I Trigotti

Necessaria precisazione: e sia ben chiaro noi non siamo bigotti.

Mese: Marzo 2007 (Pagina 3 di 4)

LA CONGIURA CONTRO LA VITA

La congiura contro la vita umana che caratterizza questi nostri tempi di “magnifiche sorti e progressive” è strettamente legata al risorgere dei miti pagani. Sulla scia delle eccentriche disquisizioni di James Lovelock (1979, 2000) si è cominciato a parlare della Terra come di un “essere vivente”, Gaia, una versione pseudoscientifica della divinità pagana Gea. Non poteva mancare una risorgenza del mito pagano contrario all’aumento di popolazione. Al terrore della “sovrappopolazione” fa riscontro un catastrofismo economico che attribuisce la povertà alle “troppe bocche da sfamare”, sulla linea della filosofia pagana. Sia Platone che Aristotele, infatti, sostengono, in politica, un perfettismo disumano, che si estrinseca in un rigido controllo statalistico e totalitario, incluso il controllo delle nascite per evitare una “eccessiva” crescita della popolazione ed anche per motivi eugenetici, ossia di difesa delle qualità della razza. Nel campo della politica, l’individuo è per Platone il male assoluto (Popper 1963). Governare significa essere come mandriani per il gregge umano. “Dev’essere pura la stirpe dei guardiani”, scrive Platone ne La Repubblica e, nelle Leggi, precisa che la città deve “far corrispondere il numero delle famiglie a cinquemilaquaranta” (numero divisibile per tutti i numeri interi da 1 a 10, oltre che per 12, ciò che permetterebbe allo Stato di amministrare il gregge umano più facilmente) e “le famiglie costituite e distribuite ora da noi, tante devono essere sempre e non mai crescere di una unità o calare di una”. Aristotele abbraccia interamente la filosofia platonica del controllo statale sulle famiglie e, nella Politica, scrive che, se il numero delle nascite non sarà contenuto, “accadrà fatalmente che i figli di troppo non possederanno più niente”, e inoltre si dovranno prendere “delle misure affinché le qualità fisiche dei bambini procreati rispondano ai desideri del legislatore”. Autoritarismo statalista, controllo delle nascite, eugenismo, sono quindi alla base delle concezioni politiche di questi antichi filosofi che tanta influenza hanno esercitato sulle generazioni successive. Il loro interesse in questa sede risiede nel fatto che proprio in Gran Bretagna, e successivamente negli Stati Uniti, simili progetti vengono ripresi, non più ad un livello astratto, ma gradualmente trasportati sul piano della pratica. Il mito del sovraffollamento riappare in Inghilterra nel sec. XVI. Thomas More (1480-1535), nella sua Utopia (1516) teme gli eccessi demografici, sia nel senso di uno spopolamento che di un sovraffollamento. Analogo il modo di pensare di Francis Bacon (1561-1626): negli Essays, apparsi nel 1596, scrive: “bisogna vigilare affinché la popolazione di uno Stato (….) non superi la produzione del Paese che la deve mantenere”. Thomas Hobbes (1588-1679), nel suo Leviathan (1571), evoca lo spettro della limitatezza delle risorse: “Quanto all’abbondanza delle materie prime, essa è limitata dalla natura dei beni che escono dalle due mammelle della nostra madre comune, cioè la Terra e il Mare”. Diversa era l’aria che si respirava in Francia. “La terra, ben coltivata, nutrirebbe cento volte più uomini di quanto non faccia oggi”, scriveva invece François de Fénelon (1651–1715) nel Telemaco (1699). Più tardi, tuttavia, il più cupo pessimismo sulle prospettive dell’umanità fece breccia anche in Francia e nel resto del mondo. Il neomalthusianesimo, che nacque con l’opera del Place (1822) raccomandò la contraccezione, mediante l’uso dei metodi allora conosciuti. Senza alcun progresso concettuale, i neomalthusiani del sec. XX, come Vogt (1948, 1960), Ehrlich & Ehrlich (1987, 1990) e i cosiddetti “esperti” gravitanti intorno al Club di Roma (Gabor & Colombo 1976, Kim 1980, Mann Borgese 1986, 1998, Meadows 1972, Mesarovic & Pestel 1974, Neurath 1994, Pestel 1974, 1989, Peccei 1974, 1981, Tinbergen et al. 1976), ripresero a rimestare piattamente con un vocabolario tecnocratico le medesime vecchie tesi profondamente viziate da schematismo e staticità, mentre, sul versante emotivo, tentavano di far breccia agitando spettri di fame, malattie, esaurimento delle terre coltivabili, inquinamento, guerre, e inveivano contro l’uomo con frenesia isterica. Tutto ciò non ha mancato di attirare sulle tesi del gruppo critiche assai pesanti (Braillard 1982, Clark 1973, Larouche 1983, Simon 1992), che hanno suscitato reazioni furiose da parte degli ecologisti, che sono giunti a parlare di “tradimento della scienza e della ragione” (Ehrlich & Ehrlich 1996). Nel complesso, comunque, la manovra contro la vita sta avendo un notevole successo, poiché sostenuta da potentissimi interessi finanziari (basti ricordare le fondazioni Ford e Rockefeller, di stampo massonico) e propagandata in modo ossessivo dai mass media. L’alternativa alle presunte “catastrofi” sarebbe il cosiddetto “sviluppo sostenibile” (Moll 1991), che naturalmente ha trovato seguaci e menestrelli anche in Italia (es. Pagnini Alberti & Nodari 1976, Vallega 1990, 1993, 1994, 1995, 1996). Se ciò significasse solo utilizzazione giudiziosa delle risorse e difesa contro l’inquinamento potrebbe meritare plauso, anche se occorrerebbe estenderlo soprattutto all’ambito politico, in opposizione ai troppi regimi oppressivi e “insostenibili” che ancora esistono (e che invece raccolgono osceni consensi e marce della “pace” ogni volta che qualcuno di essi viene abbattuto dall’unica potenza che ha i mezzi e il coraggio di farlo, gli Stati Uniti), senza contare che, in materia di inquinamento, quello peggiore e veramente “insostenibile” non è di natura materiale, ma è piuttosto l’inquinamento delle anime e dei cervelli. Il guaio è che l’intera filosofia che sta dietro al concetto di “sviluppo sostenibile” è pur sempre quella ambientalista, con il relativo isterismo ideologico, a sostegno di politiche antisviluppo e antiumane che servono ben precisi interessi costituiti di multinazionali petrolifere e chimiche legate da reti di affiliazioni massoniche. “Il mondo è malato di cancro; e il cancro è l’uomo”, farnetica Pestel (1974); e Peccei (1974) rincara la dose: “L’uomo ha inventato la storia del drago cattivo, ma se c’è mai stato un drago cattivo sulla terra questo è l’uomo stesso”, e ancora: “Che cos’è l’Homo sapiens? Il capolavoro della natura o un refuso sfuggito al controllo della selezione immediata?” (Peccei 1981). Crasso materialismo e riduzione dell’uomo a semplice animale, sulla scia delle traballanti illazioni di Darwin e del darwiniano tedesco Ernst Haeckel (1834-1919). Costui fu il creatore del termine “ecologia” (Ökologie), ed era fautore dell’eutanasia, ossia, per chiamare le cose col loro nome, dell’assassinio dei vecchi e dei malati, “inutili” alla società. Come già detto, ma giova ripetere, è questo l’inevitabile sbocco del materialismo: si comincia a cercare di uccidere l’immagine di Dio in se stessi e si finisce per uccidere gli esseri umani. Nel suo trattato Die Welträtsel: gemeinverstandliche Studien über monistische Philosophie (I misteri del mondo: studi interdisciplinari sulla filosofia monistica) egli scrisse che l’errore fondamentale del Cristianesimo è l’aver assegnato all’uomo il dominio sulla natura: una bestemmia spesso ripetuta dai settari dell’ambientalismo. In un’intervista rilasciata nel 1989 a Bernd Lotsch e Hubert Weinzierl, il fondatore dell’etologia (scienza del comportamento animale, da non confondersi con l’ecologia, scienza dell’ambiente), il celebre Konrad Lorenz, guru degli “animalisti” ha espresso “una certa simpatia per l’AIDS” perché, decimando l’umanità, potrebbe impedire ulteriori danni all’ambiente. Del medesimo tenore, e ancor più deliranti, le esternazioni dello statunitense David Foreman, pregiudicato per terrorismo di stampo ecologista, esponente delle associazioni ambientaliste Wilderness Society e Deep Ecology, redattore della rivista Earth First (“L’AIDS non è una maledizione, esso deve essere salutato come un rimedio naturale per ridurre la popolazione del pianeta” e “L’umanità rappresenta il cancro del mondo vivente”), e di Ann Trophy, su Earth First (“Come ambientalisti radicali, riteniamo che l’AIDS non sia un problema ma una necessaria soluzione”). In un libercolo dal titolo “Ecologia domestica”, il presidente del WWF Italia, Fulco Pratesi, ha suggerito di abolire la tumulazione dei morti e di sostituirla con l’esposizione dei cadaveri agli uccelli rapaci, affinché li divorino, secondo l’usanza dei Parsi dell’India. L’ecologa Laura Conti, poi, ha suggerito di produrre cibo per cani e gatti a base di carne umana, suggerimento che Pratesi ha rilanciato con approvazione. Ingrid Newrick, presidente del principale movimento animalista degli USA, ha dichiarato al Toronto Star dell’8 dicembre 1986: “I sostenitori della liberazione degli animali non considerano l’animale umano come un’entità separata. Non esiste quindi una base razionale per asserire che un essere umano abbia diritti particolari. Un topo non è diverso da un maiale, né da un cane, né da un bambino”. L’australiano Peter Singer, altro guru degli animalisti, autore di Animal liberation e Should the baby live? The problem of handicapped children, ha raccomandato l’eliminazione dei bambini handicappati, dei vecchi e dei malati terminali, asserendo che è più morale sopprimere un bambino handicappato che uno scimpanzé sano: “il principio della santità della vita, adottato dalla tradizione cristiana, — farnetica costui — non rappresenta una caratteristica fondamentale della società civile” (le citazioni di cui sopra in Gaspari, Rossi & Fiocchi 1991). Gli ecologisti hanno steso un fitto velo di imbarazzato silenzio su un fatto ignoto ai più: fra i più assidui sostenitori dell’ambientalismo vi era Hitler. Il nazismo praticò su vasta scala la “soluzione finale”, ossia l’assassinio di massa, contro gli handicappati prima di applicarla alla gente sana. Le leggi naziste contro la caccia e per la tutela della natura erano di ineccepibile stampo ambientalista. Un’altra connessione non detta, non dicibile e che è politicamente scorretto nominare, è quella col satanismo. Membri delle massime organizzazioni mondiali impegnate nella “battaglia ecologista” per “salvare il mondo”, quelle stesse a cui gli Stati sovrani stanno svendendo la sovranità che hanno avuto in custodia dai loro popoli, dietro la maschera degli “interventi umanitari” trafficano in organi umani strappati ai poveri del Terzo Mondo e creano reti di pedofili dove si vendono, come “merce” da consumare atrocemente, corpi di bambini. In certi paesi reti pedofile e ambienti governativi addirittura coincidono e certe alleanze politiche sono saldate dalla partecipazione a comuni, occulte aberrazioni sessuali. Inoltre, queste aberrazioni hanno carattere rituale, sono veri e propri sacrifici umani, riti satanici, messe nere: quello che in passato l’Inquisizione reprimeva con severità implacabile, e che oggi dilaga senza controllo, solo occasionalmente registrato dai giornali (Cosco 1997). Dal Corriere della Sera (28/7/1990): “Orrore a Londra dopo la scoperta di un mercato di pellicole per pedofili con riprese dal vero. (…….) Scotland Yard teme che almeno venti bambini, scomparsi senza lasciare traccia negli ultimi sei anni abbiano fatto una fine orribile. Una squadra speciale è stata formata per indagare nel lurido mercato dei video pornografici snuff destinati a pedofili sadici. La parola snuff in gergo significa ’morire, spegnersi’ e in questi video le piccole vittime sono riprese dalle telecamere mentre sono torturate e uccise dopo aver subìto violenze sessuali. La polizia è convinta che almeno sei bambini siano morti in questo modo a Londra e nella contea del Kent. L’Inghilterra (…….) ha appreso con orrore che in seno alla società circolano mostri pronti a filmare i tormenti, l’agonìa e la morte di bambini per soddisfare il piacere perverso di tanti altri mostri pronti a pagare dieci milioni per una copia del film”. Per una più ampia prospettiva su queste orrende realtà si fa riferimento all’opera Riti e crimini del satanismo del Prof. Del Re (1994) dell’università di Camerino. Ovviamente, simili mostruosità sono tutt’altro che esclusive dei paesi di lingua inglese. Tutto il mondo ne è invaso: numerosi gravissimi casi sono apparsi di recente nella stampa quotidiana riguardo all’India e a vari paesi dell’Africa nera, in parallelo al dilagare nei medesimi paesi delle persecuzioni contro i missionari cattolici e i convertiti locali. Culti tribali, satanismo e il veleno della gnosi, che pretende di “liberare” l’uomo da ogni limite: il “libero esame” protestante hanno segnato la strada di una così ampia diffusione di simili mostruosità in culture lontane l’una dall’altra. Attraverso la secolarizzazione e le elucubrazioni ideologiche, certi cattolici hanno superato i maestri protestanti. Per difendersene occorre, come insegna Maurizio Blondet (in Cosco 1997) “imparare a diffidare dei ’buoni’ e della ’bontà’, specie di quella ideologica e politica, che promette di liberare l’uomo dalle leggi, dalle norme, dai limiti di ogni tipo. Bisogna diffidare acutamente delle organizzazioni burocratiche che dicono di agire ’per puri scopi umanitari’ (…….) di magistrature che, anziché punire assassini pluriomicidi li premiano in nome di una pretesamente più importante ’lotta alla mafia’, rovesciando di fatto la legge penale. (…….) Purtroppo, la confusione satanica s’è infiltrata — non di rado con l’affiliazione a sette segrete, o a indecenti fraternità omosessuali — anche in quella che dovrebbe essere l’agenzia suprema del Verbo. Diffidate di certi cardinali (…….) che ripetono che bisogna ’perdonare’, specie gli omicidi. Il loro super-cristianesimo pretende di essere più ’buono’ di Cristo (…….). Di Farisei buonisti, più pietosi, più ’buoni’ di Cristo, oggi è pieno il mondo. (…….) Cristo (…….) non abolisce la legge penale — sa che se il male non è punito, dilagherà l’odio (…….). Neppure Cristo, che perdona l’adultera e il ladrone, perdona chi non si pente. Perdonare chi non si pente, infatti, è il perdono satanico: perché viola la Legge (…….) significa volere che nel mondo non viga alcun’altra legge che questa: ’Fa’ ciò che vuoi’, il motto dell’iniziazione satanica”. L’abolizione di ogni legge non può che portare al disastro. Bisogna avere il coraggio di guardare il fondo dell’abisso nel quale l’ideologia dominante ammantata di buonismo ecologista ci sta conducendo. Due frasi terribili, una di un intellettuale, l’altra di un uomo politico, dipingono una verità fin troppo evidente: “Gli europei stanno suicidandosi per denatalità” (Aron 1983), “La maggior parte dei paesi dell’Europa occidentale sta suicidandosi, suicidandosi con la demografia, senza nemmeno averne coscienza” (Michel Rocard, primo ministro francese, 20/1/1989, cit. da Dumont 1991). Matrimonio differito, bambino differito, famiglia umiliata, negata, distrutta dall’egoismo, dall’edonismo, dall’omosessualismo. Ma la coppia formata dai genitori è insostituibile. “Tutte le società che hanno proposto soluzioni collettivistiche miranti alla distruzione della famiglia, dalla città platonica al modello marxista-leninista passando per la severa eugenica Città del Sole di Tommaso Campanella (1637) sono state destinate al fallimento. Rileggendo Il mondo nuovo pubblicato da Aldous Huxley nel 1932 ci si accorge dove può condurre la volontà di distruzione dei sentimenti paterni e materni.” (Dumont 1991). L’incapacità di comprendere è sostenuta dalla volontà di chiudere gli occhi per continuare a fare i propri egoistici comodi. Un video prodotto in endoscopia, che mostra la disperata lotta di un feto di poche settimane per sopravvivere, mentre sta per essere risucchiato dall’infernale apparato dell’aborto, non è stato accettato dalle reti televisive in Gran Bretagna, Stati Uniti e in tutti gli altri paesi occidentali, con la scusa che avrebbe “impressionato” gli spettatori. Le medesime reti televisive mostrano a getto continuo film di violenza, perversione e orrore che evidentemente non vengono ritenuti tali da “impressionare” gli spettatori. È palese che la censura al video antiabortista ha avuto tutt’altra origine: dai gruppi di pressione finanziari e tecnocratici che manovrano le campagne abortiste. E si può star certi che nessuno mostrerà in televisione la tecnica più recente di aborto inventata negli Stati Uniti: un metodo che se fosse applicato alle foche scatenerebbe la “virtuosa” rivolta degli animalisti, ma poiché si tratta di bambini passa per una conquista civile. È l’aborto “a nascita avanzata” o “parziale”, praticato quando la creatura è già oltre la ventesima settimana. Il feto viene estratto dall’utero ancora vivo. Siccome pugnalarlo col bisturi o spappolargli la testa contro uno spigolo farebbe apparire in modo troppo evidente la natura omicida del procedimento, è stato escogitato per ucciderlo un sistema molto più elegante: gli si infila un catetere nel cranio e si aspira un po’ di cervello. L’esito è assicurato: il bambino muore. È una realtà crudele e malvagia, sostenuta con brutale arroganza da pseudoscienziati che controllano cattedre, sinecure e prebende accademiche da distribuire o negare agli allievi a seconda della loro docilità e ignoranza (qualità assai apprezzata perché l’allievo asino evita di far risaltare l’asinità del maestro), ma la maggior forza della propaganda contro la vita è proprio ignorare la realtà, complici le farneticazioni filosofiche imperversanti; scetticismo e storicismo: i due paraocchi che impediscono l’esame della realtà, di quella realtà che dà fastidio ai settari di turno. Il neorelativismo pretende di sviluppare studi “scientifici” puramente meccanici e asettici, spesso conditi di modelli matematici, ma che escludono qualunque riferimento ai comportamenti dello spirito umano, che bollano come “emotivo” ogni riferimento alla vita spirituale. I prodotti di simili studi non sono che ideologia dissimulata da un linguaggio scientifico il più oscuro ed astruso possibile. Possono essere metodologicamente ineccepibili sul proprio terreno, ma creano l’illusione di aver compreso e di conoscere ciò che non si comprende e non si sa, e che probabilmente non si vuole affatto comprendere né sapere: “gli uomini vollero le tenebre piuttosto che la luce, perché le loro opere erano malvagie” (Giovanni 3, 19). Si giunge così ad oscurare le realtà fondamentali, le realtà di fondo dell’umanità, come la famiglia, da sempre la cellula di base di ogni società, con tutta l’arroganza e il disprezzo di cui i grandi e prestigiosi studiosi sono capaci nei confronti del “banale buon senso” della “gente comune”. Dappertutto esiste l’istituzione del matrimonio, soprattutto per dare ai nuovi nati “uno statuto di legittimità”, e nonostante i mutamenti che l’istituto familiare ha conosciuto nelle diverse culture ed epoche, è pur sempre chiaramente riconoscibile attraverso il tempo ed ha sempre costituito la cellula fondamentale di ogni società, fin dalla preistoria, né è risultato di un’evoluzione ma risponde ad un’esigenza primaria della persona umana, dato che la si ritrova in civiltà lontanissime che ignoravano completamente l’esistenza l’una dell’altra (Burguière et al. 1994). “Quando il consumo prevale sulla vita le società favoriscono le spese che apportano all’economia i più grandi benefici immediati. Se le cose stanno così, non c’è proprio posto per il bambino. Egli genera infatti spese d’investimento — quello che in linguaggio economico viene detto ’investimento in risorse umane’ — più che spese di consumo. Genera spese utili più che spese futili. Genera bisogni da soddisfare più che bisogni da saziare. È un fattore di povertà per una società sradicata, in cui le mode dominanti si oppongono a progetti che salderebbero uomini e generazioni in comunità di destino. Non è dunque sorprendente che il bambino europeo sia divenuto raro. Le interazioni tra i nuovi procedimenti tecnici, totalmente efficaci e le evoluzioni sociologiche hanno logicamente condotto a questa specie di complesso di Crono che si traduce nella diminuzione della gioventù della popolazione, nel suo invecchiamento.” (Dumont & Sauvy 1984). I manovratori della lobby abortista trovano quindi potenti alleati nell’egoismo e nel consumismo materialista largamente diffusi. L’espressione “complesso di Crono”, adottata anche dal Dumont (1991), il cui libro si intitola “Il festino di Crono”, si riferisce al mito greco del dio Kronos, o Crono, il Saturno dei Romani, il quale aveva l’abitudine di divorare i propri figli per impedire che un giorno lo spodestassero. Crono voleva fermare il tempo e bloccare il cambiamento che è inerente alla vita, per prolungare egoisticamente il proprio dominio e il proprio piacere. Il grande pittore spagnolo Francisco Goya (1746-1828), verso la fine della vita, dipinse nella sua villa presso Madrid l’immagine di Crono intento a divorare un figlio: calzante rappresentazione della congiura contro la vita, nella quale si distinguono le femministe più esagitate le quali, del tutto prive di qualsiasi traccia di affetto che non sia quello per se stesse, scambiano l’avere figli come una forma di “soggezione al potere maschile”: idee come amore e dedizione, e la dolcezza di avere un bambino non entrano in menti che vivono schiave di un mostruoso egoismo, dietro le sbarre dei propri comodi. Alla Conferenza di Dacca (Bangla Desh, allora Pakistan Orientale), tenutasi dal 28 gennaio al 4 febbraio 1969 e presieduta da Bernard Berelson, le più significative proposte contenute nei vari interventi, e sintetizzate dallo stesso Berelson (1969), facevano leva proprio sull’egoismo e il consumismo. Esse comprendevano: (1) la liberalizzazione dell’aborto; (2) la sterilizzazione, anche all’insaputa delle popolazioni, mediante l’inquinamento delle acque potabili con sostanze apposite; (3) tasse sulle nascite e sgravi fiscali alle famiglie con pochi figli; (4) promozione del lavoro femminile fuori casa per offrire alle donne ruoli e interessi al di là del matrimonio e dei figli; (5) disintegrazione della famiglia mediante la promozione del consumismo; (6) istituzione di matrimoni a tempo senza figli (un gruppo di intellettuali in Gran Bretagna ha chiesto nel 1997 un contratto nuziale con scadenza concordata e rinnovabile); (7) rifiuto di assistenza ai paesi che non limitano le nascite. A questo proposito, Paul Ehrlich, a Dacca, affermò categoricamente: “Si deve rifiutare ogni solidarietà internazionale a quei paesi in rapida crescita demografica che non compiono ogni sforzo per limitare la popolazione. Gli Stati Uniti dovrebbero servirsi del loro potere e del loro prestigio per esercitare una forte pressione diplomatica o economica su quegli Stati o quelle organizzazioni [evidente l’accenno alla Chiesa cattolica] che in qualche modo ostacolano la soluzione del problema più grave del mondo”. La contraccezione è un altro degli aspetti della congiura contro la vita. La pillola anticoncezionale fu sperimentata dal biologo Gregory Pincus a Portorico a partire dal 1956, e la spirale alcuni anni più tardi. Ancor prima che queste “tecniche” diventassero utilizzabili su larga scala, si fondarono simultaneamente nel 1952 gli organismi privati che si sarebbero incaricati di diffonderle in tutto il mondo: il Consiglio della popolazione (Population Council) a New York e, a Bombay, la Federazione internazionale della Pianificazione familiare. (De Lagrange et al.1979). Sul Consiglio della popolazione, fondata dal magnate della finanza John D. Rockefeller III, disponiamo di ampie testimonianze ad opera del presidente e direttore generale dell’organizzazione, Bernard Berelson (Berelson 1965, 1969, 1974, 1975, 1979a, 1979b; Berelson, Ross & Parker Mauldin 1988). Ne emerge che John D. Rockefeller era interessato alla limitazione delle nascite già prima della seconda guerra mondiale: egli apparve sempre del tutto incapace di apprezzare i ben noti rischi della denatalità ottenuta mediate aborto o contraccezione: invecchiamento della popolazione, disastro finanziario della previdenza sociale, degrado morale e perdita di speranza nella gioventù. Il grande magnate si riempiva la bocca del suo motto: “arricchire la vita”, ma non sembra proprio che la separazione fra sessualità e procreazione, con la relativa denatalità, abbia arricchito la vita. Nel 1910 apparve l’opera di Ellis (1939) sulla “psicologia del sesso”, che già proponeva l’aborto, pratica allora proibita in Gran Bretagna da una legge del 1861 che lo considerava fra le offese contro la persona. Qui, come negli USA, le femministe furono all’avanguardia a chiedere, accanto a rivendicazioni legittime, come eguaglianza di diritti e il voto alle donne, anche il “controllo delle nascite”, unito al “progresso razziale”. “Le più attive erano negli USA, nel 1910, Margaret Sanger, in Gran Bretagna Marie Stopes (fondatrice, insieme al marito Humphrey Verdon Roe, della “Clinica della Madre per il Costruttivo Controllo delle Nascite e il Progresso Razziale”) e soprattutto la signorina Stella Browne, socialista e femminista: per lei molto più importante della pianificazione familiare è l’”autodeterminazione sessuale” delle donne, al punto di auspicare non solo i metodi contraccettivi, ma anche l’aborto, nel suo intervento alla Conferenza internazionale del neomalthusianesimo e del controllo delle nascite, tenuta a Parigi nel 1922.” De Lagrange et al. (1979). La Stopes, autrice di varie pubblicazioni (1926, 1927, 1930, 1931, 1932), tradotte in diverse lingue, venne acclamata come grande personalità, scambiò corrispondenza con alcuni dei maggiori scrittori del suo tempo, come G.K. Chesterton e G.B. Shaw, e ricevette, già da viva, e ancor più da morta, gli osanna di una coorte di biografi che la salutavano come “missionaria laica”, “crociata”, “autrice della rivoluzione sessuale” (Begbie 1927, Briant 1962, Coldrick 1992, Hall 1977, 1978, Maude 1924, Ross 1993). Su queste posizioni materialiste, il liberale Occidente si allinea alla dittatura comunista. “Stella Browne si entusiasma per le scelte sovietiche [decreto per la liberalizzazione dell’aborto, 18/11/1920] e, grazie ad esse e con il sostegno di altri promotori del controllo delle nascite, dà un deciso impulso alla sua battaglia per la liberalizzazione dell’aborto. La si incontra all’importante congresso di Londra (1929) della Lega mondiale per la riforma sessuale ed è tra i membri fondatori, nel 1936, dell’Associazione per la riforma della legge sull’aborto, con Janet Chance, Joan Malleson e Dora Russell. La nuova posizione dell’URSS, che nello stesso anno 1936, di fronte alla crescita del numero degli aborti e alla caduta catastrofica delle nascite, proibisce per decreto (27 giugno) l’aborto — salvo eccezioni per casi in cui esiste un’indicazione medica —, non induce Stella Browne e i suoi amici inglesi a mutare il loro orientamento.” (De Lagrange et al. 1991). Il Congresso internazionale della Lega mondiale per la riforma sessuale, tenutosi a Londra nel 1929, fu infatti dominato dall’”affascinante” esperienza sovietica in fatto di aborto, nonostante che la stessa Unione Sovietica stesse per fare macchina indietro, spaventata dal drammatico crollo delle nascite, come in effetti fece nel 1936. Nel mondo anglosassone, l’aggressione alla vita si fece sempre più aperta con la fondazione, sempre a Londra, della già ricordata Associazione per la Riforma della Legge sull’aborto. Nello stesso anno usciva il libro dello statunitense Taussig (1936), Abortion control through birth-control, patrocinato dall’organizzazione privata statunitense denominata “Comitato nazionale per la Salute materna”. Segretario di tale organizzazione era il dottor Robert L. Dickinson, che aveva incoraggiato Taussig a scrivere il libro sull’aborto, e che ne pubblicò un altro sul medesimo argomento due anni dopo (Dickinson 1938). Evidente è il legame fra i due movimenti abortisti sulle due rive dell’Atlantico: in entrambi si faceva leva sulla contraccezione, più accettabile, per aprire la strada all’aborto. La seconda guerra mondiale fece passare in secondo piano il problema, che tuttavia riemerse violento a partire dal 1963, quando una femminista radicale di sinistra assunse la presidenza dell’Associazione per la Riforma della Legge sull’aborto (ALRA). Si trattava di Vera Houghton, moglie di Douglas Houghton, presidente del gruppo parlamentare laburista alla Camera dei Comuni britannica. In precedenza, Vera Houghton era stata segretaria esecutiva della Federazione Internazionale per la Pianificazione Familiare, che ha sede a Londra ed aveva già fuso i vari movimenti nazionali per la “pianificazione familiare”, sotto gli auspici di Fondazioni private americane. Sotto l’energica direzione di Vera Houghton, gli associati all’ALRA quintuplicano, superando il migliaio nel 1966, ed organizzano lobbies sia nella Camera dei Comuni che in quella dei Lord. Fondazioni statunitensi versarono generosi contributi finanziari all’associazione. Accompagnata da una ossessiva propaganda, che presentava l’aborto come una benefica misura filantropica volta ad eliminare l’aborto clandestino, la legge che liberalizzava tale pratica venne votata il 27 ottobre 1967 alla Camera dei Comuni e diventò esecutiva il 26 aprile 1968. In realtà, le statistiche delle presunte “morti per aborto clandestino” erano state paurosamente gonfiate mediante cervellotiche “stime” che nulla avevano di scientifico (De Lagrange et al. 1979): un disonesto metodo che verrà applicato via via in ogni Paese, inclusa l’Italia, per circonvenire e plagiare l’opinione pubblica. Gli USA giunsero poco dopo all’introduzione massiccia dell’aborto, con la decisione del 22 gennaio 1973 della Corte Suprema che dichiarava incostituzionali le leggi statali che limitavano la pratica dell’aborto. In entrambe la nazioni anglosassoni, fu in pratica quasi soltanto la Chiesa cattolica ad opporsi con tutta la sua forza, ma naturalmente invano, all’aggressione contro la vita. Fu soprattutto la nuova legge britannica a servire da modello per analoghe iniziative nei paesi sottosviluppati, quelli appunto di cui maggiormente ci si preoccupava per contenerne la crescita e mantenere invariati i rapporti di forza internazionali, ma furono il governo federale statunitense e le fondazioni private americane, come la Ford e la Rockefeller, a costituire la maggior forza di pressione, data la loro preponderanza in fatto di mezzi finanziari. La concessione di aiuti internazionali ai paesi poveri o “in via di sviluppo”, infatti, come suggerito alla Conferenza di Dacca ricordata sopra, venne subordinata all’adozione di politiche di controllo delle nascite, mediante contraccezione, sterilizzazione e (dove era possibile farlo accettare alle popolazioni) aborto, anche se taluni di questi paesi sono in effetti sottopopolati e non hanno un incremento demografico particolarmente rapido. Il contributo del femminismo a tutto questo disastro morale e materiale è evidente. Senza la “rivoluzione sessuale” femminista, nulla di tutto questo sarebbe stato possibile. Occorre ovviamente distinguere un femminismo civile, che chiede solamente il riconoscimento che la donna è cittadina a pieno titolo — ciò che è senz’altro un valore positivo — dall’iperfemminismo e dal neoiperfemminismo. L’iperfemminismo è apparso negli anni Sessanta: proclamava che la donna doveva rifiutare il suo ruolo di madre, diventare “maschio”, distruggere la differenza biologica. Fallita questa ridicola pretesa, si è pensato, negli anni Ottanta, di capovolgere la prospettiva inventando il neoiperfemminismo: è il maschio che dovrebbe essere “omologato alla donna” (Dumont 1991). Miserabile società da cui, svanita la differenza dei sessi, è negata la famiglia, né l’individuo può completarsi nell’altro, perché sono tutti “uguali” e quindi soli. Il neoiperfemminismo tende a produrre leggi contro la famiglia, come la possibilità di adozione a coppie omosessuali. I media hanno largamente propagandato come “progressista” e “tollerante” questa ideologia che porta a distruggere i valori chiave di qualunque società. Un autentico terrorismo intellettuale demonizza e copre di ridicolo chi difende la famiglia. Anche qui, come abbiamo visto, la tecnologia, con l’inseminazione artificiale, è venuta in soccorso dei distruttori. “Come le economie dei paesi marxisti hanno dovuto dichiarare bancarotta in seguito all’applicazione di un’ideologia anti-imprenditoriale, così le popolazioni dei paesi occidentali rischiano fra non molto la bancarotta per l’invecchiamento della loro piramide di età, in seguito al dominio dettato nelle linee politiche dalle ideologie antifamiliari.” (Dumont 1991). Siamo ovviamente di fronte ad un sistema coordinato, integrato e coerente di innovazioni disintegrative, che stanno conducendo la maggior parte dei paesi europei, Gran Bretagna in testa, alla rovina. Lo prova, fra l’altro, la Conferenza organizzata a Bucarest dalle Nazioni Unite nel 1972, ha segnato un netto punto di svolta. Doveva infatti servire a dare maggior impulso al contenimento delle nascite nei paesi in via di sviluppo. Questi tuttavia si ribellarono, Argentina in testa, contro una politica demografica voluta e guidata dalle potenze anglosassoni per il loro esclusivo interesse, a danno dei paesi meno sviluppati. È stato così inferto un colpo mortale all’idea che limitare le nascite sia la panacea per il cosiddetto “Terzo Mondo”. Al tempo stesso, questa ideologia, questo complotto premeditato e organizzato da tecnocrati e finanzieri ai danni dei paesi poveri, si sta sempre più rivelando un boomerang che intacca la vitalità dei paesi anglosassoni, e di quelli occidentali in genere, che sono stati tanto ciechi, egoisti e corrotti da seguire gli anglosassoni su una china tanto scivolosa. Tutti i paesi occidentali che hanno introdotto l’aborto, hanno immediatamente riscontrato un netto calo di natalità che ha portato le nascite al di sotto di quel numero di due per donna in età feconda (in effetti 2,1 per compensare i decessi per incidenti) che è indispensabile per rimpiazzare almeno la popolazione esistente. Basti l’esempio dell’Inghilterra e del Galles, dove nel 1967, anno dell’approvazione della legge per liberalizzazione dell’aborto, il numero di bambini per donna fertile era 2,6; già nel 1973 tale numero era sceso a 2,02; nel 1977 a 1,68. Persino in Irlanda, sapientemente organizzati dalla massoneria che tira i fili da Londra, fautori della “rivoluzione sessuale” e abortisti stanno cercando di prevaricare sulla maggioranza cattolica, sebbene finora senza successo. Life, l’organizzazione britannica per la difesa della vita, accusò nel 1998 la politica governativa per il vertiginoso aumento di gravidanze di minorenni: contraccettivi e un’”educazione sessuale” del tutto svincolata da qualsiasi valore morale, e persino da qualsiasi avvertimento sui rischi per la salute, fanno sì che la Gran Bretagna detenga il primato mondiale delle gravidanze di minorenni, il 52% delle quali termina in aborto. Nel 1973 una bambina di 10 anni ha legalmente abortito (De Lagrange et al. 1979). Ha creato scalpore, nel 1999, il caso di un ragazzo quattordicenne di Sheffield divenuto padre. Il ragazzo stesso, che ha rifiutato l’aborto, ha accusato il sistema scolastico: “Sono troppo esplicite le lezioni di educazione sessuale. A scuola ci fanno vedere dei video che dovrebbero essere educativi. Invece sono pieni di corpi nudi e non fanno altro che svegliare il nostro istinto sessuale. Ce li mettono davanti quando siamo ancora bambini e all’improvviso diventiamo adulti”. Il ragazzo ha avuto il suo primo rapporto a nove anni. Nessuno gli ha mai spiegato, sottolinea, che il sesso dovrebbe andare assieme all’amore. E del resto, dal 1996, un consultorio medico di Bristol (The Amelia Nutt Family Planning Clinic) si è messo a distribuire preservativi a bambini e bambine di nove anni. Nel 1995 il Times di Londra riferì che molte aspiranti donne in carriera si fanno sterilizzare fin da ragazze per non correre il rischio che, in seguito, una gravidanza possa ostacolarle sul lavoro e nella vita mondana. Il fenomeno, conseguenza delle crescenti ambizioni sociali ed economiche, era inesistente fino ai primi anni Novanta. I medici britannici solitamente rifiutano di rendere sterile una donna al di sotto dei ventotto anni che non abbia validi motivi di salute, ma i centri intitolati a Marie Stopes (Marie Stopes International) ed altri consimili effettuano sempre l’intervento su semplice richiesta. Sul piano delle patologie infantili, il disastro è evidente. Bambini cresciuti in famiglie sfasciate dal divorzio o distrutte dalla povertà, che crescono soli, “con la chiave di casa intorno al collo”, che tornano nel pomeriggio da scuola in dimore vuote e fredde, si piantano davanti al televisore e si cibano di patatine e Coca Cola. Quattro bambini su dieci in Gran Bretagna soffrono di disturbi mentali più o meno transitori, e un quarto della popolazione infantile ha gravi malattie mentali che vanno dalle psicosi alle tendenze suicide, alla depressione, alla violenza, e che spesso non vengono curate o a cui si rimedia con molto ritardo. La progressiva distruzione delle famiglie, l’assenza dei genitori, la mancanza di una figura paterna, le inadempienze dei servizi sanitari e delle cure per i bambini affidati allo Stato contribuiscono a spiegare il grave degrado, che ha reso le scuole britanniche estremamente pericolose e violente. Nell’estate del 1995 il quartiere di Marsh Farm, a Luton, è stato messo a ferro e fuoco da bande di minorenni annoiati che hanno incendiato automobili e tre scuole, tentato di incendiare un distributore di benzina, assalito i pompieri e la polizia. Alcuni dei teppisti avevano dodici anni. Il quartiere, socialmente depresso, è di quelli sorti negli anni Settanta sotto i laburisti, sempre affetto da un’elevata criminalità giovanile, specie in epoche di recessione: quartieri esteticamente disastrosi, dove manca un radicamento alla storia e alle tradizioni, risultato delle utopie partorite a tavolino da architetti e urbanisti. Un ragazzo indiano di nome Rashid ha spiegato: “Che futuro abbiamo? Nulla, assolutamente nulla. Niente lavoro, niente soldi, niente auto, niente divertimenti. L’unica cosa che ci diverte un po’ è attaccare la polizia. È l’unica cosa che ci dà un fremito di eccitazione; è un modo di uccidere la noia”. Da gennaio ad aprile del 2000 gli incendi appiccati dai giovani delle scuole, con una media di tre al giorno, hanno causato danni per 150 miliardi di lire (€ 77 milioni). Molti piromani agiscono in preda all’alcol o alle droghe. In compenso è spaventosa l’ignoranza degli adolescenti britannici. Secondo un sondaggio del Reader’s Digest, tenutosi nel 1993, uno ragazzo su dieci non era neppure in grado di trovare sulla carta geografica il proprio Paese. Appena il 2% ricordava la data dello sbarco di Guglielmo il Conquistatore in Inghilterra. Oltre metà non sapeva chi è l’autrice di Orgoglio e pregiudizio. A 17 anni un ragazzo su quattro naufragava nel calcolo di quante banconote da 5 sterline ci vogliono per farne 65. Appena un terzo degli adolescenti conosceva il nome di almeno due ministri in carica. Su un campione di 500 adolescenti nemmeno uno aveva risposto con esattezza a tutti i diciannove quesiti del sondaggio. Tutti però sapevano che l’età minima per l’acquisto di bevande alcooliche è diciotto anni. Nel 1997 il capo ispettore didattico Chris Woodhead rivelò che in Gran Bretagna vi erano 3.000 presidi da considerare incapaci, come pure 13.000 insegnanti, e che il 16% delle lezioni erano insoddisfacenti. Con sempre meno bambini, e quei pochi sempre più viziati, svogliati e ignoranti, i popoli ricchi si chiudono nell’edonismo, nell’egoismo, nel consumismo, nella pretesa che tutto sia perfetto e di loro gradimento. Perfetta dev’essere la nascita, le rare volte in cui si accetta un figlio. Riemerge il perfettismo che caratterizzava le filosofie pagane di Platone e Aristotele, e riemerge soprattutto in Gran Bretagna. Sette genetisti si riunirono in Scozia nel 1939 per proporre che si utilizzassero le manipolazioni genetiche per migliorare l’intelligenza della popolazione. Francis Harris Compton Crick, un inglese premio Nobel per la medicina nel 1962 voleva che il diritto di mettere al mondo un bambino fosse concesso esclusivamente a genitori di comprovate qualità genetiche (Dumont 1991). Proposte del genere, che ricordano le teorie hitleriane, rappresentano esempi di quella che gli antichi Greci chiamavano “hubris”, ossia “orgoglio, empietà”, in pratica l’ambizione di eguagliare Dio, esattamente come Lucifero. Purtroppo lo sviluppo tecnologico non manca di favorire simili aberrazioni. Scrive il Thuillier (1990): “Molti indizi mostrano il riunirsi di numerose condizioni favorevoli all’insorgere dell’eugenismo. Le biotecnologie della riproduzione umana, la fecondazione in vitro, la banca dello sperma, ecc. progrediscono e fanno già parte della vita comune. La tendenza a ’tecnicizzare’ questa funzione essenziale non può che moltiplicare le occasioni per procedere a test genetici per rinforzare la “selezione” dei geni. I vantaggi sono evidenti, ma allo stesso tempo appare la tentazione di quello che si potrebbe chiamare un eugenismo dolce, di tipo moderato e tecnocratico. Ricordiamo anche che, dal 1941 al 1975, 13.000 persone sono state sterilizzate contro il loro parere in un Paese che si dice democratico: la Svezia. E questo nel nome dell’”igiene sociale” o dell’”igiene razziale”? Quella ragazzina è stata sterilizzata perché era ’civetta, ingenua, procace e facile da sedurre’; quell’adolescente perché appariva ’asociale’”. E perfetta, limpida, dignitosa, senza sofferenze, si vuole anche la morte. Illudiamoci di essere dèi, rifacciamo la natura umana, inventiamo la “morte dolce”, l’eutanasia. Il cerchio è completo, la cultura della morte trionfa col nuovo paganesimo. Si ritorna alla morale antica (peggiorata), si cancella il Cristianesimo. Il dolore, la Croce, sono “imperfezioni”, via dunque. C’è però una differenza rispetto agli antichi pagani: essi sentivano una profonda aspirazione al divino, poiché lo intuivano pur senza conoscerlo, tanto che gli ateniesi avevano dedicato un tempio “al Dio sconosciuto”, e S. Paolo poté dire loro: “Il Dio che voi adorate senza conoscerLo, io ve Lo annuncio” (Atti degli Apostoli 17, 23). Ai neopagani di oggi, al contrario, un’aspirazione del genere manca del tutto. Dio è già passato, ma non è piaciuto, perché portava la Croce e invitava i suoi seguaci a prendere ciascuno la propria croce e seguirLo. Ma chi siamo noi per giudicare? Se si fosse intervenuti con l’eugenetica nel passato, quanti geni non sarebbero mai nati? Tanto per cominciare, non avremmo la musica di Ludwig van Beethoven, i cui genitori oggi sarebbero giudicati affetti da troppe tare ereditarie per poter mettere al mondo dei figli. “Oggi il bambino non ancora nato è il bersaglio per la morte, per ammazzare, per distruggere, perché l’aborto è proprio distruggere l’immagine di Dio, è la più grande piaga della nostra società, è quella che distrugge di più l’amore e la pace.” (Madre Teresa di Calcutta nel discorso pronunciato il 17 maggio 1986 nel Palazzo dello Sport a Firenze, cit. nella Prefazione di Pier Ferdinando Casini in De Lagrange et al. 1979). “L’introduzione della legislazione permissiva dell’aborto è stata considerata come l’affermazione di un principio di libertà. Domandiamoci invece se non sia il trionfo del benessere materiale e dell’egoismo sul valore più sacro, quello della vita umana. Si è detto che la Chiesa sarebbe stata sconfitta perché non era riuscita a far recepire la sua norma morale. Ma io penso che in questo tristissimo e involutivo fenomeno, chi è stato veramente sconfitto è l’uomo, è la donna. È sconfitto il medico, che ha rinnegato il giuramento e il titolo più nobile della medicina, quello di difendere e salvare la vita umana; è stato veramente sconfitto lo Stato “secolarizzato”, che ha rinunciato alla protezione del fondamentale e sacrosanto diritto alla vita, per divenire strumento di un preteso interesse della collettività, e talora si dimostra incapace di tutelare l’osservanza delle sue stesse leggi permissive. L’Europa dovrà meditare su questa sconfitta. La denatalità e la senescenza demografica non si possono ormai più ignorare o ritenere come una soluzione al problema della disoccupazione. La popolazione europea, che nel 1960 costituiva il 25% della popolazione mondiale, se dovesse continuare l’attuale tendenza demografica, scenderebbe, alla metà del prossimo secolo, al livello del 5%. Sono cifre che hanno indotto qualche responsabile europeo a parlare di un “suicidio demografico” dell’Europa. Se questa involuzione costituisce una fonte di preoccupazione, per noi lo è soprattutto perché, osservata in profondità, essa appare come un grave sintomo di una perdita di volontà di vita e di prospettive aperte sul futuro e ancor più di una profonda alienazione spirituale. Per questo non dobbiamo stancarci di dire e ripetere all’Europa: ritrova te stessa! Ritrova la tua anima!” (Giovanni Paolo II parlando al Consiglio delle conferenze episcopali d’Europa, 11/10/1985, cit. in De Lagrange et al.). “Racchiudere l’essere umano entro una concezione meccanica, nella quale i genetisti sarebbero i montatori, i medici i riparatori e i chirurghi i meccanici, è separare il corpo dall’anima, dalla sensibilità, dal pensiero e dalla coscienza. Il neoscientismo, riducendo l’uomo alla dimensione di un oggetto da manipolare in maniera codificata, crea un terribile gulag, il gulag dell’anima, confinato in una iper-razionalizzazione.” (Dumont 1991). I contraccolpi di una deriva morale del genere non possono che essere atroci. Ma anche la salute fisica è in pericolo: la ricerca scientifica ha infatti dimostrato che vi è un probabile collegamento fra aborto artificiale e tumore al seno (Bufil & Di Blasi 2002). La prima gravidanza, infatti, sollecita la rapida proliferazione del tessuto delle mammelle, non ancora completamente sviluppato: una proliferazione che è necessaria al futuro allattamento. Il processo è controllato dall’ormone estrogeno, secreto non dalla madre, ma dal feto stesso. La rimozione di quest’ultimo arresta brutalmente la proliferazione delle cellule, e il potenziale di crescita da esse non utilizzato le rende suscettibili ad un’altra forma di proliferazione, questa volta non ordinata ma patologica: il tumore maligno. Altri studi, sponsorizzati dall’industria abortista, o semplicemente mal fatti, mettono in dubbio o negano il collegamento. Denunce contro Planned Parenthood (una delle maggiori industrie di tal genere degli Stati Uniti) e una clinica abortista del North Dakota per non aver avvertito del pericolo di cancro le aspiranti all’aborto, sono finora terminate, nel 2002, con sentenze di non luogo a procedere (ma in Australia, già l’anno precedente, una donna ha vinto una causa contro il suo medico, riconosciuto colpevole di non averla avvertita del rischio). L’industria abortista ha enormi interessi e le mani estremamente lunghe, così che ci saranno sempre studi di parte miranti a mettere in dubbio il collegamento causale aborto/cancro, ma prove sempre più convincenti si stanno frattanto accumulando (Brind et al. 1994, Daling et al. 1994, 1996). Tutto ciò non ha nulla a che vedere con l’aborto spontaneo, che non comporta rischi del genere, perché in tal caso il feto è debole e la sua produzione di estrogeno scarsa: una simile gravidanza è come un’auto con qualche difetto di alimentazione della benzina, che finisce per arrestarsi da sola. Al contrario, l’aborto indotto che distrugge un feto (un essere umano) sano è un intervento brutale: come se una potentissima auto in ottime condizioni, diciamo una Ferrari, venisse lanciata alla massima velocità ed improvvisamente inchiodata da un violento colpo di freno, con i rischi mortali che facilmente si possono immaginare. Gravissima è la responsabilità di un educatore che sostiene e propaga ideologie mortali come quella abortista, basata sul potere e sul denaro, sull’assassinio del corpo e dell’anima. Poco meno pesante è la responsabilità di chi si astiene dal denunciarle per paura (anche se c’è ben motivo di aver paura, di fronte al bruto potere e all’arroganza del nemico) o per mal riposto rispetto di non si sa quali “delimitazioni disciplinari”. Una simile congiura contro la vita, tanto più devastante perché ammantata di “buonismo” ipocrita, dev’essere smascherata. L’educatore che non la denuncia ne è complice e ne risponderà, non certo in questo mondo dominato dall’ingiustizia (anzi, qui si crogiolerà nelle lodi universali che solleticano i falsi profeti), ma quando sarà troppo tardi per pentirsi, nell’inevitabile rendiconto finale.

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SVILUPPO ED ECOLOGISMO

In netta contrapposizione alle interessate mistificazioni degli ambientalisti, gli interessi dell’Europa, più che dal perpetuarsi del vecchio dominio degli sceicchi e delle “sette sorelle”, avrebbero bisogno di una coraggiosa scelta innovativa, comprendente un’intensa utilizzazione dell’agricoltura e dell’allevamento basati sugli organismi transgenici, lo sviluppo dell’energia nucleare intrinsecamente sicura e del sistema di trasporto Transrapid a sospensione magnetica, definita dal Tietze, non senza una punta di giustificabile entusiasmo, “la più significativa innovazione nel traffico terrestre dall’invenzione della ruota” (Tietze 1998, Tietze & Steinmann-Tietze 2001). Le prime sperimentazioni nel campo della locomozione a levitazione magnetica risalgono al 1912, ma il pioniere, il francese Emile Bachelet, dovette abbandonare i suoi tentativi a causa dell’elevatissimo consumo energetico. La fattibilità di una ferrovia con vetture sprovviste di ruote guidate lungo i binari mediante campi magnetici venne dimostrata nel 1935 dal tedesco Hermann Kemper, il quale ne prese regolare brevetto. I primi veicoli funzionanti (Transrapid) furono costruiti tra il 1969 e il 1972 in Germania. Nel 1989 il Transrapid 07 raggiunse, sulla pista sperimentale di Emsland la velocità di 435 kmh. Anche i giapponesi sono entrati nella gara ed hanno già costruito alcune brevi linee funzionanti. Nel 1997 un treno a levitazione magnetica stabilì in Giappone il record mondiale di velocità su rotaia correndo a 530 kmh. L’installazione di 235 milioni di Gigawatt di potenza elettronucleare e il raddoppio delle capacità nei trasporti attraverso la realizzazione di una rete ferroviaria ad alta velocità e di linee a levitazione magnetica costituiscono il nucleo di un programma di sviluppo, tratteggiato da Engdahl et al. (1991), che beneficerebbe l’Europa continentale, e soprattutto quella centrale, facendo della regione un cuore economico megalopolitano di importanza mondiale, superando fra l’altro facilmente il problema dell’alto consumo energetico legato alle linee ferroviarie a levitazione magnetica: classico caso di innovazioni che convergono potenziando la sinergìa del sistema economico, analogamente al rapporto fra macchine e industria tessile nella prima rivoluzione industriale. Il reattore nucleare a sicurezza intrinseca potrebbe rappresentare una soluzione pressoché definitiva al problema energetico, se si trovassero governi abbastanza determinati a constrastare con decisa volontà politica e con una opportuna campagna di informazione gli interessi costituiti della lobby petrolifera e le smanie isteriche dei suoi ascari ecologisti in fatto di energia nucleare. È senz’altro vero che le centrali nucleari di costruzione tradizionale presentano dei rischi di fuoruscita di vapori radioattivi, anche se va sottolineato che l’unico incidente veramente grave, quello di Cernobyl, fu causato dalla struttura arcaica ed estremamente malsicura dell’impianto, privo di un’adeguata copertura, e dalla gestione demenziale della centrale stessa da parte degli addetti che facevano “esperimenti” spegnendo il sistema di raffreddamento per vedere fino a che punto si poteva arrivare prima della fusione del nucleo, finché questo si fuse davvero, causando un’esplosione che diede l’impressione di una nuova stella in cielo (“E vidi una stella nel cielo, e la stella cadde sulle acque, e le acque divennero amare, e un terzo degli uomini e un terzo del bestiame morirono perché le acque erano diventate amare. E udii il nome della stella, e il suo nome era ’assenzio’.”, recita l’Apocalisse di San Giovanni 8, 10-11, e questi versetti venivano citati con paura dagli abitanti dell’Ucraina dopo il disastro, dato che, stranamente, “Cernobyl” in ucraino significa appunto “assenzio”). Le centrali tradizionali dei paesi occidentali, assai meglio costruite di quelle sovietiche, hanno coperture solide e sofisticati sistemi di controllo multipli che più di una volta hanno impedito che si verificassero disastri. Anche l’incidente di Three Mile Island in Pennsylvania, il più grave mai verificatosi in Occidente, non ha avuto praticamente conseguenze. Le frenesie ecologiste che istericamente identificano la centrale nucleare con la bomba atomica sono perciò assolutamente infondate, anche perché di solito il carburante nucleare è ben diverso da quello usato per gli ordigni bellici. Inoltre al rifornimento di una centrale nucleare è sufficiente un solo carico di un aereo cargo perché la centrale funzioni senza ulteriori rifornimenti per dieci anni. Al contrario, una centrale a carbone, a petrolio o a gas necessita di un flusso continuo di rifornimenti. Ne consegue che sui rifornimenti di una centrale di questo tipo si possono lucrare frequenti mazzette, mentre per una nucleare la mazzetta si può ottenere una volta sola. Questo spiega egregiamente il peloso interesse di politici e alti funzionari statali a demonizzare l’energia nucleare e ad affidarsi invece ad altri tipi di centrali, più costosi per il bilancio statale, e quindi per i contribuenti, ma più graditi a lorsignori. Non è difficile, poi, immaginare quali reazioni susciti l’idea di una rete di centrali nucleari tale da ridimensionare l’uso del petrolio, presso le arcaiche corti degli sceicchi e negli uffici ad aria condizionata delle grandi compagnie petrolifere, e quali mezzi leciti ed illeciti simili ambienti, non escluso l’assassinio, siano in grado di mettere in opera per far accantonare l’opzione nucleare. Esiste quindi una tenacissima ragnatela di interessi costituiti e di superstiziosi isterismi che tenta di sbarrare la strada ad una soluzione razionale del problema energetico. Al di là di tutto ciò, tuttavia, il pericolo delle centrali nucleari tradizionali, per quanto remoto, è reale. Da una parte vi è il rischio di danni di origine naturale: tifoni, tornado e terremoti possono lesionare gravemente gli impianti e provocare fuoruscite di materiale radioattivo: un evento del genere non si è fortunatamente mai verificato, ma non lo si può escludere in futuro. D’altro canto gli impianti di sicurezza che dovrebbero spegnere la centrale in caso di incidente, per quando duplicati e triplicati, possono comunque guastarsi, o andare soggetti ad attentati terroristici, con conseguenze potenzialmente catastrofiche. È quindi giustificato, al di là degli allarmismi esagerati ed esagitati, eliminare gradualmente le centrali nucleari esistenti, ma non per sostituirle con fonti “pulite” come l’energia solare, eolica o dalle biomasse, alle quali non si deve peraltro certo rinunciare, ma che possono essere utili a scopi integrativi senza poter sostituire le fonti energetiche combustibili. I pannelli solari possono essere ottimi, in regioni soleggiate, per riscaldare l’acqua di un’abitazione, ma per rifornire una città intera di energia solare sufficiente ai normali consumi occorrerebbe infatti una centrale grande quanto la città stessa, senza contare le interruzioni di corrente in caso di prolungata nuvolosità. Anche l’energia eolica e quella dalle biomasse sono insufficienti ed inaffidabili per una produzione massiccia e continua quale è richiesta dall’economia moderna. La soluzione è invece data dai reattori nucleari a sicurezza intrinseca, a spegnimento passivo, protetti dal rischio di fusione del nucleo dalle medesime leggi della fisica che ne rendono possibile il funzionamento, e di cui esistono già prototipi funzionanti in Svezia e negli Stati Uniti. Nel primo paese è stato inventato il reattore ad acqua leggera PIUS (Process Inherent Ultimate Safety, “Assoluta sicurezza intrinseca al processo”), che si basa sull’immersione delle barre di combustibile, uranio o altro elemento radioattivo, in acqua pura, che permette il funzionamento del reattore, e in acqua contenente una densa soluzione di acido borico, separate da un sistema di pompaggio che le mantiene stratificate: per leggi fisiche indipendenti da qualsiasi meccanismo di sicurezza, non appena si verifica un incidente di una qualche gravità, la pompa viene danneggiata e l’acqua borata si mescola a quella pura bloccando l’emissione di radioattività, e quindi spegnendo il reattore. Ancor più sicuro è il reattore HTR (High Temperature Reactor, “Reattore ad alta temperatura”), realizzato negli Stati Uniti, che impiega come combustibile ossidi di uranio racchiusi in involucri di materiale ceramico, moderato a grafite, raffreddato a gas: la condizione di assoluta sicurezza è garantita dal fatto che gli ossidi di uranio hanno un altissimo punto di fusione, a 2600°C, ma la temperatura massima che il reattore può raggiungere, anche in caso di rottura del circuito di raffreddamento e perdita totale del refrigerante, è di 1600°C. Per maggior sicurezza l’involucro del reattore è progettato per resistere a temperature di 2000°C. In una conferenza al CERN di Ginevra, tenuta nel 1994, poi, il fisico italiano Carlo Rubbia ha presentato una sua importantissima teoria per un reattore a fissione pulito, basato sul ciclo torio-uranio con neutroni non più prodotti dalla classica reazione a catena ma ottenuti da un acceleratore di particelle, assicurando così l’impossibilità che la reazione sfugga al controllo e dia luogo ad esplosioni. Inoltre sarebbero prodotte meno scorie radioattive, dalle quali non sarebbe possibile ottenere materiali utilizzabili per costruire bombe. Appunto sul problema delle scorie si è spostato il tiro degli ecologisti, spiazzati dall’invenzione delle centrali intrinsecamente sicure. Non potendo più giocare sul rischio di esplosioni o di nubi radioattive, gli ecologisti si agitano sul problema del combustibile esaurito ma ancora radioattivo. Si tratta comunque di quantità limitate, poiché una carica di centrale nucleare dura una decina d’anni, e quando occorre sostituirla non è affatto necessario sotterrarla nelle terre emerse creando zone di relativo rischio, come è stato fatto in passato. Per conseguire il massimo della sicurezza, le scorie radioattive, chiuse in fusti impermeabili, possono venire calate su un fondo marino pelagico, a profondità di oltre 4000 metri, in prossimità di zone di subduzione, da un’apposita nave madre insieme a robot perforatori controllati a distanza, che avrebbero il compito di seppellire le scorie alla massima profondità possibile. A causa della subduzione, il deposito sottomarino verrebbe semplicemente trascinato dalle forze tettoniche compressive sempre più in profondità nella crosta terrestre nel corso di processi geologici ad una scala dei tempi misurata in milioni di anni. Sulla base delle tecnologie già esistenti, sviluppate per l’attività mineraria sui fondi marini pelagici, non dovrebbe essere impossibile realizzare un progetto del genere. L’energia prodotta dalle centrali nucleari è così economica che il sovrapprezzo per finanziare il costoso processo di eliminazione delle scorie sotterrandole nei fondi pelagici non sarebbe quasi avvertito. Ciò che invece vistosamente manca è la volontà politica. Se venisse ventilata seriamente una proposta del genere, non è difficile immaginare quali convulsioni isteriche provocherebbe negli esclusivi circoli iniziatico-esoterici delle oligarchie petrolifere e, di riflesso, nelle torme di ben manipolati ascari ecologisti. Esistono altre forme di produzione energetica alternative al petrolio. Perché dunque proprio l’alternativa nucleare suscita opposizioni così violente, mentre altre fonti, come quella eolica e la solare sono invece quasi sempre gradite alle oligarchie del petrolio e ai loro ascari? Il ricordo di Hiroshima e Nagasaki è ormai remoto, e se i mass media non vi insistono per motivi di propaganda, difficilmente possono esercitare un’influenza significativa. La risposta più verosimile è che il vento e il sole rappresentano false alternative, in grado di coprire solo una frazione minima del fabbisogno energetico, ma permettono agli ecologisti di far credere di essere animati da un sincero desiderio di produrre energia “pulita”, mentre le raffinerie continuano frattanto a pompare a tutta forza. Le opzioni energetiche eolica e solare rappresentano un esatto parallelo di quella che in politica si chiama un’opposizione di comodo. Questa è un’alternativa politica debole, rappresentata da partiti che non si oppongono seriamente al regime, ma gli garantiscono una “foglia di fico” di falso “pluralismo”, e quindi un’apparenza di “democrazia”. A questo servivano appunto i partiti non comunisti tollerati dai regimi comunisti dei paesi satelliti come la Polonia, la Cecoslovacchia, l’Ungheria, prima del crollo del Muro di Berlino. La tolleranza dipendeva dal fatto che tali partiti erano debitamente “addomesticati” . Ma non appena sorgeva in quei paesi un qualsiasi movimento fuori degli schemi di regime, capace perciò di rappresentare una minaccia per le poltrone della nomenklatura comunista, ecco che si udivano subito sferragliare di carri armati e tintinnio di manette. Analogamente, se le centrali eoliche o quelle solari fossero davvero competitive con quelle a idrocarburi, comincerebbero subito a comparire studi “scientifici” che ne scoprirebbero insospettati pericoli ambientali e danni per la salute. Ben presto Greenpeace, l’Aspen Institute, gli “Amici (sic) della Terra”, e tutte le altre organizzazioni che pretendono di vegliare sulla “salvezza” del mondo, si scatenerebbero in azioni dimostrative contro le centrali incriminate, gli ecoterroristi tirerebbero fuori la dinamite, mentre gli ubbidientissimi “disobbedienti” marcerebbero al grido: “Giù le mani dal sole e dal vento”, rovesciando e incendiando cassonetti della spazzatura e lanciando pietre e bottiglie Molotov contro gli agenti. Se si potesse avviare una nuova rivoluzione industriale, basata, oltre che sul nucleare intrinsecamente sicuro e sul trasporto rapido a levitazione magnetica, anche sull’industria dei computer e sull’agricoltura transgenica e le sue produzioni agropastorali ad altissima resa, l’economia ne sarebbe interamente rinnovata. Ciò tuttavia dà ombra a giganteschi e ben evidenti interessi costituiti, ai quali non è difficile mobilitare disinformatori di professione sia tra i professori universitari e gli insegnanti delle scuole, sia tra i giornalisti. A questi si aggiungono, a cascata, disinformatori in buona fede, quale confessa anche lo scrivente di essere stato, per un certo tempo, prima di capire che cosa c’è dietro certe ben concertate campagne di ossessivo ambientalismo. E i disinformatori a loro volta mobilitano masse di giovani ignari, pronti a trasformarsi in dimostranti travestiti da scheletri contro il nucleare o in deformi cucurbitacee contro i cibi transgenici, nella patetica convinzione di stare facendo qualcosa per “salvare il mondo”. Era del tutto prevedibile che contro il progetto di un autentico salto di qualità nello sviluppo economico si levassero obiezioni ed ostacoli d’ogni genere. Anche l’industria automobilistica, avendo puntato tutto o quasi sul motore a combustione interna, ha legato indissolubilmente i propri interessi alle lobbies petrolifere, e si tratta di lobbies a loro volta potentissime, specie nel mondo di lingua inglese, in grado di condizionarne pesantemente le politiche statali. E naturalmente il blocco di potere anglosassone atlantico, per quanto alleato dell’Europa, non ne vede troppo di buon occhio uno sviluppo tale da farne un forte concorrente: è la riedizione della vecchia rivalità con la Germania, già causa di tanti lutti. Tuttavia, la necessità di far fronte al terrorismo islamico sostenuto dai petrodollari degli sceicchi potrebbe portare anche gli elettorati dei paesi anglosassoni a riconoscere che i loro interessi non coincidono con quelli dei petrolieri, e di conseguenza a rendersi conto dell’opportunità di ridimensionare la dipendenza dal petrolio. A forza di produrre ottusamente fiumi di automobili, non si può che precipitare nella crisi e trascinare con sé le città che esclusivamente all’industria automobilistica e al suo indotto si affidano. Tecnologia matura e mercato saturo sono le due condanne dell’auto, cui si potrebbe aggiungere l’inquinamento atmosferico urbano e la congestione del traffico. Occorre trovare soluzioni nuove, e queste potrebbero essere offerte proprio dal più volte citato trasporto a levitazione magnetica e dalle centrali nucleari intrinsecamente sicure. Insieme all’elettronica, ai computer e all’agroindustria basata sugli organismi geneticamente modificati, potrebbe quindi formarsi una nuova costellazione di industrie altamente innovative e con vaste prospettive di mercato. Queste potrebbero essere le innovazioni chiave di una nuova rivoluzione industriale, così come le macchina a vapore, le macchine tessili e gli altiforni hanno costituito la costellazione vincente della prima rivoluzione industriale. Non è difficile immaginare quale scossa potrebbe dare all’economia languente (che si arrovella sul futuro dell’auto e sulla cassa integrazione) l’apertura di cantieri per la costruzione di centrali intrinsecamente sicure e di linee ad alta velocità a levitazione magnetica, la produzione in massa di alimenti geneticamente modificati che potrebbero risolvere e ridicolizzare il problema della fame, nonché l’impulso indotto che questi sviluppi darebbero all’elettronica e ai computer. Ma l’isterica furia ambientalista al soldo dei petrolieri e degli sceicchi lo permetterà? Senza alcuna seria base scientifica, la propaganda ecologista mira esclusivamente a suscitare stati d’animo di angoscia, paura, terrore. L’opinione pubblica viene trattata come i famosi cani di Pavlov (1943). Il fisiologo russo Ivan Pavlov (Ryazan 1849-1936) è il fondatore della teoria dei riflessi condizionati. Da buon materialista (e opportunista) aderì alla rivoluzione comunista sovietica, che lo coprì di onori e prebende. Le sue esperienze sui cani dimostrarono che le povere bestie, debitamente vivisezionate per raccoglierne la saliva, potevano venire condizionate a reagire a certi stimoli. Ad esempio veniva mostrato loro del cibo e contemporaneamente fatto suonare un campanello; i cani cominciavano a salivare alla vista del cibo, ma dopo un certo numero di volte reagivano salivando al solo suono del campanello anche se il cibo stesso non veniva più mostrato. I citrulli succubi della propaganda reagiscono allo stesso modo. Mediante il martellamento, da canali televisivi e giornali, sempre delle medesime frasi terroristiche accuratamente scelte, i babbei vengono condizionati ad associare a determinate innovazioni tecnologiche ed economiche delle immagini di immani catastrofi. Non è difficile, del resto, spaventare la gente, specie se a parlare di catastrofi è qualche “eminente scienziato”, il quale trae lauti guadagni dal catastrofismo, in forma di finanziamenti e notorietà, e che si darà da fare a rovinare la carriera di chi non la pensa come lui, o meglio, di chi non condivide i suoi interessi personali di mistificazione prezzolata. Ed ecco scatenata la serie di reazioni pavloviane secondo l’utile di chi vuol bloccare lo sviluppo perché ha immobilizzato enormi capitali in tecnologie obsolete (petrolchimica, automobili) e le innovazioni distruggerebbero il suo impero economico. Grazie a martellanti manipolazioni, la parola “natura” suscita immagini idilliche (anche se “madre natura” è spesso una matrigna assassina), per contro nominare l’energia nucleare suscita immagini come “bomba atomica = disastro nucleare = cancro = mostri”; parlare di organismi geneticamente modificati suscita convulsioni isteriche sul tema “violenza alla natura = veleni = mostri”; la menzione del trasporto a levitazione magnetica fa scattare il riflesso condizionato “elettrosmog = danni genetici = mostri”. I mostri sono inesistenti in tutti e tre i casi, ma i riflessi condizionati funzionano perfettamente perché, come dice il proverbio, “la madre dei citrulli è sempre incinta”. La psicologia di massa richiede soluzioni immediate e risposte semplici, slogan facilmente comprensibili, come “AIDS = peste del secolo”, “povertà = colpa dei ricchi”, “soluzione per la povertà = ridistribuzione”, “cambiamenti del clima = colpa dell’uomo”, e simili anestetici cerebrali.

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ATMOSFERA, CLIMA, ECOLOGISMO

La propaganda ambientalista riguardo alle foreste tropicali ha trovato uno slogan spesso ripetuto e martellato: si sta distruggendo il “polmone verde” del pianeta, in base al semplicistico ragionamento che le foreste producono ossigeno, dunque meno foreste meno ossigeno. Sotto mira è specialmente il Brasile, che starebbe distruggendo un “patrimonio dell’intera umanità”. Gli interventi del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, tendono a “internazionalizzare” la foresta amazzonica, bloccando lo sviluppo agricolo del Brasile, affinché non dia luogo ad una fastidiosa competizione. Si tratta di un evidente disegno neocolonialista. Il governo brasiliano tenta di reagire alle imposizioni internazionali, affermando, per bocca del ministro degli Esteri Francisco Rezek, che “il governo non permetterà che i problemi dell’ambiente e la questione degli indigeni continuino ad essere strumentalizzati a scopo politico in Europa e negli Stati Uniti (…….). Questi paesi dimenticano princìpi come quello della sovranità territoriale e agiscono come se fossero un ente internazionale distaccato, impegnato a costruire un governo internazionale dell’ambiente” (Italia Oggi 20/4/1990). Ma purtroppo, i condizionamenti internazionali si fanno sentire, in ragione della disparità di potenza finanziaria. Il Brasile avrebbe bisogno del sostegno internazionale per avviare un programma di sviluppo della tecnologia nucleare, ma le sue richieste di finanziamenti in questo senso hanno subìto una brusca battuta d’arresto per la granitica opposizione della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale. Di conseguenza, il grande paese sudamericano deve far ricorso alla tradizionale fonte di energia: il carbone di legna. Analogo problema si pone a molti altri paesi tropicali, costretti ad abbattere le foreste per ottenere l’indispensabile energia. E i medesimi potentati finanziari internazionali cercano di impedire a paesi sovrani anche lo sfruttamento delle foreste. Niente energia nucleare, niente carbone perché inquina, niente carbone di legna perché si distruggono le foreste, non resta che inseguire il vento (quando c’è) o il sole (quando il cielo non è coperto), oppure comprare il petrolio e il gas da lorsignori. Il taglio delle foreste tropicali rappresenta un pericolo ambientale così grave? Localmente sì, poiché sul terreno denudato, in seguito al dilavamento delle piogge che lascia alla superficie un’argilla di colore rossastro per la presenza di ossidi di ferro, detta laterite, la quale forma un duro crostone che rende difficile la coltivazione o la rinascita di una coltre vegetale. Se invece non si lascia tempo alla formazione del crostone lateritico e si avviano coltivazioni, l’impatto ambientale è attenuato. Purtroppo, nelle zone deforestate si installano multinazionali alimentari che fanno uso di tecniche agricole primitive, ad alta intensità di manodopera e bassa intensità di capitale, ossia investono pochissimo e, approfittando della miseria esistente, sfruttano gli abitanti locali in condizioni pressoché schiavistiche, senza prestare particolari cure all’ambiente. Ma, al di là delle considerazioni a scala locale, l’impatto globale del disboscamento sul contenuto di ossigeno dell’atmosfera è del tutto insignificante. Durante le ere glaciali, si è avuta una deforestazione pressoché totale del pianeta, che è durata, ad ogni massimo glaciale, varie decine di migliaia di anni. Le piante arboree sopravvivevano solo in poche e ristrette aree di rifugio, ma il contenuto di ossigeno nell’atmosfera non subì apprezzabili mutamenti. Infatti, oltre il 90% dell’ossigeno atmosferico proviene dalla fotosintesi delle alghe marine, soprattutto quelle microscopiche, mentre il contributo dei vegetali terrestri è minimo. Sull’effetto serra, in realtà del tutto naturale e necessario alla sopravvivenza della vita sulla Terra, che altrimenti sarebbe un pianeta gelato, si è scatenata una furiosa campagna ecologista. La temperatura media di equilibrio della superficie terrestre è di 15°C grazie appunto a tale effetto, senza il quale la Terra avrebbe una temperatura media superficiale di –18°C. I gas serra hanno la medesima concentrazione sia in corrispondenza delle umide foreste equatoriali che sui deserti tropicali: ma nelle foreste equatoriali le temperature si mantengono costantemente alte sui 30-35°C, mentre nei deserti si hanno violente oscillazioni da 70°C fino a scendere sotto zero. Poiché le due zone hanno uguale concentrazione di anidride carbonica e l’unica differenza consiste nella concentrazione di vapor d’acqua, la conclamata importanza della CO2 come gas serra sembra quindi essere piuttosto esagerata. Anche le conseguenze di cambiamenti nell’effetto serra sono tutt’altro che chiare. Un notevole riscaldamento potrebbe aumentare l’evaporazione, producendo dense coltri di nubi che rifletterebbero la radiazione solare e, dopo l’iniziale aumento di temperatura, si andrebbe piuttosto verso un raffreddamento. Gli ecologisti favoleggiano di uno spaventoso innalzamento del livello marino (fino ad 80 metri) legato ad un ipotetico scioglimento dei ghiacci polari. Disegni catastrofici e carte geografiche fantasiose quanto catastrofiche, mostranti livelli marini più alti degli attuali di varie decine di metri hanno efficacemente contribuito al terrorismo ecologista. Tutto ciò era basato su modelli computerizzati di cambiamento climatico del tutto teorici, nei quali vengono caricate previsioni del tutto arbitrarie di aumenti delle temperature medie di uno, due o più gradi. I computer non fanno che produrre risultati in base alla programmazione e ai dati che hanno ricevuto e non sono certo in grado di capire se i risultati prodotti sono realistici o meno. Sono stati i geomorfologi a fornire finalmente dati concreti, dimostrando che la gigantesca calotta glaciale dell’Antartide orientale, che racchiude di gran lunga la maggior quantità di ghiaccio sulla Terra, non ha subito alcun cambiamento almeno negli ultimi 14 milioni di anni (Sugden 1996). Anche la relativamente l,cola calotta dell’Antartide occidentale, del resto, non mostra tendenze ad un rapido scioglimento. Solo i ghiacciai della penisola antartica, che sono di tipo alpino, si sciolgono in parte durante l’estate, ma si “ricaricano” durante l’inverno. Un aumento di temperatura sull’Antartide, anche di 5 o 10 gradi, significherebbe, ad esempio, passare da 40°C sotto zero a 35 o 30°C, con l’unico risultato di facilitare l’evaporazione e quindi la formazione di nubi e le precipitazioni nevose, ciò farebbe crescere il ghiaccio invece di farlo sciogliere. Gli unici dati sui quali sembra esservi accordo riguardano l’aumento della concentrazione di anidride carbonica nell’aria dall’età preindustriale ad oggi da 270 a 330 parti per milione, e una limitata dilatazione degli strati superficiali degli oceani di circa 1 mm l’anno. Tuttavia, le tendenze medie delle temperature, depurate delle possibili distorsioni dovute agli spostamenti delle stazioni meteorologiche e all’espansione urbana (se una stazione meteorologica che prima si trovava in campagna viene ingolfata dalla crescita di una città, e quindi inclusa nella “cupola termica” di questa, è ovvio che registri un abnorme incremento della temperatura), non rivelano alcuna tendenza decisa all’aumento, o meglio rivelano aumenti in alcune regioni e un andamento opposto in altre. In definitiva, non ci sono certezze sul cambiamento climatico. I catastrofisti che, a loro dire, si agitano “per salvare il pianeta”, se vogliono persuaderci che davvero ci stiamo avviando alla “catastrofe ecologica” per colpa nostra, dovrebbero fare tre cose: dimostrare che ci sono forti alterazioni climatiche a breve termine (non semplici oscillazioni che sono perfettamente normali), che queste alterazioni sono necessariamente negative per l’umanità (un aumento delle temperature medie in Canada e in Siberia non potrebbe che recare beneficio), e che sono provocate dall’uomo stesso (il che, data l’estrema complessità dei fattori climatici, è quanto meno problematico). Allo stato attuale delle conoscenze, non è possibile soddisfare nessuna di queste condizioni. Ma tutto ciò ha poca importanza, perché il dibattito scientifico serio è stato letteralmente censurato da giornali, radio e televisioni, che riportano solamente le smanie dei catastrofisti. Costoro sono gli unici ad essere intervistati in televisione, e ogni volta che si parla di clima, appaiono sul video immagini di ghiacciai in disfacimento, accompagnati da commenti di una voce fuori campo che dà fiato alle più acute paure del “clima che cambia”, della “febbre del pianeta”, della “Terra malata”, dell’effetto serra che “minaccia la vita“. Lo sprovveduto ascoltatore, che non è obbligato ad avere una laurea in fisica, geologia o scienze naturali, né ad essere un esperto in una materia tutt’altro che semplice, nella quale si perdono anche gli “esperti”, non può che restarne disorientato e spaventato. Proprio quello che gli ambientalisti vogliono. L’applicazione del mitico “protocollo di Kyoto” del 1998, per la riduzione dei gas serra, comporterebbe costi immani per risultati ridicoli (Lomborg 2001), mentre le ricerche più recenti dimostrano che il riscaldamento globale è legato in modo decisivo all’attività solare, la cui spia sono le macchie solari. Non a caso, il periodo più gelido della “piccola età glaciale” sulla terra corrispose ad un minimo dell’attività solare noto come “minimo di Maunder” (1646-1710), durante il quale non vi fu alcuna macchia alla superficie del sole. Il flusso di particelle cariche emesse dal sole costituisce il cosiddetto “vento solare”, che investe tutti i pianeti, innalzando le temperature nell’intero sistema solare. Su Marte, nel breve periodo di sei anni (dal 1999 al 2005, anni corrispondenti a due diversi passaggi della sonda Global Surveyor), nella Terra Sirenum, sono apparse tracce di scorrimento idrico superficiale dove prima si stendeva solo una coltre gelata. Su Giove, la cui temperatura è aumentata in certe zone anche di 5°C, è apparsa una nuova “macchia rossa”, ossia un nuovo gigantesco urgano in rapida crescita. Un altro uragano è apparso al polo sud di Saturno, esteso per oltre 8000 chilometri, con venti oltre i 550 kmh. Questi nuovi uragani sono legati all’aumento della temperatura, che su Saturno ammonta a circa 2°C. Su Tritone, satellite di Nettuno, la temperatura media della superficie è salità di 7°C (da -200°C a -193°C) fra il 1989 ed il 2006 e la pressione atmosferica sta aumentando in seguito a tale riscaldamento. Su Plutone dal 1989 si è avuto un aumento di 2°C e la pressione atmosferica è triplicata e continua ad aumentare, man mano che l’azoto congelato alla sua superficie si sublima, passando allo stato aeriforme. L’anomalia dello strato di ozono antartico (il cosiddetto “buco nell’ozono”) è un fenomeno naturale scoperto nel 1956 da Gordon Dobson durante l’Anno Geofisico Internazionale, quando i clorofluorocarburi (i cosiddetti CFC, usati nelle bombolette spray e nei frigoriferi) erano ancora poco diffusi. Il fenomeno fu “riscoperto” nel 1982 da Shigeru Chubachi dell’Istituto di Ricerche Polari giapponese. Infine fu “riscoperto” per la terza volta nel 1985 da Farman, Gardiner & Shanklin (1985), del British Antarctic Survey (il centro d’investigazione britannico sull’Antartide), che se ne attribuirono il merito ignorando, non si sa di proposito o meno, le scoperte precedenti (vedi Engdhal et al. 1991). Da questa “scoperta” partì la furiosa campagna televisiva e di stampa contro i CFC. Le multinazionali chimiche DuPont e ICI hanno approntato dei prodotti sostitutivi, nei quali gli atomi di cloro sono rimpiazzati da atomi di idrogeno, dando luogo ad una nuova famiglia di gas detti idrofluorocarburi (HFC). A differenza dei CFC, questi composti, che hanno un costo cinque volte maggiore, sono più corrosivi e più tossici, esplodono a contatto anche di una piccolissima brace come quella di una sigaretta accesa, rischiando di sfigurare orribilmente il malcapitato, come già più di una volta è accaduto. “Edgar Bronfman, proprietario del colosso chimico DuPont (…….) più di ogni altro ha caldeggiato l’accordo di Montreal (accordo internazionale contro l’inquinamento atmosferico, stipulato nel 1987) e, in generale, l’iniziativa di mettere al bando i CFC. Alcuni membri della famiglia DuPont, che Bronfman ha ridotto a soci di minoranza nella gestione del Gruppo, hanno reso noto che egli, con la speculazione sul ’buco di ozono’ e i CFC, contava di lucrare sui profitti per 10 miliardi di dollari” (Engdhal et al. 1991). Ricerche fondamentali che ridimensionavano questo allarmismo vennero semplicemente ignorate. Kanzawa & Kawaguchi (1990) hanno dimostrato che la dinamica dell’atmosfera, e in particolare la temperatura, ha un ruolo decisivo nella comparsa e scomparsa del “buco”. Un gruppo di scienziati italiani dell’Istituto di Fisica dell’Atmosfera di Roma ha provato la dipendenza del fenomeno anche dall’andamento delle macchie solari. Dean Hegg, dell’università di Washington ha dimostrato che almeno una parte dei CFC (forse tutti), ritenuti responsabili del depauperamento dell’ozono nella stratosfera, in realtà sono molto più pesanti dell’aria, per cui tendono a depositarsi sul terreno. Quantità significative di CFC, poi, vengono distrutti nel terreno stesso (Khalil & Rasmussen 1989). L’ecocatastrofe dei CFC non è che un mito. La produzione di queste sostanze, al massimo, ha raggiunto 1,1 milioni di tonnellate annue, contenenti 750.000 tonnellate di cloro. Una parte di questo raggiungerà la stratosfera portato dai moti verticali dell’atmosfera, specie in seguito a temporali e uragani, contribuendo alla trasformazione dell’ozono (ossigeno triatomico) che funge da scudo contro l’eccesso letale di raggi ultravioletti solari in normale ossigeno biatomico, inefficace contro i raggi ultravioletti. Tuttavia dal mare evaporano annualmente 300 milioni di tonnellate di cloro, di cui una certa quantità raggiunge a sua volta la stratosfera, portato dai medesimi moti verticali. Un’altra gigantesca fonte naturale di cloro è data dalle eruzioni vulcaniche: una sola eruzione storica, quella, già ricordata, del Tambora, nell’isola indonesiana di Sumbawa, del 1815, liberò 210 milioni di tonnellate di cloro, in gran parte scaraventate direttamente nella stratosfera dalla violenza del vulcano. I vulcani sul pianeta sono oltre 10.000, per il 96% sottomarini, e una certa aliquota di tutti questi vulcani si trova in eruzione in qualche parte della Terra, alcuni, specie quelli formati da crosta oceanica basaltica, sono in eruzione permanente. Negli anni in cui non si verificano grandi eruzioni i vulcani emettono da 11 a 36 milioni di tonnellate di gas di cloro. È concepibile che solo il cloro dei CFC prodotti dall’industria raggiunga la stratosfera, e quello di origine naturale (emesso in quantità centinaia di volte maggiori) non la raggiunga? Solo nei tropici avvengono 44.000 temporali al giorno che trasportano verso l’alto enormi quantità di gas (Gaspari, Rossi & Fiocchi 1991). Se si considera che proprio ai tropici avviene la maggior parte dell’evaporazione marina, e quindi della mobilizzazione di cloro dal mare, si ha un’idea di quale può essere l’ordine di grandezza dell’apporto da cloro di origine naturale rispetto alla modesta produzione antropogenica. Ma F.S. Woolard, chiamato da Bronfman a presiedere la DuPont, ha espresso chiaramente, in un discorso alla Camera di Commercio di Londra, il rifiuto dei fatti rivelati dalla ricerca: “Spesso teniamo troppo in conto i dati tecnici e scientifici rispetto a quello che la gente vuole. Dobbiamo imparare ad agire in modo diverso” (cit. in Engdhal et al. 1991). Naturalmente “quello che la gente vuole” altro non è che quello che le è stato martellato in testa dall’onnipresente video telecomandato dalle multinazionali come la DuPont (“Quod non est in video non est in mundo”, direbbe il sociologo Wolton), e da “scienziati” resi improvvisamente sensibili alle minacce dei CFC con mezzi cartacei che non è affatto difficile immaginare. Neppure la scoperta del ruolo decisivo dell’attività solare nella dinamica atmosferica ha disarmato gli ecologisti, i quali, anzi, ne fanno occasione per proclamare che ciò rende ancor più urgente “correre ai ripari”. Dati i giganteschi interessi che stanno dietro le lobbies ecologiste, ciò non stupisce affatto. La DuPont controllava il 25% del mercato mondiale dei CFC e dei liquidi alogenati, ma finché i brevetti che le permettevano di guadagnarci escludendone la concorrenza sono stati in vigore, li ha difesi a spada tratta. Nel 1986 il colosso chimico si è improvvisamente “accorto” della loro “pericolosità”. Altrettanto improvvisamente giunse con grande clamore la tempestiva “scoperta” di Farman e dei suoi collaboratori: quelle precedenti erano stranamente passate inosservate al grande pubblico, dato che non vi era alcun interesse costituito a farne un “caso” giornalistico. I brevetti dei più importanti CFC erano ormai scaduti. La concorrenza sul mercato di questi prodotti si faceva sempre più intensa ad opera delle piccole e medie aziende, che rappresentano la linfa vitale dell’economia, soprattutto in termini di sviluppo più diffuso e di generazione di posti di lavoro, le quali contavano di sfidare i colossi multinazionali. L’iniziativa ecologista dei “salvatori della Terra” ha spiazzato tutti questi fastidiosi concorrenti. La DuPont, la ICI, ed altri pochi colossi, possono riprendere a dominare il mercato dei nuovi HFC di cui possiedono i brevetti e l’esclusiva. Ma a soffrire di più di queste macchinazioni sono proprio i paesi più poveri, dove vaste quantità di derrate alimentari vanno perdute ogni anno per mancanza di refrigerazione. Centinaia di milioni di frigoriferi avrebbero potuto essere costruiti in tali paesi utilizzando gli economici CFC, mentre adesso i programmi di diffusione della refrigerazione, che avrebbero salvato centinaia di milioni di persone dalla fame e da pericolose intossicazioni alimentari, hanno subìto una battuta d’arresto per il costo esorbitante degli HFC. In questo caso, come in molti altri, si rivela l’estrema pericolosità delle campagne ambientaliste che vanno ad esclusivo vantaggio di alcuni squali della finanza, i cui nomi oltretutto sono ben noti, ciò che elimina qualsiasi pericolo di gratuita dietrologia.

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L’ANIMALISMO

La preoccupazione di prevenire inutili sofferenze inflitte agli animali è pienamente giustificata, anche tenendo conto che le differenze fisiologiche da specie a specie sono tali che un esperimento medico condotto su cavie animali spesso non ha alcun significato se riferito all’uomo. È pienamente comprensibile e condivisibile, quindi, la contestazione degli studenti universitari britannici scatenatasi in seguito ad una dimostrazione pratica di vivisezione all’università di Norwich nel 1876, che condusse alla promulgazione della Legge sulla crudeltà contro gli animali (Cruelty to Animals Act). Il fatto è che i cosiddetti “animalisti” vanno ben oltre. Il “padre” degli animalisti e del femminismo (vedi Campos Boralevi 1980) è il filosofo inglese Jeremy Bentham (1748-1832), fondatore dell’utilitarismo, ossia della teoria secondo la quale l’uomo sarebbe spinto essenzialmente dalla ricerca del proprio utile, del piacere e dall’avversione al dolore. In base a questi assunti, Bentham costruì una tabella pseudomatematica per quella che egli chiamò “aritmetica morale”, e che dovrebbe servire a misurare il piacere e il dolore per ogni azione. In applicazione di queste idee, sostenne che lo Stato ha quattro fini: procurare ai cittadini i mezzi di sussistenza, favorire l’abbondanza, garantire la sicurezza, mirare all’eguaglianza. Nei suoi saggi sugli argomenti più disparati, ma sempre da un punto di vista materialistico che rifiuta la distinzione fra l’uomo dotato di anima immortale e gli animali, Bentham sostenne che la bestialità dell’uomo non va repressa, ma lasciata sfogare a piacimento. “Se ti piace fallo”, era il suo motto: evidente parafrasi dell’iniziazione al satanismo, “Fa ciò che vuoi”. Sulla base di queste premesse, egli difese l’usura e la pederastia. Accolse con favore la rivoluzione francese e fu amico di Marat, fondò una sezione di “giacobini britannici” e, finanziato dalla Compagnia delle Indie Orientali, costituì il Partito radicale britannico. L’idea che l’uomo altro non sarebbe che un animale ha come conseguenza il rifiuto di qualsiasi pretesa umana a controllare ed utilizzare la natura per i propri fini. A questo si ispirano il Fronte di liberazione degli animali (Animal Liberation Front, o ALF) e il Fronte di liberazione della Terra (Earth Liberation Front, o ELF). L’ALF è nato in Gran Bretagna nel 1982 e si è rapidamente diffuso in Europa e nel Nord America. Gli animalisti si sono distinti per attacchi a centri di ricerca o allevamenti per liberare gli animali (di solito lasciati liberi in un ambiente non congeniale dove trovano rapidamente la morte), con danno per la ricerca e per le aziende produttrici di pellicce (e grande soddisfazione dei produttori di pellicce sintetiche). Altre loro gesta comprendono sabotaggi e attacchi dinamitardi ad aziende e università, nonché distruzione di veicoli e attrezzature usate per costruzioni e disboscamento. Quest’ultimo genere di azioni è particolarmente diffuso negli Stati Uniti, dove è noto come monkey-wrenching, “lo strappo della scimmia”. Nelle Isole Britanniche, invece, gli animalisti scavano gallerie sotto gli alberi destinati ad essere abbattuti e vi si nascondono, sfidando l’azienda a proseguire il disboscamento col rischio del crollo delle gallerie; per evitare la cattura da parte degli agenti che li inseguono nei cunicoli, costoro giungono a chiudere le loro galleria con porte d’acciaio; alternativamente, si arrampicano sugli alberi e vi si inchiodano. Tutto questo ottiene il risultato di far perdere tempo, denaro e posti di lavoro. Dal 1980 circa le azioni degli animalisti si sono intensificate: vi si sono aggiunti sradicamenti di ortaggi modificati geneticamente e (nei soli Stati Uniti) incendi di abitazioni situate in luoghi giudicati “ecologicamente sbagliati”. Di recente, il giornalista Edward Skidelsky (New Statesman, June 5, 2000) ha condotto, sulla base di un’aggiornata rassegna bibliografica, una serrata critica dell’idea animalista che mette sullo stesso piano tutti gli animali dotati di sistema nervoso centrale, definendola sentimentale, egoistica e intellettualmente insostenibile: “Porre un cane randagio al medesimo livello di vostro fratello, solo perché tutti e due sono sensibili al dolore, non sarebbe solo eccentrico, ma anche malvagio (…….). Parlare di ’liberazione animale’ è ancora più assurdo che parlare di ’diritti animali’. La nozione di liberazione collettiva è di origine vagamente marxista, e quindi ancor più estranea alla tradizione dell’utilitarismo classico (…….). Il sentimentalismo inevitabilmente fa del male a chi vuol beneficare. I visoni ’liberati’ l’anno scorso da un allevamento ad opera di protestatari dovranno essere uccisi, poiché non hanno spazio nell’ambiente che abbiamo creato. Dovremmo accettare il fatto che gli animali non possono essere altro che nostri dipendenti, e trattarli più dolcemente possibile nell’ambito di questo tipo di rapporto. Questo paternalismo appartiene alla tradizione di tutte e tre le religioni monoteistiche. Dio concede ad Adamo il ’dominio’ sugli animali. Il nostro potere sulla natura è costituzionale, non autocratico. Gli animali sono affidati a noi, ma noi non siamo liberi di farne ciò che vogliamo. L’erosione della Fede religiosa (…….) è in parte responsabile dell’attuale disordine nel nostro rapporto con gli animali”.

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AGRICOLTURA ED ECOLOGISMO

Le macchine hanno sconfitto la fatica e aumentato la produttività in agricoltura, come negli altri campi dell’economia. Per raccogliere il grano da un ettaro di terreno agrario col falcetto occorrono un centinaio di ore di lavoro, con la falce circa 75 ore, con la falciatrice e legatrice poco più di di tre ore, con la mietitrebbia un’ora. Alla sconfitta della fatica ha contribuito anche la chimica: liberare un terreno dalle erbacce infestanti con la zappa è una fatica massacrante che evidentemente né gli euroburocrati, né i dirigenti delle multinazionali, né gli ambientalisti che schiamazzano nelle dimostrazioni, hanno mai provato; con i diserbanti questo lavoro è diventato accessibile persino a gente con le mani bianche come loro, se solo si degnassero di sporcarsele con un poco di lavoro autentico. Nel 1950 un agricoltore poteva sfamare 15 persone. Grazie a diserbanti e pesticidi, oggi ne può sfamare quasi 50. Ma, auspice l’impostura ecologista, è arrivata l’era delle malifiche. Gli interventi degli euroburocrati della CEE stanno facendo del loro peggio per comprimere la produzione agricola: quote di produzione, argini alle “eccedenze” (il famigerato set-aside), tasse di corresponsabilità per veri o presunti inquinamenti causati da fertilizzanti, tagli di bilancio per l’agricoltura, premi per l’abbattimento dei vitelli (che la vicenda della “mucca pazza” rientri in un piano per accelerare la distruzione delle risorse? ha già provocato, nella sola Gran Bretagna, l’abbattimento di milioni di mucche), premi per lo sradicamento dei vigneti, riduzione degli aiuti all’esportazione dei prodotti, aumenti dei prezzi di fertilizzanti e pesticidi. In parallelo ecco la nascita di aziende dove si produce in modo “naturale” con la cosiddetta “agricoltura biologica” (che vorrà dire?), come se quella che usa pesticidi e fertilizzanti fosse agricoltura “mineralogica”. Le accuse ai fertilizzanti di provocare proliferazioni algali in mare sono assolutamente infondate. Questi, è vero, sono costituiti sopratutto da nitrati e/o da fosfati che, se fertilizzano il terreno, possono “fertilizzare” anche le acque interne e i mari dove finiscono per scaricarsi, trasportati dal dilavamento operato dalle piogge. Ma la teoria è una cosa, la pratica un’altra: resta da spiegare come mai le proliferazioni algali (che riguardano essenzialmente alghe microscopiche appartenenti ai Flagellati o alle Diatomee) siano sempre avvenute, fin da epoche preindustriali quando i fertilizzanti (e i detersivi fosforati, anch’essi sotto accusa) neppure esistevano. Inoltre, nutrienti capaci di sostenere una proliferazione algale sono presenti nelle acque in quantità più che sufficienti a sostenere una proliferazione in ogni momento, dato che le riserve si accumulano per apporto dai fiumi alla scala dei tempi geologici, prima della stessa comparsa dell’uomo sulla Terra. Infine, come si spiega il fatto che queste proliferazioni colpiscano una sola specie per volta (spesso la fosforescente Noctiluca miliaris, oppure il Prorocentrum micans, o la Gonyaulax polyedra) e non tutte le altre, dato che le specie presenti sono di solito parecchie decine? La spiegazione è che il moltiplicarsi della specie coinvolta non ha nulla a che fare con la disponibilità di nutrienti, ma con la presenza di biostimolanti specifici come le vitamine, contenute in notevoli quantità nei fiumi e nelle acque “pulite” riversate in mare dai depuratori: i biostimolanti non favoriscono una proliferazione indiscriminata, ma sono efficaci ciascuno su una determinata specie e non su altre. Ciò è stato dimostrato con riferimento all’alto Adriatico (Biagini 1990), ma si tratta di un risultato scientifico di applicabilità generale. Proliferazioni algali del tutto analoghe a quelle adriatiche sono state infatti riscontrate in molti mari costieri, inclusi quelli che circondano le Isole Britanniche. Le proliferazioni algali possono causare gravi fenomeni di anossia (carenza di ossigeno), dovuta al fatto che l’enorme biomassa di alghe durante la notte non produce ossigeno perché non può compiere la fotosintesi ma, dato che si tratta di organismi aerobici, la loro respirazione continua, e continua quindi il consumo di ossigeno. L’anossia produce stragi di organismi acquatici che restano soffocati, con gravi danni alla pesca e produzione di grandi quantità di materia organica in putrefazione. Nel formarsi delle condizioni di anossia l’uomo non è responsabile: il fenomeno è facilitato da condizioni di alta pressione, e quindi con tempo buono e stabile, che non provoca rimescolamenti della colonna d’acqua, così che gli strati profondi anossici non ricevono ossigeno da quelli superficiali. Siamo al paradosso: si tratta di fenomeni assolutamente naturali, aggravati se mai dai depuratori, ossia proprio da misure di disinquinamento, ma il dito è sempre puntato sull’uomo, il “grande inquinatore”. E i pesticidi? Abbiamo già accennato ai risultati catastrofici (e ai veri motivi) della messa al bando del DDT. Ma vi sono molti altri pesticidi. Dobbiamo rinunciare ad usarli? Che vantaggio ne verrebbe? Nei cibi che ingeriamo essi sono già presenti in quantità enormi (talora fino al 5-10% del peso secco). I vegetali si difendono naturalmente dai parassiti, producendo pesticidi naturali, solitamente alcaloidi, spesso altrettanto tossici quanto quelli prodotti dall’uomo. Ananas, anice, banane, basilico, carote, cavolfiori, finocchi, lamponi, mele, meloni, patate, pompelmi, sedano, sono solo alcune delle specie che producono antiparassitari. A differenza dei pesticidi artificiali, che vengono spruzzati alla superficie dei prodotti e vengono poi dilavati dalla pioggia e/o dai lavaggi che precedono il consumo, i pesticidi naturali fanno parte integrante del frutto, foglia o tubero consumati, e vengono ingeriti integralmente. L’unico modo per evitarli è quello di smettere di mangiare. Dopo un digiuno sufficientemente lungo, ciò realizzerebbe, fra l’altro, l’ideale ambientalista di un mondo felicemente libero dal “cancro” dell’umanità. Un altro, e più recente, spauracchio ambientalista è quello dei cibi transgenici: il primo pomodoro transgenico venne ottenuto negli USA nel 1987, e la vendita di tale tipo di alimento vi fu autorizzata nel 1992. Si dicono alimenti transgenici quelli derivati da piante o animali che hanno subìto modificazioni genetiche. Grazie alle approfondite conoscenze sul DNA, le tecnologie di intervento sul patrimonio genetico sono ormai estremamente evolute. È possibile usarle anche sull’uomo, e questo non deve essere permesso, per motivi evidenti a chiunque non consideri l’uomo un animale come gli altri. Ma se gli interventi genetici servono ad ottenere piante e animali con caratteristiche utili di elevata produttività e resistenza ai parassiti, perché opporvisi? Incredibilmente, invece, contro questi nuovi prodotti si è scatenata una campagna di terrorismo ambientalista a livello parossistico. Le piante e gli animali modificati vengono presentati come mostri pronti a divorare l’umanità, in caricature grafiche e verbali tanto rozze da far pensare che i propagandisti dell’ambientalismo ritengano di avere a che fare con minorati mentali, o di avere ormai talmente condizionato l’opinione pubblica da non esservi più bisogno di un minimo di verosimiglianza. In compenso, prosperano produttori e venditori di alimenti presentati come “biologici”, ossia “non manipolati”, come se un organismo geneticamente modificato non fosse ancora un essere vivente, e quindi, per definizione, biologico. E, naturalmente, quello dell’agricoltura “biologica” è un affare di vaste proporzioni, che vende i prodotti a caro prezzo, mentre gli alimenti transgenici potrebbero essere prodotti in quantità enormi a basso prezzo. Ma forse è proprio questo che si vuole: tenere alti i prezzi, facendo al tempo stesso baccano sulla fame nel mondo in modo da far credere che l’agricoltura transgenica non sia la soluzione e che gli unici a preoccuparsi dei poveri del “terzo mondo” siano loro, i contestatori ecologisti. L’assurdità di questa campagna ecologista risalta non tanto dal fatto che non vi è assolutamente alcuna prova che alcun cibo transgenico abbia mai arrecato danni alla salute, quanto dal fatto che tutti i cibi derivano da organismi manipolati. Se non disponessimo di tali organismi moriremmo di fame. A parte la cacciagione, le more occasionalmente raccolte durante una gita in campagna e, in parte, i funghi, qualche insalata selvatica e qualche altra modestissima eccezione, non facciamo altro che nutrirci di organismi geneticamente modificati. Sono millenni che modifichiamo le specie che ci forniscono da mangiare. Fin dalla “rivoluzione agraria” del Neolitico, la selezione cosciente dei diversi ceppi di piante e animali utili e l’uso degli incroci hanno dato luogo ad organismi del tutto geneticamente trasformati che, infatti, senza le cure dell’uomo, sarebbero totalmente sopraffatte e annientate dalle specie selvatiche, assai meglio attrezzate a competere e a combattere: il campo di grano abbandonato a se stesso si ricoprirebbe in breve tempo di “erbacce”, e non ci vuole molto ad immaginare la sorte di un branco di pecore abbandonato a se stesso in un bosco. Quale differenza c’è dunque fra le manipolazioni genetiche del passato e quelle di oggi? Nessuna, se non che quelle odierne sono più precise e più accuratamente mirate, essendo frutto di una scienza più avanzata e non di tentativi empirici. I cibi transgenici potrebbero risolvere il problema della fame nel mondo? Non possiamo saperlo senza metterli alla prova, ed è improbabile che mai ci si riesca, data la demonizzazione di cui sono stati fatti oggetto. Si noti che, come per i CFC, il DDT ed altri prodotti entrati nel mirino degli ambientalisti, il problema è avulso da una valutazione razionale e dai risultati delle ricerche scientifiche. Dopo le urla e gli schiamazzi degli ecologisti, arrivano le scomuniche a suon di proibizioni e messe al bando, mediante leggi accompagnate da relative sanzioni civili e penali, con le quali non si discute. Ma non è difficile capire il perché di tutto questo. Se i poteri forti di considerano l’umanità un cancro, è evidente che tutto quello che potrebbe aiutare a sfamarla deve essere distrutto.

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PRIMAVERA SILENZIOSA?

Come tutti i libri di favole, anche il celebre “Primavera silenziosa” di Rachel Carson, pubblicato nel 1962, e subito divenuto uno dei sacri testi dell’incipiente movimento ambientalista, inizia con “C’era una volta ……. “, e si avventura in un’idillica descrizione di un’America “dove tutte le creature sembravano vivere in armonia con l’ambiente”, e allietata dal canto di tanti uccellini. E prosegue trafiggendo con parole di fuoco l’uso dei pesticidi, e in particolare del DDT (diclorofeniltricloroetano), che avrebbe causato la morte degli uccellini e reso “silenziosa” la primavera. Come la mela offerta dalla strega a Biancaneve, nella dolcezza idillica delle descrizioni e nel tenero rimpianto per un mondo che mai più, ahimé, tornerà, si nasconde il veleno di un testo scritto col duro acciaio della guerra psicologica, irto di “messaggi subliminali, paure infantili, sensi di colpa, immagini terrificanti che diventano strumenti letterari suggestivi per manipolare il lettore e indurlo a credere acriticamente nel contenuto dei messaggi” (Gaspari, Rossi & Fiocchi 1991). Nella dedica del libro, l’autrice cita una frase del celebre medico filantropo e musicologo Albert Schweitzer (1875-1965): “L’uomo ha perso la capacità di guardare al futuro e di intervenire in anticipo. Alla fine distruggerà la Terra”, tacendo il fatto che Schweitzer si riferiva in realtà alla guerra atomica, non certo ai pesticidi, e che proprio riguardo al DDT si era espresso in modo assolutamente positivo, nella speranza che potesse servire a distruggere gli insetti nocivi. In realtà il DDT, le cui funzioni antiparassitarie furono scoperte dal chimico svizzero Paul Müller (che per tale scoperta ricevette il Premio Nobel), faceva proprio questo. La sua messa al bando nel 1972, sull’onda dell’emozione suscitata da “Primavera silenziosa”, e di “ricerche” che lo demonizzavano in ogni modo, come “inutile” (perché sarebbero comparse nuove varietà di insetti resistenti) e “pericoloso” (perché tendente a concentrarsi ai vertici della piramide alimentare), ha provocato un’immediata ripresa della malaria e dei parassiti delle piante. I raccolti di cotone, arachidi e patate, dove era stato impiegato il DDT, erano raddoppiati. Nel Pakistan ante DDT, nel 1961, si erano registrati 7 milioni di casi di malaria; dopo un’intensa campagna di irrorazione erano scesi, nel 1967, a soli 9.500; ma nel 1975, tre anni dopo la messa al bando del DDT, erano risaliti a 10 milioni. Identico andamento si riscontra in India e nello Sri Lanka. Attualmente i casi di malaria nel mondo sono dell’ordine delle centinaia di milioni, e metà della popolazione mondiale è a rischio. E gli uccelli? Nel periodo tra il 1941 e il 1961, al massimo delle irrorazioni di DDT, sono aumentati in tutto il Nord America. Quando questi dati della Audubon Society sono diventati di dominio pubblico, la strategia è cambiata: il DDT non ammazzava più gli uccelli, ma ne indeboliva il guscio delle uova. La Carson aveva citato ricerche dalle quali sarebbe risultato che quaglie giapponesi alimentate con una dieta contenente DDT non covavano le uova: un esame dello studio originale del dott. J.B. De Witt ha rivelato che non era affatto vero: vi era una differenza minima nella percentuale di covate regolari fra le quaglie che avevano assunto il DDT (80%) e quelle di controllo a cui non era stato somministrato (83,9%). Non solo, ma la Carson omise di segnalare un analogo studio del medesimo autore sui fagiani: le covate regolari avevano superato l’80% nel gruppo che aveva assunto il DDT ed erano state solo del 57% nel gruppo di controllo. Un’altra mistificazione fu quella secondo cui il DDT si sarebbe accumulato “per l’eternità” negli oceani. In realtà esso si degrada con grande rapidità: in un mese ne scompare circa il 90%, ed anche il resto si riduce ben presto a quantità infinitesimali. Si è pure tentato di dimostrare che è cancerogeno per l’uomo, senza successo. Perché dunque tanto accanimento? Per motivi politici. Un aumento troppo rapido della popolazione significherebbe una minaccia per gli equilibri politici ed economici esistenti. Un funzionario dell’Ufficio per il controllo della popolazione del Dipartimento di Stato USA, agli inizi degli anni Settanta ha dichiarato: “Usando il DDT abbiamo commesso un grave errore. La malaria, una delle malattie più diffuse al mondo è stata praticamente eliminata. In questo modo abbiamo stravolto l’equilibrio naturale. Troppi uomini sono rimasti in vita. Saremo fortunati se comparirà un virus più micidiale” (cit. in Gaspari, Rossi & Fiocchi 1991).

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LA BUFALA ECOLOGISTA

L’ecologismo affonda le radici nelle idee di Thomas Robert Malthus (Dorking, Surrey, 1766-1834). “Le teorie di Malthus erano accurate e ben documentate; le sue argomentazioni erano giuste allora, e sono tuttora corrette”, si legge ne “I limiti dello sviluppo” (Meadows et al. 1972), la “bibbia” dei partigiani della “crescita zero”, del pianeta “verde”, dell’ambientalismo esagitato del massonico Club di Roma. Malthus (1992) concepisce l’uomo come un essere meramente materiale. La sua teoria corrispose ad un preciso bisogno di autodifesa dei ceti privilegiati britannici in un momento in cui si sentivano gravemente minacciati dal dilagare delle rivoluzioni.

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EVOLUZIONISMO E PROSTITUZIONE DELLA SCIENZA

Emilio Biagini

Evoluzione, evoluzionismo, darwinismo: tre concetti ben diversi ma tutti sbagliati

Il sudario dell’ateismo
Il problema della cosiddetta “evoluzione biologica”, a partire dall’“illuminato” sec. XVIII è divenuto terreno di scontro intellettuale fra punti di vista diversi e inconciliabili. Occorre, a questo proposito, distinguere tre concetti ben diversi; (1) evoluzione, (2) evoluzionismo, (3) darwinismo. L’evoluzione è un processo: più esattamente è il processo ipotizzato mediante il quale nuove forme di esseri viventi più “evolute” si formerebbero da altre forme viventi diverse e più “primitive”. L’evoluzionismo è un insieme di teorie che tentano di spiegare il medesimo processo. Il darwinismo è una delle teorie evoluzionistiche: quella che ha avuto maggior fortuna, non per particolari metodi scientifici, ma perché promossa in ogni modo da circoli massonici ostili ad ogni religione.
Sebbene la maggior parte di coloro che le statistiche indicano come “protestanti” nei vari paesi siano in realtà “laicizzati”, ossia scettici o atei, vi sono tuttora protestanti fondamentalisti che credono ai ridicoli calcoli del vescovo protestante James Ussher di Armagh. Questo singolare individuo poneva l’inizio del mondo al 23 ottobre 4004 a.C. (un lunedì, per la precisione). Legati ad un’interpretazione letterale della “loro” Bibbia, i protestanti ritengono erroneamente che l’evoluzione, ed ancor più quell’interpretazione materialistica dell’evoluzione che è l’evoluzionismo, siano incompatibili con il Cristianesimo, e si sentono quindi obbligati a scegliere l’uno o l’altro.
Per la Chiesa cattolica, le cose stanno in modo assolutamente diverso. I problemi cominciano infatti solo con l’interpretazione filosofica materialistica dell’evoluzionismo, ovvero se tale teoria viene usata per attaccare l’idea di un Creatore, tentando così di minare il Cristianesimo. Da tempo la Chiesa ha definito la propria posizione mediante l’enciclica Humani generis del 1950, opera del grande e santo papa Pio XII, nella quale si afferma correttamente che l’evoluzione è un’ipotesi (non una certezza) di per sè non contrastante con la Fede, perché sia la Creazione che la Rivelazione sono opera dello stesso Dio, e Dio non può contraddirsi. La Chiesa, infatti, non ha mai aderito ad una lettura letterale del racconto della Genesi: vi è quindi ampio spazio per un’interpretazione in chiave simbolica che non nega affatto che i “giorni” della Creazione possano in realtà essere epoche lunghissime come le ere geologiche, durante le quali potrebbero benissimo trovare posto i fenomeni evolutivi. Anche la formazione del corpo umano potrebbe essere il risultato di evoluzione materiale. Per la Chiesa è essenziale solamente che l’anima umana sia risultato di creazione divina diretta. Anche Giovanni Paolo II ha più volte ribadito che l’evoluzione non contrasta affatto con l’idea di un Creatore.
Nessuna religione, e tanto meno quella cattolica, avrebbe alcunché da temere se evoluzione, evoluzionismo e darwinismo fossero provati. Vorrebbe dire semplicemente che Dio ha scelto quella modalità per la Sua creazione. Nessun problema per i credenti, a meno che siano i non credenti stessi a volerne fare occasione di scontro. E infatti sono stati gli atei ad attaccarsi alle idee evoluzionistiche come qualcosa da contrapporre alla religione, inventando incompatibilità del tutto ingiustificate, e in particolare cercando di attribuire un ruolo preponderante nelle trasformazioni del mondo vivente al caso cieco, oppure ad una fantomatica capacità di auto-organizzazione degli organismi viventi. È a loro che importa aver ragione a tutti i costi. Il problema tocca la filosofia, in quanto è degna di esame la pretesa atea di attaccare la religione, non per giudicare la religione, ma per giudicare l’ateismo, che ha creduto di farsi una bandiera di una teoria malferma e si è invece fabbricato un sudario.

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LA BUFALA DELL’AIDS

Aids è una parola che spaventa. Le statistiche sono allarmanti. Ma, osservando più da vicino, la questione appare tutt’altro che chiara. Decisioni politiche in contrasto con i dati delle ricerche hanno teso ad aumentare l’allarme. Forti pressioni di lobbies hanno spinto a presentare la malattia come gravemente epidemica (Rossi 1999). Le lesbiche premono perché si dica che anche loro hanno l’Aids, altrimenti si sentono escluse dalla “liberazione sessuale”. Gli omosessuali, invece, vogliono che si dica che sono a rischio anche gli eterosessuali (quelli che epoche meno politicamente corrette e corrotte chiamavano gente normale), per non apparire una categoria “segnata”. Ma se la trasmissione di questa malattia avvenisse tra gli eterosessuali, le prostitute dovrebbero essere tutte infette, così come i loro clienti. Invece le sole prostitute infette sono quelle che sono anche tossicodipendenti. Né vale dire che ciò dipende dall’uso di profilattici: è un fatto (anche se i produttori di preservativi non l’ammetteranno mai) che i pori nel lattice del preservativo dilatato sono ben più larghi di un virus, senza contare le frequenti rotture, per cui tale tipo di protezione somiglia piuttosto ad un colabrodo usato come ombrello contro la pioggia. I dati sembrano piuttosto indicare, quando non manipolati politicamente, che non vi è alcuna epidemia. L’Aids non è una minaccia nuova: probabilmente esiste da lunghissimo tempo, è solo stato scoperto da poco. Neppure si può dire che si diffonda, a parte gli effetti della cosiddetta “liberazione omosessuale”: la malattia vista come qualcosa di cui andare “fieri”. Ne sono minacciate, in Europa e nel Nord America, solo determinate categorie a rischio: omosessuali (ma pochissimo le lesbiche), tossicodipendenti, gente soggetta a trasfusioni, emofiliaci. Negli USA il 75% di questa categoria di malati è sieropositivo: la sopravvivenza media di un emofiliaco, da quando è stata “scoperta” la “pericolosità” dell’Aids, è aumentata da 11 a 20 anni, ma se un emofiliaco muore si dice che è morto di Aids. L’epidemia viene presentata come disastrosa in Africa, ma i dati per quel continente sono inaffidabili, e vi si muore di moltissime malattie impropriamente classificate come Aids. Dietro la montatura giornalistica stanno pressioni politiche per assicurarsi enormi finanziamenti per la ricerca. Chi, fra gli scienziati, avanza dubbi non trova né finanziamenti né riviste scientifiche disposte a pubblicare i suoi studi, né pubblicità sui giornali e in televisione. In realtà nessuno sa di preciso cosa sia l’Aids e cosa lo provochi. La correlazione tra la malattia e il famoso virus Hiv è quanto mai incerta. Vi sono moltissimi individui sieropositivi, ossia che hanno l’Hiv, ma del tutto sani. Altri hanno l’Aids senza avere l’Hiv. Non potendo spiegare la stranezza, che rischia di far saltare il legame tra il virus e la malattia, la difficoltà è stata accantonata cambiando nome alla malattia: se manca l’Hiv non si parla di Aids ma di Itl. Nell’insorgenza dell’Aids possono esservi numerose concause, nessuna delle quali, però, individuata con precisione. Pazienti morti di Aids che avessero l’Hiv ma nessun’altra causa di depressione immunitaria (altri virus, droghe, rapporti sessuali particolari, denutrizione) non sono stati praticamente mai dimostrati con certezza. Questo può significare che l’Hiv non è in grado di infettare gente sana, ma uccide solo se ci sono altre forme di immunodeficienza e di infezione, e dunque è solo una delle cause, oppure che è solo un segnalatore secondario di immunodeficienza. Invece, in tutte le altre malattie infettive, dal morbillo al vaiolo, dalla tubercolosi alla lebbra, il paziente ha solo quella malattia ed è attaccato solo dall’agente patogeno di quella malattia. Assai istruttiva è la storia della scoperta dell’Hiv. Essa è strettamente connessa alla vicenda dei retrovirologi. Costoro sono i biologi che studiano i retrovirus (i virus sono macromolecole formate da un acido nucleico e da una proteina, i retrovirus sono quei virus che vivono all’interno delle cellule e in simbiosi con esse). I retrovirologi avevano conosciuto negli anni Settanta del sec. XX un periodo di grande prestigio e ricchissimi finanziamenti, e all’inizio degli anni Ottanta erano ancora sulla cresta dell’onda, ma la loro posizione stava facendosi precaria. Non erano riusciti a dimostrare una connessione certa e sistematica fra retrovirus e cancro. Le loro carriere rischiavano di fermarsi. Se i retrovirus erano inerti, niente più finanziamenti, niente più premi Nobel. L’Aids poteva salvare carriere tanto preziose solo se si fosse potuto dimostrare che era causato da un retrovirus, o persuadere di ciò l’opinione pubblica, ciò che dal punto di vista della carriera e della cattura dei finanziamenti era la stessa cosa. Nacque così la campagna per terrorizzare la gente, con l’Hiv decretato causa dell’Aids, e con l’Aids promosso a “peste del secolo”, attribuendogli morti provocate dalle malattie più diverse, dalla tubercolosi all’emofilia, all’epatite e a decine di altre. Nel mondo anglosassone, i grandi capiscuola delle facoltà di medicina sono soprattutto esperti di pubbliche relazioni, con buoni agganci politici, ed hanno come compito principale non la ricerca scientifica ma il rastrellamento di finanziamenti. Presentare le ricerche del proprio gruppo come la salvezza per l’umanità è quanto di meglio per lucrare un buon bottino. Se le previsioni formulate dai medici si rivelano errate, ciò che nel caso dell’Aids avviene regolarmente, dato che la cosiddetta epidemia “cresce” solo grazie ad acrobazie statistiche, gli scienziati non dicono “abbiamo sbagliato” ma “c’è un problema imprevisto, dateci più soldi per studiarlo”. I biologi Luc Montagnier e Bob Gallo studiavano indipendentemente i retrovirus. Nel 1983 il francese Montagnier aveva isolato in un paziente il retrovirus Hiv e ne aveva mandato un campione in America al collega statunitense Gallo, il quale l’anno successivo lo pubblicò facendolo passare per un proprio risultato personale. La composizione della successiva vertenza giudiziaria per la priorità della scoperta venne imposta dagli stessi governi di Parigi e di Washington: la gravità dell’”epidemia” era tale, si diceva, da richiedere concordia per “salvare l’umanità”. In realtà sia Montagnier che Gallo, nei loro studi sui retrovirus, erano giunti ad un punto morto ed erano disperati perché non riuscivano a giustificare i finanziamenti che ricevevano. Dovevano assolutamente trovare qualche grave malattia associata a tali virus. Gallo era arrivato ad imputare ad essi una rara forma di cancro presente soltanto in due isolette giapponesi, troppo poco per giustificare milioni di dollari di finanziamenti. L’Aids è così divenuto l’ancora di salvezza di tutti i retrovirologi (Rossi 1999) La definizione di Aids viene sempre più estesa fino a comprendere decine di malattie diverse, tutte catalogate come Aids. Si vuole dimostrare che tutta la popolazione ne è minacciata, inclusa la maggioranza eterosessuale normale. Un altro trucco per gonfiare le statistiche è quello di fare riferimento non alle percentuali sul totale della popolazione ma ai numeri assoluti: su cifre piccolissime di partenza si possono facilmente avere aumenti consistenti. I Centri per il controllo della malattia (Centers for Disease Control) degli Stati Uniti annunciarono che in un solo anno l’Aids nel gruppo di età al di sotto dei vent’anni era aumentato del 100%: ma la consultazione delle cifre reali mostrò che l’aumento era stato da 9 a 17 casi in tutti gli USA che hanno oltre 250 milioni di abitanti. Naturalmente a tutto ciò si aggiungeva il sensazionalismo dei media. “Niente catturava l’attenzione dei redattori e dei direttori come le voci di una trasmissione eterosessuale e generalizzata dell’Aids. Le voci significavano spazio sui giornali e in televisione; il che, nella questione dell’Aids, veniva rapidamente tradotto in finanziamenti e denaro. Così, anche se le prove di una pandemia di Aids tra gli eterosessuali era scarso, pochi ricercatori l’avrebbero detto forte. Non c’era nessun vantaggio, nel prendere una posizione simile, anche se alla fine si sarebbe rivelata onesta e veritiera. Cinque anni di amare e sperienze avevano insegnato a tutti quelli coinvolti nell’epidemia che la verità non contava molto nella politica dell’Aids.” (Shilts 1987). Emarginazione, insulti, minacce, accuse di irresponsabilità sono stati il destino di quanti, scienziati o giornalisti, tentavano di mettere in discussione i dogmi dell’establishment medico-biologico. Se questo squallido quadro è, come sembra probabile, esatto, o anche se lo fosse solo in parte, siamo di fronte ad un impressionante esempio di scienza prostituita.

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SCIENTISMO

Si intende per “scientifico” ciò che i detentori del potere all’interno della comunità accademica ritengono che convenga sostenere. La frase “non è scientifico”, suona come una scomunica. A ciò che “non è scientifico” si nega il diritto di espressione e di esistenza. Questo equivale a dire che “la scienza è l’unica fonte di conoscenza”: tale è la proposizione basilare dello scientismo, che proprio nel mondo anglosassone ha trovato i sostegni più autorevoli, e vi è divenuto talmente di casa da non essere quasi neppure oggetto di discussione. Parallela allo scientismo è naturalmente la svalutazione della metafisica. Quest’ultima, ricordiamo, è la teoria dell’ente in quanto ente, visto nei suoi caratteri universali, e conduce all’intuizione dell’assoluto, ossia a Dio. La metafisica è creazione dell’antico pensiero greco: in via puramente intellettuale, senza alcun aiuto dalla Rivelazione, i Greci avevano elevato sull’acropoli di Atene il tempio “al Dio sconosciuto”, e la metafisica era tenuta in alto onore anche presso le menti più elette del mondo romano, come Cicerone e Seneca. Gli anglosassoni sembrano essere assai poco portati a ragionare in questi termini: lo scientismo positivista è infatti assai più congeniale alla loro mentalità pratica. Il grande filosofo Karl Popper (1963, 1968), emigrato in Gran Bretagna, per sottrarsi alla dittatura nazista, e divenuto professore all’università di Oxford, era il maggior specialista di epistemologia (filosofia della scienza) vissuto nel Novecento. A lui dobbiamo la demolizione più efficace ed incontrovertibile dello scientismo, che evidentemente, però, non è stata recepita dai prestigiosi colleghi del grande epistemologo, o almeno non da tutti. La proposizione basilare stessa dello scientismo è miseramente contraddittoria: infatti non è possibile dimostrare scientificamente che la scienza sia l’unica fonte di conoscenza, per cui tale proposizione non è scientifica. Dunque, se la proposizione è vera, significa che almeno una proposizione non scientifica è vera, e dunque siamo di fronte ad un’insanabile autocontraddizione, ad una difficoltà logica irrisolvibile, e che in termine tecnico si chiama aporìa. Il Popper categorizza tale tipo di contradditorietà come un caso di “paradosso del cretese”, ben noto alla logica classica (Un cretese dice: “Tutti i cretesi mentono”, ma se l’affermazione è vera, significa proprio il contrario, ossia che non tutti i cretesi mentono, perché almeno uno ha detto la verità). I falsi dogmi scientisti, di evidente ascendenza gnostica, sono un gravissimo ostacolo alla scienza autentica: “i positivisti, nella loro ansia di annichilire la metafisica, annichiliscono anche la scienza naturale”, scrisse il Popper (1968). Ma infatti allo scientista la scienza non importa nulla se non come arma contro la religione. Lo scientista è prima di tutto un settario ateo, e in definitiva un poveretto guidato più dal proprio orgoglio, dalla propria ridicola presunzione, che non vuole ammettere un Dio al sopra di sé, dominato dalla voglia di non sottostare ad una “fastidiosa” legge morale trascendente e non dalla sete di verità. Recentemente si è affacciato alla ribalta un nuovo scientismo, ancor più strettamente legato alla gnosi (Valenti 2001). L’assunto di base di tale nuovo scientismo è la rivendicazione alla scienza di un campo di indagine illimitato. La scienza stessa si propone cioè come filosofia onnicomprensiva in progressiva espansione. Ciò presuppone quindi che non vi sia niente al di fuori della scienza se non l’ignoto. Si tratta di una forma più insidiosa di quella tradizionale, a suo tempo demolita dal Popper. Ma anche questa forma di scientismo è contraddittoria. Infatti, anche la nozione secondo cui al di fuori della scienza non vi sarebbe che l’ignoto non è scientificamente dimostrabile, e ricade quindi nell’ambito dell’ignoto, con evidente circolarità. La presunzione scientista spinge quindi la scienza, una scienza concepita come “sapere totale”, ad appoggiarsi all’ignoto, con evidente aporìa autodistruttiva.

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