Emilio Biagini
IL DOMINIO AMERICANO SUL MONDO
“Libertà”, “democrazia”, guerre, massacri, usura
III
Un governo nazionale
Le tredici colonie insediate sulla costa atlantica, ormai divenute stati, erano diverse per economia, grado di sviluppo e interessi, ma la comune esperienza della lotta per l’indipendenza e la necessità di affrontare problemi comuni portarono dapprima a formare una confederazione, poi prevalse, nel 1788, una più stretta unione federale, il cui primo presidente fu il generale George Washington, ovviamente massone del massimo livello. La prima capitale fu New York, poi Philadelphia, fino a che venne appositamente fondata la capitale definitiva, Washington, nel distretto di Columbia, ritagliato nel 1801 da una zona di confine tra Maryland e Virginia.
Il principale problema era che fare dei vasti e ricchi territori dell’Ovest, nei quali continuava a riversarsi l’insaziabile fame di terra dei coloni. Mentre alcuni stati minori, come Connecticut e Rhode Island erano tagliati fuori dall’espansione, quelli più grandi tendevano ad annettersi i territori di frontiera, ciò che avrebbe significato estensioni spropositate verso l’interno. Il governo federale pose fine al problema organizzando i territori interni di nuova colonizzazione per guidarli verso la formazione di nuovi stati da annettere via via. Gli indiani naturalmente non contavano e venivano sistematicamente massacrati e cacciati sempre più indietro.
Venne riconosciuta la “libertà” religiosa: dato che gli abitanti erano in assoluta prevalenza protestanti delle più varie sette, oltre ad una forte presenza ebraica, era ovviamente impensabile una religione di stato come si tentava (peraltro invano) di imporre in Inghilterra con la chiesa anglicana. La conseguenza fu il relativismo assoluto, con liberi passaggi da una setta all’altra secondo la convenienza, mentre vera dominatrice restava la luciferina setta massonica, che impresse il suo stampo su tutto ciò che era visualmente significativo, dai disegni sulle banconote alle architetture degli edifici pubblici, alle piante delle città, specie la nuova capitale Washington.
Fra i maggiori problemi affrontati e risolti vi furono due unificazioni: quella dell’esercito, inizialmente formato dalle milizie dei singoli stati, e quella del sistema monetario. Eliminate tutte le altre monete, fu adottato il dollaro. In questo modo venne rapidamente consolidandosi la presa sul potere dei gruppi massonici dominanti, padroni delle banche, di cui la prima fu fondata a Philadelphia nel 1782, e pure padroni delle fabbriche, di cui importantissime erano, fin dall’epoca coloniale, quelle di armi. Le logge massoniche fornivano l’ambiente ideale per utili incontri e formazione di lobbies per organizzare monopoli, acquisire risorse, montare aggressioni economiche a danni dei concittadini e dei paesi esteri, scatenare guerre ed annessioni di sempre più vasti territori. Erano così poste le basi dell’incessante spinta militaristica, imperialistica, competitiva e acquisitiva, degli Stati Uniti. Sarebbe tuttavia errato attribuire il bellicismo americano esclusivamente all’avidità delle élites. Senza una vera frenesia di violenza, evidente nel popolo americano anche nello sport, le èlites non avrebbero potuto scatenare la successione di guerre praticamente ininterrotta che segna tutta la storia degli Stati Uniti.
IV
Guerre continue
Dall’indipendenza in poi gli Stati Uniti furono costantemente in guerra, e si trattò quasi esclusivamente di guerre di aggressione. Nei pochissimi anni, una ventina in tutto, in cui gli Stati Uniti non avevano, ufficialmente, truppe in campo, svolsero comunque operazioni segrete, aizzando rivolte e destabilizzazione di governi ‘“sgraditi”, e quindi compirono costantemente, ossessivamente, senza posa, atti su atti di guerra. Inoltre, la crescente potenza economica permise loro di scatenare guerre economiche di grave distruttività.
Dal 1776 al 1783 si svolse la guerra d’indipendenza americana, e in parallelo tutta una serie di aggressioni alle tribù indiane. Le guerre contro gli indiani proseguirono incessanti fino 1795, sterminando i nativi e ricacciandoli sempre più indietro, finché gli spazi conquistati nell’Ovest furono tanto estesi e gli indiani tanto indeboliti da far sì che non vi fossero più scontri su vasta scala fino al 1800. Dal 1801 al 1805 gli Usa furono impegnati nella cosiddetta ‘guerra barbaresca’ del Nordafrica: fu la prima volta che forze statunitensi operarono fuori dalle Americhe, e non si può in questo caso negare che fosse una guerra necessaria e difensiva, in quanto si trattava di proteggere le proprie rotte commerciali contro i pirati islamici.
Nel 1806 ebbe luogo una spedizione militare lungo il fiume Sabine, in previsione di future espansioni, dato che era ancora indeterminato il confine fra il Texas, allora spagnolo, e il territorio della Louisiana, acquistato dalla Francia nel 1803. Gli enormi spazi ormai a disposizione assicurarono un triennio di relativa pace dal 1807 al 1809, ma già l’anno successivo truppe americane erano in marcia per occupare la Florida occidentale spagnola. Nel 1811 scoppiarono diverse guerre indiane, di cui la maggiore fu quella di Tecumseh, il primo grande statista indiano che cercò di organizzare la resistenza dei nativi, si rifugiò nel Canada e qui cadde combattendo nel 1813, per cui è considerato un eroe nazionale canadese. Mentre si liberavano di lui nel West, gli americani attaccarono anche la Florida spagnola, della quale finirono per impossessarsi nel 1814.
Tra il 1812 e il 1813 si erano azzuffati con i prepotenti cugini inglesi per impedire loro di esercitare l’arruolamento forzato di marinai sulle navi americane, e anche qui non si può negare che esistesse veramente un “casus belli”, come per la seconda guerra barbaresca e la guerra anti-pirateria, che si prolungò fino al 1825. Naturalmente anche gli americani armavano navi pirate, ma felicemente legittimate con apposite patenti del governo: quella secondo loro non era pirateria ma “guerra di corsa”. Frattanto, fra il 1816 e il 1818, scoppiò in Florida la prima guerra contro i Seminoles; il conflitto con quella tribù si riaccese poi dal 1835 al 1842 e dal 1855 al 1858, fino alla totale sottomissione degli indigeni. Naturalmente neppure l’Ovest poteva restare in pace: si combatté nella regione dello Yellowstone tra il 1819 e il 1825, mentre nel 1823 scoppiò lungo il Mississippi la guerra Arikara.
Le guerre di aggressione si combattevano anche per interposta persona, non per acquisire direttamente territori, ma per instaurare rapporti di clientela, dominio indiretto e satellizzazione, secondo una pratica già ben collaudata dall’imperialismo britannico. Tale fu il caso della ferrea applicazione della dottrina Monroe, enunciata dal presidente James Monroe nel messaggio annuale al Congresso del 2 dicembre 1823, dottrina che era stata già elaborata da John Quincy Adams. La contraddistingue il motto ‘l’America agli Americani’, che si vorrebbe far suonare come l’anelito di libertà del Nuovo Mondo contro il colonialismo europeo, ma è in realtà un’affermazione della volontà di potenza degli Stati Uniti di impadronirsi di tutte le Americhe.
Poiché il boccone dell’America latina era troppo grosso per lasciarsi inghiottire intero, il piano imperialistico fu realizzato non con la conquista militare diretta, ma attraverso i cosiddetti “libertadores”, come Simón Bolívar (che “liberò” Venezuela, Colombia e Bolivia), José de San Martin (Argentina, Cile e Perù), Antonio José de Sucre (Ecuador), Agustin de Iturbide (Messico). Il Brasile aveva rotto col Portogallo nel 1822. I “libertadores” erano membri di quell’aristocrazia creola che la corona spagnola aveva tenuto saggiamente in disparte per proteggere gli indigeni, le cui condizioni naturalmente precipitarono appena i “libertadores” sponsorizzati dal governo di Washington conquistavano il potere, mentre sui nuovi stati “liberati” calavano gli speculatori yankees, con le loro logge massoniche. È appena necessario ricordare che il “libertadores” erano tutti massoni, e che il legame massonico ne faceva ideali Quisling per l’invadenza yankee.
L’anno 1826 fu eccezionalmente privo di guerre sul territorio degli attuali Stati Uniti (ogni tanto dovevano pur riposarsi). Nel 1827, tuttavia, scoppiò la guerra di Winnebago, in quello che oggi è il Wisconsin, causata come sempre dalla frenetica acquisizione di territori da parte dei coloni. Dal 1828 al 1830 non vi furono guerre mentre gli yankees continuavano ad impadronirsi delle terre ad Ovest e gli indiani non osavano rivoltarsi.
Frattanto, bellicosi coloni yankees si erano riversati nella provincia messicana del Texas, distruggendo gli indiani ovunque li incontrassero, introducendovi la schiavitù, che in Messico era già vietata, e inscenando una rivolta. Nel 1836 l’esercito messicano tentò di riprendere il controllo della provincia ma venne sconfitto. L’insignificante episodio della “battaglia di Alamo”, gonfiato da Hollywood a dimensioni epiche, fa parte di questa campagna: i difensori texani asserragliati nella missione abbandonata di Alamo, capeggiati dagli avventurieri massoni William Travis, Jim Bouwie e David Crockett (i quali pare fossero gravati da un pesante carico d’oro rubato agli indiani), desideravano arrendersi, supplicarono per ricevere rinforzi e furono abbandonati al loro destino dal comandante texano Sam Houston, che rifiutò di intervenire in loro aiuto: da lontano li insultava, li derideva ed era perennemente ubriaco fradicio. Nel Texas “liberato” e felicemente yankee si scatenarono guerre di sterminio contro gli indiani che si protrassero ininterrottamente per decenni.
Dal 183l al 1842 divampò, sia nel West che nella Florida, una ininterrotta serie di guerre contro gli indiani, ma anche i territori fuori dell’America non furono trascurati, poiché tra il 1840 e il 1841 la flotta Usa operò nel Pacifico, invadendo le isole Figi, McKean, Gilbert e Samoa. Nel 1843 l’ambito delle operazioni si ampliò ancora, con scontri con la Cina e occupazione di tratti della costa africana.
Tra il 1846 e il 1848 gli Usa invasero il Messico, strappandogli vastissimi territori, fra cui l’intera California. Le ostilità di confine col Messico si riaccesero dal 1873 fino al 1896, e le dimensioni del Messico furono dimezzate. Distrutte le missioni, in California e nel resto del territorio già messicano, l’opera di civilizzazione dei missionari andò perduta e gli indiani si dispersero e scomparvero. Gli Stati Uniti non cessarono mai di occuparsi del Messico, intervenendo di continuo nei suoi affari interni, suscitando ribellioni, massacri e brutali tentativi massonici di cancellarvi la religione cattolica.
Sarebbe futile elencare tutte le guerre contro gli indiani, che si protrassero ininterrottamente fino alla fine del secolo XIX, e non cessarono neppure mentre, fra il 1861 e il 1865, si combatteva la guerra civile tra l’Unione del Nord e la Confederazione del Sud. Nel 1857 gli Usa attaccarono il Nicaragua, nel 1858 invasero le Isole Fiji e l’Uruguay, nel 1859 il Paraguay.
La guerra civile americana permise ai bellicosi americani di scannarsi finalmente anche fra di loro. I testi “corretti” spiegano tale conflitto come una specie di crociata del Nord per ‘liberare’ gli schiavi del Sud. La realtà è alquanto diversa: la politica nordista era dominata dai grandi complessi finanziari e industriali massonici, che desideravano mettere le mani sulle risorse del Sud, non sfruttate a dovere, secondo loro, dall’economia delle piantagioni. Al dominio schiavistico dei piantatori sui negri si voleva sostituire l’“uguaglianza” del lavoro industriale e commerciale, che abbassava tutti, bianchi e negri, sotto il dominio dei potentati finanziari usurai che facevano ballare a piacimento il governo federale e i politicanti locali.
Del 1866 è un conflitto con la Cina, l’anno successivo gli statunitensi occuparono il Nicaragua e attaccarono Taiwan. Nel 1871 se la presero con la Corea. Il 1888 vide gli Usa compiere una dimostrazione di forza contro Haiti. Inutile dire che frattanto continuavano ininterrotte le guerre contro gli indiani e gli attacchi al Messico. Nel 1893 i “liberatori” invasero le Hawaii. Eccezionalmente il 1897 fu un anno tranquillo, ma nel 1898 scoppiò la guerra con la Spagna, che si estese, l’anno successivo con l’invasione delle Filippine, nelle quali le operazioni (ossia le stragi) si protrassero almeno fino al 1913. La fine del sec. XIX e ben addentro il successivo furono segnati dalla cosiddetta “guerra delle banane”, ossia da una serie continua di aggressioni a paesi centroamericani e caraibici per sostenere gli interessi della United Fruit Company e delle consimili imprese commerciali che trattavano frutta tropicale. Il generale Smedley Butler, eroe pluridecorato di tali guerre, nel suo libro di memorie War is racket(La guerra è un crimine), confessò:
“Ho passato 33 anni e 4 mesi in servizio militare attivo, e durante questo periodo ho speso la maggior parte del mio tempo come uomo di fatica di alto profilo per il Grande Mercato, per Wall Street e per le banche. In pratica ero un estorsore, un gangster a servizio del capitalismo. Nel 1914 ho contribuito a rendere il Messico e specialmente Tampico un terreno sicuro per gli interessi petroliferi americani. Ho contribuito a rendere Haiti e Cuba luoghi convenienti per fare affari per i ragazzi della National City Bank. Ho contribuito allo stupro di una mezza dozzina di repubbliche del Centro America a beneficio di Wall Street. Tra il 1902 ed il 1912 ho contribuito a purificare il Nicaragua per la banca internazionale d’affari Brown Brothers & Co. Ho portato la luce in Repubblica Dominicana, nel 1916, per gli interessi americani nella produzione di zucchero. Nel 1903 ho dato una mano a rendere l’Honduras un buon posto per le compagnie statunitensi della frutta. Nel 1927 in Cina ho dato il mio contribuito per fare in modo che la Standard Oil potesse continuare ad operare indisturbata. Guardando indietro, avrei potuto dare alcuni buoni suggerimenti ad Al Capone: il meglio che era riuscito a fare era estendere il suo racket a tre distretti; io ho operato in tre continenti.”
Nel 1913 venne repressa un’insurrezione dei Navajo e nel 1915 vi furono scontri con i Paiute, ma la grande ambizione dei circoli finanziari americani era entrare nella Grande Guerra perché avevano largamente finanziato gli armamenti inglesi e francesi, e la vittoria della Germania avrebbe comportato l’impossibilità di recuperare i crediti. L’opinione pubblica non era inizialmente entusiasta: un conto era prendersela con nemici deboli come gli indiani, i messicani o i caraibici, ben altro affare era impegnarsi oltremare con il colosso tedesco.
I banchieri quindi attivarono un’enorme campagna propagandistica per aizzare gli americani a favore dell’entrata in guerra, che raggiunse livelli isterici con sistematiche aggressioni ai cittadini di origine tedesca. Gli affondamenti di navi americane che portavano rifornimenti ai nemici della Germania contribuirono ad aizzare ulteriormente il pubblico americano, finché nel 1917 gli Usa poterono intervenire nella guerra, portando un decisivo contributo alla sconfitta degli Imperi Centrali.
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