La prima tesi che espliciterò è (…….) la seguente: la ricerca regionale aumenta in modo sostanziale l’intelligibilità dell’organizzazione umana dello spazio; ciò perché la regione si configura come una formazione geografica che garantisce la realizzazione di obiettivi socialmente più rilevanti di quelli perseguibili a mezzo di formazioni geografiche che dirò genericamente elementari e/o di essi comprensivi .
La territorializzazione progressiva comporta una complessificazione dell’ambiente (…….) Con altre parole un attore sintagmatico (…….) nel mettere a punto strategie sull’uso del territorio (…….) opera in condizioni estremamente opache e, in particolare, non conosce esattamente né il ventaglio né la performatività delle sequenze operative capaci di assicurare congruenza tra le attese che lo inducono ad agire ed i risultati effettivamente conseguibili.
Si colga correttamente l’accezione del termine complessità; esso designa in effetti una differenza tra potenzialità ed attualità nell’agire rendendo l’agire stesso consustanziale ad una ‘cogenza selettiva’.
Nel dire dunque che la complessità è una funzione diretta della massa territoriale, penseremo alla territorializzazione come portatrice di un esito con doppio contenuto: da un lato, lo sganciamento degli attori dai condizionamenti fisico-naturali; dall’altro lato, l’assoggettamento degli attori all’imperativo costante e gravoso di scegliere, di prendere incessantemente decisioni in un ambiente incerto ed impresico. La relazione tra l’attore e l’ambiente non è binaria; essa, piuttosto, è ternaria, operandosi per il tramite di un mediatore la cui funzione essenziale è ridurre la complessità, ossia di respingere il divario tra le potenzialità e l’attualizzazione dell’agire.
Chiameremo tale mediatore genericamente senso e lo intenderemo in termini luhmanniani come la ‘forma delle premesse per la ricezione di informazioni e per l’elaborazione cosciente dell’esperienza vissuta che rende possibile la comprensione e la riduzione cosciente della complessità elevata’.
Il senso del senso (….) coincide assai semplicemente con la plausibilità di una mediazione necessaria tra attori ed ambiente complessificato, come preordinamento convenzionale ed insieme processivo delle strutture implose.
Il fondamento prasseologico legalizza tramite l’autoreferenza tutti quegli accadimenti — e quei comportamenti — che il fondamento normativo non riusciva a legare tramite stipulazioni. Il gioco linguistico trascende la preformazione linguistica della cognizione anche se non ne annulla la cogenza.
È solo il rinvio alla pertinenza come idealità dell’autoriflessione che può dare indicazioni sul ramo del fiume che si è imboccato alla biforcazione: se quello che dopo una serie di rapide conduce alla cascata; oppure quello che scende alla pianura lento e sicuro.
(Occorre) (…….) un contesto della giustificazione in grado di istituire a valle una simmetria di rapporti interdisciplinari squilibrati a monte. Ove ciò non si dia, la disciplina si muove in un quadro di transizione al caos che più chiaro non si potrebbe immaginare: importa problemi la cui soluzione disciplinare è priva dei requisiti di scambiabilità: l’autoreferenza è ridotta alla pura funzione di conservazione e riproduzione biologica della comunità.
Una ragione critica autoreferenziale afferma anzitutto se stessa negando consistenza argomentativa ad asserzioni come “questa non è geografia”. Essa si dota di una teoria riflettendo sulle connessioni che si stabiliscono tra prasseologia ed ideali-referenti esterni, l’obiettivo atteso essendo, beninteso, il successo della fluttuazione disciplinare.
Essa infine intende la tecnica della critica come valutazione dei contesti creativi e giustificativi in quanto pratiche secondarie di legittimazione incaricate di elaborare pertinenza disciplinare.
La dinamica del nostro veicolo segnico trova svolgimento lungo l’asse delle relazioni pragmatiche, (infatti) ……. le relazioni pragmatiche, obbligando a slittare dalla sostanza linguistica del designatore alla sua effettualità, agli imperativi etimologici del prassein, il fare di cui è portatore, ci proietta nel cuore della tematica habermasiana dell’agire comunicativo.
Il mio discorso, tuttavia, va oltre, ed esprime una preoccupazione epistemica che probabilmente Popper riterrebbe alquanto futile, ma che forse Kuhn, Feyerabend e Rorty considererebbero rilevante. In effetti “democrazia” e “marxismo”, parole che allora apparivano così arditamente sinonimiche per un’ingarbugliatissima trama di sentieri disciplinari internalisti ed esternalisti, in che modo avrebbero potuto dissociarsi ed evolvere come categorie singolari e autonome grazie allo sforzo di Geografia Democratica?
Sforzo non solo critico, intendo, ma di presa di carico della descrizione empirica del mondo nella sua territorialità, colta alle diverse scale e tra le diverse scale, quale dovrebbe essere, all’ingrosso, il nostro mestiere. Il deficit di teoria, così tenace, e le “astrazioni povere” che ci vengono di continuo imputate ma che sembrano nondimeno soddisfarci, conducono attraverso uno spento sentiero al centro di una ribollente agora scientifico-sociale nella quale i bisogni tecnologici e politici di geografia, immensi, vengono soddisfatti in misura crescente senza i geografi.
Dopotutto, stiamo parlando della incessante costituzione del mara, come direbbero i saggi del Manden, che non tanto guardano a cosmopolis come nella costruzione dottrinale dominante, secondo una subordinazione di scale se salta la quale non resta, a quanto pare, che il ricorso alla forza, perfino sub specie di violenza organizzata (nei modi della guerra classica o delle nuove asimmetrie belliche), quanto ad una articolazione di scale senza gerarchie che segni infine il passaggio dalla polis che coincide con il cosmos (una seducente pretesa imperialistica di Roma antica) al cosmos che integra una pluralità di poleis.
Mese: Marzo 2007 (Pagina 2 di 4)
ALEXANDER — Che magnano li antichi macedoni? Una bella zuppa di fagioli. Fagioli? Ma fate il santo piacere. I fagioli vengono dal Messico e sono arrivati in Europa solo dopo la Scoperta dell’America.
LA TUNICA — La nave antica romana deve salpare da Ostia. “Presto, partite, altrimenti perdete la marea”. Da Ostia? Dove la marea è di pochi centimetri? Hanno scambiato Ostia con Londinium. O con New York.
Il volgere del processo storico
secondo l’illustre professor Rigoberto Ocone,
figlio dell’ancor più illustre professor Sanguinaccio Ocone
LA PREISTORIA
Quando l’uomo, pardon l’umano, pardon la gente, insomma le scimmie nude (perché avevano perso la pelliccia nel corso dell’evoluzione) abbiano cominciato ad accorgersi di esserci, non si sa bene. Fatto sta che ad un certo punto qualcuno disse: “Oh, io sono qua”, e qualcun altro disse: “Io sono là”, e così nacque la coscienza dell’essere.
“Qua” e “là” divennero così i punti di riferimento essenziali nonché esistenziali, dato che “là” sembrava sempre che si stesse meglio che “qua”. E fu così che nacquero le guerre. Prima si combatteva con la clava e le pietre, poi con le spade di bronzo, finché qualcuno si accorse che col ferro le teste si spaccavano meglio e così arrivò l’età del ferro.
ABBIGLIAMENTO. Nuovi arrivi mutande, se le provate non le togliete più. Si vendono impermeabili per bambini di gomma. In questo negozio di quello che c’è non manca niente. Non andate altrove a farvi rubare, venite da noi.
AUTOFFICINA. Venite una volta da noi e non andrete mai più da nessuna parte.
CASERMA DEI CARABINIERI. Attenzione per suonare premere, se non risponde nessuno ripremere.
FERRAMENTA. Sega a due mani e denti stretti, 50 euro.
FIORISTA. Si inviano fiori in tutto il mondo via fax.
LAVANDERIA. Si smacchiano antilopi.
GIRANDOLA POLITICHESE
A 1 L’utenza potenziale A 2 Il bisogno emergente A 3 Il quadro normativo A 4 La valenza epidemiologica A 5 Il nuovo soggetto sociale A 6 L’approccio programmatico A 7 L’assetto politico istituzionale A 8 Il criterio metodologico A 9 Il modello di sviluppo A10 Il metodo partecipativo
B 1 si caratterizza per B 2 privilegia B 3 prefigura B 4 riconduce a sintesi B 5 persegue B 6 estrinseca B 7 si propone B 8 presuppone B 9 porta avanti B10 auspica
C 1 il ribaltamento della logica assistenziale preesistente C 2 il superamento di ogni ostacolo e/o resistenza passiva C 3 un organico collegamento interdisciplinare ed una prassi di lavoro di gruppo C 4 la puntuale corrispondenza fra obiettivi e risorse C 5 la verifica critica degli obiettivi istituzionali e l’individuazione di fini qualificanti C 6 il riorientamento delle linee di tendenza in atto C 7 l’accorpamento delle funzioni e il decentramento decisionale C 8 la ricognizione del bisogno emergente e della domanda non soddisfatta C 9 la riconversione ed articolazione periferica dei servizi C10 un corretto rapporto fra strutture e sovrastrutture
D 1 nel primario interesse della popolazione D 2 senza pregiudicare l’attuale livello delle prestazioni D 3 al di sopra di interessi e pressioni di parte D 4 secondo un modulo di interdipendenza orizzontale D 5 in una visione organica ricondotta a unità D 6 con criteri non dirigistici D 7 al di là delle contraddizioni e difficoltà iniziali D 8 in maniera articolata e non totalizzante D 9 attraverso i meccanismi della partecipazione D10 senza precostituzione delle risposte
E 1 sostanziando e vitalizzando E 2 recuperando ovvvero rivalutando E 3 ipotizzando e perseguendo E 4 non assumendo mai come implicito E 5 fattualizzando e concretizzando E 6 non sottacendo ma anzi puntualizzando E 7 potenziando ed incrementando E 8 non dando certo per scontato E 9 evidenziando ed esplicitando E10 attivando ed implementando
F 1 nei tempi brevi, anzi brevissimi F 2 in un’ottica preventiva e non più curativa F 3 in un ambito territoriale omogeneo, ai diversi livelli F 4 nel rispetto della normativa esistente F 5 nel contesto di un sistema integrato F 6 quale sua premessa indispensabile e condizionante F 7 nella misura in cui ciò sia fattibile F 8 con le dovute e imprescindibili sottolineature F 9 in termini di efficacia e di efficienza F10 a monte e a valle della situazione contingente
G 1 la trasparenza di ogni atto decisionale. G 2 la non sanitarizzazione delle risposte. G 3 un indispensabile salto di qualità. G 4 una congrua flessibiltà delle strutture. G 5 l’annullamento di ogni ghettizzazione. G 6 il coinvolgimento attivo di operatori ed utenti. G 7 l’appianamento delle discrepanze e delle discrasie esistenti. G 8 la ridefinizione di una nuova figura professionale. G 9 l’adozione di una metodologia differenziata. G10 la demedicalizzazione del linguaggio.
ABORTO/1. Discussione in tram. “Hai sentito la televisione? Distruggendo la foresta amazzonica rischiamo di perdere chissà quali piante preziosissime che potrebbero guarire il cancro”. “Nel frattempo hanno abortito il bambino che crescendo sarebbe diventato lo scienziato capace di sconfiggere il cancro”.
ABORTO/2. Lezione alla Facoltà di Medicina. Professore: “Abbiamo il seguente caso: una famiglia con una lunga storia di handicap, il padre è anziano, la madre è anziana, i tre figli già nati soffrono di varie malattie e deficienze dalla nascita. Ora la madre è di nuovo incinta. Che fare?” Coro degli studenti: “Aborto, aborto”. Professore: “Bravi ragazzi, avete appena ammazzato Ludwig van Beethoven”.
A Lourdes, come in molti altri luoghi dove è apparsa la Madre di Dio, sono avvenuti fatti che sfidano qualunque spiegazione scientifica. Il biologo statunitense Alexis Carrel (1935) vi si era recato da incredulo, allo scopo specifico di smascherare la “credulità” popolare. Dopo che una peritonite tubercolare all’ultimo stadio che affliggeva una donna all’intestino guarì istantaneamente sotto i suoi occhi, Carrel si convertì al Cattolicesimo. Egli racconta di aver visto il lenzuolo che posava sul ventre mostruosamente tumefatto della moribonda abbassarsi come un pallone che si sgonfia. Le successive visite mediche attestarono la completa guarigione.
Non c’è reliquia maggiormente odiata dal demonio della Santa Sindone: il lenzuolo funebre di Cristo. Il Vangelo di San Giovanni (20, 3-8), fedelmente tradotto (non nelle cattive traduzioni correnti) chiarisce che, nel sepolcro vuoto, il lenzuolo funebre era ancora legato con le fasce. La traduzione corretta dovrebbe essere: “(Giovanni) chinatosi, scorge le fasce distese, ma non entra. Giunge intanto anche Simon Pietro che lo seguiva ed entra nel sepolcro e contempla le fasce distese e il sudario, che era sul capo di Lui, non disteso con le fasce, ma al contrario avvolto in una posizione unica”. Nessun segno di effrazione. Pesantemente impregnato delle sostanze aromatiche ivi poste da Nicodemo e da Giuseppe d’Arimatea, il sudario era ancora sollevato ma vuoto. Ciò dimostra che nessuno aveva manomesso la sepoltura, ma che il corpo ne era misteriosamente uscito, smaterializzandosi. La posizione del lenzuolo e delle bende era quindi prova inconfutabile della Resurrezione. In questo modo si spiega la frase del Vangelo: “entrò dunque anche l’altro discepolo, che era giunto prima al sepolcro, e vide e credette”. Il sudario “ripiegato, in un angolo a parte” della cattiva traduzione corrente non avrebbe avuto una pari forza di dimostrazione. Lo studio della Sindone ha dimostrato appunto che il Telo ha avvolto un corpo che si è smaterializzato emettendo un lampo di energia, il quale ha fissato l’immagine del corpo stesso sul tessuto. Tale immagine mostra la figura di un uomo che reca tutti i segni della Passione di Cristo (flagellazione, coronazione di spine, trafittura con chiodi, ferita di lancia al costato). È chiaro che da segni inequivocabili che l’uomo era veramente morto. Infatti, l’andamento delle macchie di sangue dimostrano la contrattura cadaverica e l’effusione di sangue misto a liquido pleurico (l’”acqua” di cui parla il Vangelo di San Giovanni 19, 34) in seguito al colpo di lancia al costato (colpo assolutamente mortale, se per ipotesi assurda fosse stato ancora vivo). La Sindone risale certamente all’epoca di Cristo, ha avuto origine dalla regione in cui visse Cristo, ed è veramente il lenziolo funebre di Cristo, perchè: 1) l’esame al microscopio elettronico rivela che si tratta di un tessuto di lino orientale spigato antico, ben diverso dai lini medioevali; 2) i pollini trovati sulla Sindone comprendono specie vegetali della Palestina (nonché di altre regioni nelle quali il Telo è stato via via trasferito); 3) la rappresentazione tradizionale del volto di Cristo compare per la prima volta in sculture paleocristiane della parte orientale dell’Impero Romano, ossia nelle zone dove la Sindone era conosciuta, mentre nella parte occidentale Cristo venne rappresentato dai primi artisti paleocristiani in maniera fantasiosa, come se fosse il dio Apollo, fin quando la tradizione più attendibile, basata appunto sulla Sindone, non si diffuse in tutta la Cristianità; 4) tecniche di scansione elettronica hanno scoperto sul Telo le immagini leggibili di due monete posate sugli occhi del sepolto, e queste monete sono databili con esattezza all’epoca del servizio di Ponzio Pilato in Palestina; 5) le medesime tecniche hanno di recente scoperto sulla Sindone una scritta con il nome, in greco, del condannato, appunto “Gesù di Nazareth”; 6) i confronti della Sindone con altre reliquie, e precisamente col chiodo conservato nella Basilica di Santa Croce in Gerusalemme e quello conservato nella cattedrale di Notre-Dame a Parigi mostrano piena concordanza e confermano pienamente il racconto evangelico. La Sindone non può essere un dipinto perchè: 1) non reca tracce di colore o di pennellate (mentre ha macchie di sangue del quale è stato anche possibile determinare il gruppo, e che contengono DNA umano); 2) è impossibile distinguere l’immagine a meno di tre metri (l’ipotetico artista avrebbe dovuto lavorare a distanze assurde dalla tela); 3) l’immagine è un negativo fotografico; 4) contiene informazioni tridimensionali che è stato possibile estrarre soltanto mediante scansione elettronica; 5) non presenta alcuna traccia sul retro, a parte le colature di sangue (come è stato di recente dimostrato insinuando uno scanner sotto le cuciture di restauro), mentre i dipinti su tela hanno tutti tracce sul retro. Inoltre, il fatto stesso che il Telo sia stato conservato dimostra che doveva essere la prova di un evento assolutamente straordinario. Infatti gli ebrei (e non soltanto loro) avevano (ed hanno) in assoluto orrore tutto ciò che riguarda la morte. L’idea di conservare un sudario che aveva avvolto un cadavere, e farne addirittura oggetto di venerazione come reliquia, sarebbe stata per essi, come del resto per i convertiti al Cristianesimo appartenenti da altri popoli, un’idea orrenda da non prendere neppure in considerazione. Evidentemente quel Telo non era un comune sudario. Questi, in estrema sintesi, sono i risultati principali degli studi sulla Sindone. Un eventuale “falsario medioevale”, per costruire un “falso” del genere, avrebbe dovuto disporre delle conoscenze e dei laboratori odierni, oltre ad essere un genio pari a cento premi Nobel della fisica messi insieme (e forse non sarebbe neppure bastato). E che fine ha fatto questo fantomatico supergenio? Che fine hanno fatto le sue straordinarie scoperte e le sue fantascientifiche apparecchiature? Perchè non ha approfittato delle sue doti eccezionali per emergere nel mondo? Perchè non avrebbe prodotto nient’altro in tutta la sua vita? Nonostante che le prove a favore dell’autenticità della Sindone fossero già una montagna, si è comunque voluto sottoporre il sacro Telo anche alla datazione mediante il carbonio radioattivo. Senza consultare il Centro Sindonologico di Torino, che raggruppa alcuni fra i maggiori esperti in materia, l’arcivescovo della città, Anastasio Ballestrero, affidò con somma imprudenza, nel 1988, il compito di datare il Telo al radiocarbonio a tre laboratori di paesi a netta prevalenza protestante, e in ambienti accademici ultralaicisti: a Oxford, a Tucson nell’Arizona, e a Ginevra. I risultati delle analisi, concordi per una datazione fra i secc. XIII e XIV, furono annunciati dai “carbonisti” (così si chiamano gli scienziati che studiano il radiocarbonio) con sorrisi di soddisfazione da un orecchio all’altro in una solenne conferenza stampa di fronte alle telecamere di tutto il mondo. Il cardinale Ballestrero si affrettò ad alzare bandiera bianca, dichiarando che la Sindone non era che “un’icona”. Sui prestigiosi autori dell’”indagine” piovvero lodi sperticate e finanziamenti di milioni di dollari da parte di ben noti circoli massonici. Cominciarono ad apparire, specie in Gran Bretagna, libercoli insultanti e pieni di insinuazioni quanto scientificamente nulli (ad es. quelli di Currer-Briggs e di Laidler), che parlano di “mafia della Sindone” e di “divino imbroglio”. Il fatto che i risultati del radiocarbonio fossero in totale contrasto con tutti i risultati delle ricerche precedenti non è stato neppure preso in considerazione. Al prestigioso Museo della Scienza di Londra, a South Kensington, un’intera vetrina dedicata alle datazioni al radiocarbonio porta, come unico esempio dei “successi” di tale tecnica, la datazione “medioevale” della Sindone, senza alcun accenno ad altre contrastanti datazioni, come quella basata sulle monete dell’età di Ponzio Pilato. Esistono infatti precisi protocolli di ricerca: prima di ogni tentativo di datazione al radiocarbonio, i “carbonisti” devono documentarsi sulle datazioni già ottenute con altri metodi. Ogni tentativo di far osservare, per lettera, alla direzione del museo e al Times, che le norme di comportamento delle ricerca scientifica impongono almeno di riferire l’esistenza di datazioni diverse non ha ottenuto alcuna risposta. Tanto meno il prestigioso museo londinese si è preoccupato di informare i visitatori della scarsissima attendibilità che spesso accompagna le datazioni al radiocarbonio: ad esempio, a un corno per bere di età vichinga è stata attribuita una data nel futuro, all’inizio del terzo millennio; una chiocciola appena morta è stata datata a cinquemila anni addietro. Ma nessuno protesta: davanti a cotanto prestigio scientifico britannico “ogni lingua divien tremando muta, e l’occhi non l’ardiscon di guardare”. Il punto essenziale da considerare, comunque, è un altro: se la Sindone fosse il falso più falso che si possa immaginare, il Cristianesimo non ne risentirebbe affatto: nessuna reliquia, neppure la più illustre, è mai stata considerata argomento di Fede: la Fede si fonda sull’insegnamento di Cristo e non ha bisogno d’altro. Sono soltanto i nemici del Cristianesimo che smaniano per cose come l’evoluzionismo o la Sindone. Perché? Perché se l’evoluzionismo fallisce (come è fallito), e se la Sindone è autentica (come è autentica), il castello di carte scientista e ateo crolla miseramente, e la negazione di Cristo si rivela per quello che veramente è: la persecuzione farisaica contro la verità, che va avanti da duemila anni. Siamo di fronte alla bancarotta dell’ateismo, ed è una bancarotta fraudolenta. Le mistificazioni atee stanno in piedi grazie al potere accademico, ma un giorno tutti i poteri terreni saranno infranti, e allora ci sarà da ridere.
Da pochi anni aveva avuto luogo la conquista del Messico da parte dei tanto vituperati Conquistadores, i quali, sia pure con la spada (ma forse era l’unico modo praticabile), vi avevano introdotto il Cristianesimo, sradicando i culti barbari che richiedevano orrendi sacrifici umani (ai prigionieri di guerra, vivi, si strappava il cuore per offrirlo al sole, perché si riteneva che l’astro avesse bisogno di sangue umano per nutrirsi; altri venivano scuoiati, vivi, e lo stregone si ricopriva della pelle sanguinante credendo di acquistare in tal modo le doti della vittima). Nel 1531, sul colle di Tepeyac, presso quella che è oggi Città del Messico, l’indio cristiano Juan Diego Cuahtlatoatzin (cognome che, in lingua nahuatl, significa “aquila che parla”), stava andando a visitare un suo zio ammalato, quando sentì una voce dolcissima chiamarlo e un canto soave che lo attirava sulla cima. Asceso il colle, vide una meravigliosa fanciulla che, nella lingua degli aztechi, si presentò come la madre di Ométeotl, il Dio supremo e unico. L’apparizione gli chiese che venisse costruito un santuario. L’indio si recò a riferire l’apparizione al vescovo Zumarraga, che accolse la notizia con scetticismo (e questa sarebbe, secondo i settari, la Chiesa che specula su “presunti” prodigi). Juan Diego, presumibilmente mortificato, ritornò senza rifare la stessa strada, ma la Madonna (chiamata in seguito “di Guadalupe”, ispanismo che deriva dal nahuatl Coatlaxopeuh, “Vincitrice del serpente”) gli apparve di nuovo, gli profetizzò che lo zio sarebbe guarito (cosa che puntualmente avvenne), e gli disse di portare al vescovo incredulo, come prova, certi fiori che avrebbero dovuto essere introvabili perché fuori stagione. L’indio trovò i fiori e li raccolse nella tilma, il mantello di fibre di agave che indossava e li portò a Zumarraga. Ma quando aprì il mantello, vi apparve impressa l’immagine acheròpita (ossia non tracciata da mano umana) della stessa Vergine: tale immagine non reca infatti alcuna traccia di pittura. Il mantello si conserva tuttora nel santuario, costruito sul luogo delle apparizioni. Di solito le fibre di agave si decompongono dopo un decina d’anni, ma questo mantello è inspiegabilmente ancora intatto dopo cinque secoli, benché non abbia subìto alcun procedimento conservativo. Il fatto più straordinario è che avanzate tecniche microscopiche hanno permesso di scoprire che, nelle pupille dell’immagine della Madonna, come sulla retina di un vero occhio umano, è impressa, su una superficie infinitesimale, la scena di quel giorno. Si riconoscono numerose figure, fra cui quella dell’indio e quella del vescovo curvo ad osservare la figura miracolosamente apparsa sul mantello. È come se gli occhi della Santa Vergine avessero registrato l’avvenimento. E questo in un’epoca in cui non era stato inventato neppure il più rudimentale dei microscopi, ciò che permette di escludere in modo assoluto che le tecniche di allora potessero in qualche modo costruire immagini del genere. La risposta dei padroni anglosassoni dei mass media a questa sconvolgente scoperta è stata simile a quella che avrebbero tenuto Radio Mosca (o Telekabul) in piena epoca comunista: non prestare attenzione al fatto, avvenuto, ovviamente, in un paese “papista” e pieno di gente “superstiziosa” e “credulona”. Agli inizi del sec. XX, ai tempi del governo anticlericale messicano sostenuto dalla massoneria, la soldataglia, oltre ad uccidere nei modi più efferati tutti i sacerdoti su cui riuscì a mettere le mani, tentò di far saltare il santuario con la dinamite, ma l’edificio rimase miracolosamente in piedi.
Un giovane di nome Miguel Juan Pellicer aveva subìto l’amputazione di una gamba in seguito ad un incidente. Assai devoto alla Madonna, trascorse oltre due anni a chiedere l’elemosina di fronte alla chiesa della Vergine del Pilar a Saragozza, per non essere di peso alla sua famiglia, che era numerosa e povera.
Tornato nel suo villaggio di Calanda, un mattino si risvegliò avendo ambedue le gambe: quella ricresciuta aveva tutte le caratteristiche di quella precedente, incluse alcune cicatrici causate dal morso di un cane.