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CIPOLLONE M. (2022) Il Georgiano, Chieti, Tabula Fati

Questo drammatico romanzo, pieno di suspense, è ambientato nella Russia tardo-sovietica e nel successivo marasma post-sovietico dell’era Yeltsin, dominato dagli oligarchi e dalle loro bande di assassini. Lo stile è conciso e graffiante. Affiora nel dialogo un significativo substrato di lingua russa. Ad esempio: “ascolto” (ja slùsciu) invece di “pronto” nel rispondere al telefono, “milizia” invece di “polizia” dato che in russo il poliziotto è milizianèr, mentre brat indica indifferentemente “fratello” e “cugino” (non solo secondo l’uso russo, visto che pure nel Vangelo di parla di “fratelli” di Gesù, che erano invece ovviamente cugini). Queste particolarità linguistiche sono cosa ottima perché rendono meglio l’ambiente, che l’Autore ben conosce avendo a lungo soggiornato in Russia.

La trama è avvincente: un giovane del Sud Italia raggiunge il cugino che ha aperto un ristorante presso Togliatti Grad e comincia a lavorare per lui, ma le sue illusioni di una società egualitaria e giusta vengono quasi subito stroncate dalla brutale e corrotta realtà sovietica e dal vile comportamento del diplomatico italiano che dovrebbe tutelare i connazionali e, al solito, è invece del tutto complice con lo straniero. Il protagonista viene individuato dai russi, con una certa prosopopea nordica, come georgiano, uomo del sud, che sarebbe l’equivalente del tèrun nostrano. L’assassinio, ad opera della polizia, del cugino, uomo buono al quale il protagonista era molto affezionato, spinge quest’ultimo alla vendetta e ad intraprendere il mestiere di killer. Si trova così a combattere in bilico tra due poteri malvagi, quello statale e quello oligarchico. Le sue vittime sono costantemente delinquenti che ben meritano la morte, abbattute in stato di legittima difesa. Dopo aver compiuto una vera strage, abbattendo tutti quelli che cercano di eliminarlo, il killer, o sarebbe forse meglio dire il giustiziere, rientra, sotto falso nome, in Italia a rifarsi una vita.

Qualcuno potrebbe obiettare che non è chiaro come, apparentemente d’improvviso, questo giovane abbia imparato a colpire con tanta mortale precisione. Ma ciò si spiega, anzitutto perché egli spara sempre a distanza ravvicinata e la sua abilità consiste piuttosto nell’avvicinarsi alla vittima senza destare sospetti; ed inoltre perché la precisione del tiro dipende in gran parte dall’acutezza della vista, che certo non si impara, e dalla precisione dei movimenti, che è in parte innata e in parte si può imparare anche al di fuori di esercitazioni con armi da fuoco. Si aggiunga l’indignazione e il desiderio di vendetta, o di giustizia, che certo conferiscono una potente motivazione alle capacità del giustiziere. Un’altra obiezione potrebbe essere: come mai, con tutta la gente che gli dà la caccia il giustiziere non venga mai colpito neppure di striscio; ma anche a questo non è difficile rispondere: è tutta questione di velocità, di sparare per primo, rifuggendo da qualsiasi esitazione.

Il giovane sfugge alla morte quando i sicari di un oligarca lo attendono di fronte a casa, ma uccidono l’amante di sua moglie, scambiandolo per lui, mentre la moglie stessa è ferita in modo gravissimo e cade in coma. Questa tragedia rende il giustiziere ancor più deciso nella sua opera di bonifica. L’animo di lui non è certo quello di un freddo assassino. Infatti tratta generosamente tutti coloro che non sono delinquenti: dà molto denaro all’ospedale dove si trova ricoverata la moglie, e visita la suocera, che nella sua mente assume i contorni della mamma lontana. Si avverte una profonda analogia di sentimenti, un sottofondo condiviso fra l’Italia, specie quella generosa e credente del Mezzogiorno, e la Santa Madre Russia. In questo si può dire che l’Autore, dopo averci mostrato la tremenda fase di transizione dal regime sovietico al caos, ha colto l’essenza dell’anima russa.

EMILIO BIAGINI


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