi, dopo un buon inizio, cadono verso la fine perché l’autore non sa come concludere. Un romanzo ben costruito ha un notevole parallelismo con l’edificazione di una cattedrale, che — quando le chiese erano edificate in modo serio e non somigliavano a garages o cessi pubblici — si iniziava sempre a costruire dal presbiterio con l’abside, il sancta sanctorum, il fulcro, il punto di convergenza delle linee di prospettiva, in funzione del quale doveva organizzarsi l’intera struttura.
– Secondo. Non indulgere all’autobiografia. Certo, non si può uscire da se stessi, ma chi è capace di fare solo autobiografia magari offrirà un’interessante documentazione storica, ma se non è in grado di inventarsi una trama e dei caratteri in modo autonomo non è un vero scrittore. È vero che “David Copperfield” è autobiografico, ma Dickens ha scritto altri sedici romanzi, fra i quali il capolavoro è il non autobiografico “Bleak House”, e comunque “David Copperfield” non è una pura e semplice autobiografia.
– Terzo. Gettare a mare il relativismo, perversa creazione dell’antropologia laicista, che rappresenta la rovina della capacità di pensare. Il pensiero debole va bene solo per menti deboli e malate, e la malattia è il peccato che vuol dubitare di Dio per continuare a peccare illudendosi di farla franca. Invece la verità fondamentale è che l’uomo si riassume in due termini essenziali: l’impermanenza e l’anelito innato all’eternità. Tutto l’uomo, dovunque e in ogni epoca. Da una parte vi è la Vanitas vanitatum et omnia vanitas dell’Ecclesiaste, dall’altra il “Noi siamo fatti per te, Signore, e il nostro cuore sarà inquieto finché non si riposerà in te” di Sant’Agostino. Sono questi i due poli tra i quali si muove l’animo umano. Le ritroviamo nella poesia haiku giapponese come nella lirica occidentale. E non è male, a questo proposito, che il testo narrativo tenga un piede anche nella poesia, intercalando qualche lirica, come fanno Tolkien nel “Signore degli Anelli” e il grande (e, purtroppo, in Italia poco conosciuto) Theodor Storm. La poesia, infatti, apre, nel mondo mentale dei personaggi, una sorta di finestra, tale da conferire maggior profondità alla narrazione.
– Quarto. Coltivare il senso di giustizia, sostenuto dalla Fede nella Giustizia divina che “non teme suppe”. Si deve opporsi a qualunque ideologia vergognosa che abbassa l’uomo al livello animale. Ridotto ad animale dal materialismo (marxista, ecologista, o di altra bavosa e puzzolente origine), l’uomo può essere impunemente assassinato prima che nasca, chiuso nel gulag, torturato, schiacciato dai carri armati. Senza un odio irriducibile verso le ideologie propagandate da parassiti assassini non si è liberi. La vera libertà è interiore, non quella delle chiacchiere di certi filosofastri. Naturalmente questo ci mette in urto col mondo, ci rende impopolari presso determinati tipi di persone dal cervello più contorto di un serpente a sonagli, ed è causa di esperienze negative. Benissimo. Da qui si prospetta il punto successivo.
– Quinto. Valorizzare le esperienze negative. Sono quelle che, oltre a far conoscere la natura umana, forniscono la spinta emotiva a raccontare al meglio. Cosa sarebbe stata la “Divina Commedia” senza l’ingiusto esilio di Dante? E cosa sarebbero stati i romanzi di Dickens senza i disastri finanziari provocati dall’imprevidenza di suo padre?
– Sesto. Fare attenzione ai sogni. Benché, con buona pace di Freud e degli altri Dottori Dulcamara contemporanei, per la maggior parte si tratti di sciocchezze insignificanti (“le immagini del dì guaste e corrotte”, come dice Rostand), occasionalmente (anche se molto di rado) un sogno può essere fonte di ispirazione, perché il cervello ha lavorato durante la notte.
– Settimo. Visualizzare mentalmente le scene. È indispensabile averle presenti per poter ambientare i personaggi, anche se non si prevede di scrivere estese descrizioni delle scene stesse (le lunghe descrizioni appesantiscono). Ogni romanzo dev’essere una sorta di sceneggiatura, potenzialmente traducibile in pièce teatrale, film, telefilm, e così via.
– Ottavo. Drammatizzare la narrazione. Non si devono mai descrivere semplicemente gli eventi, perché in tal modo si cade nello stile del saggio, che è ben diverso dal vero stile narrativo. Bisogna che i personaggi parlino, e che, dalle loro parole, dai loro gesti, dal loro comportamento, scaturisca il quadro dei loro caratteri e lo svolgersi della storia.
– Nono. Riscrivere, riscrivere, riscrivere senza stancarsi. Bisogna farlo finché non si è spremuto da ogni soggetto il massimo che si è capaci di dare. La prima stesura di un romanzo può richiedere solo poche settimane, se l’ispirazione aiuta. E poi possono volerci innumerevoli riscritture per decenni, prima che l’opera sia soddisfacente.
– Decimo. Non fidarsi del proprio giudizio. Sono gli altri a doverci dire se quello che facciamo è degno di pubblicazione e diffusione. L’autore, al massimo, può rendersi conto se una sua opera, o parti di essa, sono più o meno ben riuscite e bisognose o meno di ulteriori interventi, se un proprio romanzo è migliore di un altro, ma sempre e solo in base a propri riferimenti interni che non garantiscono nulla riguardo alla validità della sua opera nell’insieme, e anche questo non è sempre garantito: Torquato Tasso giudicava migliore il rifacimento del suo poema (La Gerusalemme conquistata) rispetto all’originale (La Gerusalemme liberata); Piotr Ilych Tchaikowsky giudicava severamente il proprio balletto “Lo schiaccianoci” che tutti considerano un capolavoro.
Per questo il sottoscritto ha preferito scrivere per sessant’anni solo per se stesso, senza pensare alla pubblicazione, perché sarebbe stato un pensiero ingombrante ed inutile. Era meglio cercare l’affermazione altrove, nel caso specifico nella carriera universitaria, visto che carmina non dant panem. Se poi anche quest’altra impresa andrà in porto è ancora da vedersi.
EMILIO BIAGINI
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