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A CHI GIOVA IL DARWINISMO?

Perfino gli evoluzionisti dubitano della darwiniana “lotta per la vita”.

Studiando la presunta evoluzione umana, “Wallace notò che lo sviluppo del cervello è avvenuto con largo anticipo rispetto all’impiego della sua facoltà, ma in base alla teoria dell’evoluzione per selezione naturale non è possibile che una struttura, per di più complessa, venga prodotta migliaia di anni prima dell’impiego che avvantaggerà l’organismo in cui si è manifestata.” (Pennetta 2011, p. 62). Vedi The limits of natural selection as applied to man (I limiti della selezione naturale nella sua applicazione all’uomo), uno scritto di Wallace del 1870. I digrignanti guardiani dell’ortodossia darwiniana hanno fatto in modo che questo scritto avesse meno diffusione possibile. Ma l’obiezione di Wallace è tuttora pienamente valida.

Altra grave difficoltà è stata rilevata da Theodor Eimer (1843-1898), che nel 1888 pubblicò “Origine delle specie in base all’ereditarietà dei caratteri acquisiti secondo le leggi dell’accrescimento organico”. Eimer ipotizzava un effetto diretto dell’ambiente, in senso lamarckiano, perché la selezione naturale non spiega l’origine delle nuove caratteristiche; prima che qualcosa venga selezionato bisogna anzitutto che esista.

Anche l’idea che una selezione naturale, del tipo di quella artificiale messa in atto dagli allevatori, potesse condurre a un progressivo e continuo cambiamento di caratteri era stata smentita dagli studi di Wilhelm Ludwig Johansen (1857-1927). I primi passi in questo senso erano stati in realtà compiuti da Galton, che aveva stabilito il “principio di regressione” secondo il quale un carattere tende ad allontanarsi dalla media dei genitori per spostarsi verso quella della popolazione. Se ad esempio si prendessero due coppie all’interno di una popolazione di cui una costituita dai due genitori più alti e l’altra dai due più bassi, secondo il principio di regressione i figli della coppia più alta non sarebbero ancora più alti dei genitori (come voleva la teoria darwiniana), ma tenderebbero ad esserne più bassi spostandosi verso la media della popolazione. Parimenti, i figli della coppia più bassa tenderebbero ad essere più alti dei genitori, avvicinandosi alla media della popolazione. Questa legge porterebbe, nel caso delle giraffe, a non ottenere giraffe dal collo sempre più lungo incrociando tra loro quelle portatrici di tale carattere più sviluppato.

Johansen verificò questo fenomeno effettuando degli esperimenti con delle piante di fagiolo, nel corso dei quali incrociava tra loro quelli che producevano piante dalle caratteristiche poste all’estremità della curva di popolazione. Questo significava che i fattori ambientali non avevano alcuna influenza sulle caratteristiche delle generazioni successive. Il risultato fu conforme a quanto atteso in base al principio di regressione: non era possibile spingersi oltre i limiti estremi della popolazione di partenza. Questo principio invalidava, come prova dei meccanismi evolutivi, il già citato esempio della farfalla Biston betularia. Infatti la colorazione non può spingersi oltre quelle presenti nella popolazione di partenza. (Pennetta cit., pp. 101-102).

Secondo Wells, Huxley & Wells (1931) il gradualismo sarebbe dimostrato da “innumerevoli fatti”. In realtà è proprio il gradualismo uno dei punti più negativi, che il darwinismo non riesce a risolvere. Darwin aveva invocato la lacunosità della documentazione paleontologica, ma la mancata formazione di fossili di un dato periodo può spiegare l’apparente salto fra una specie e l’altra, mentre “la persistenza di una stessa specie in strati diversi (anche intermittenti) testimonia con certezza che in quell’intervallo di tempo l’evoluzione non si è verificata e, se si ammette il gradualismo, un tale fenomeno di ‘stasi’ non dovrebbe verificarsi. In un’ottica darwiniana la stasi sarebbe spiegabile solo con il verificarsi di una ‘selezione stabilizzante’, quella situazione in cui ogni cambiamento peggiorerebbe l’adattamento e la specie è mantenuta stabile. Ma questa spiegazione vale se le condizioni ambientali non variano. Infatti, come potrebbe una specie restare perfettamente adattata al drastico variare delle condizioni che determinano la sopravvivenza stessa? L’argomento è stato affrontato da Stephen Jay Gould, facendo riferimento a studi che confermano la stabilità delle specie anche in condizioni di forte cambiamento, come le ere glaciali.” (Pennetta cit., p. 118).

A cavallo fra gli anni Trenta e Quaranta del sec. XX, “il paleontologo George Gaylord Simpson, curatore dell’American Museum of Natural History, espose il forte convincimento che la storia evolutiva sia una storia di tipo discontinuo. Simpson era un darwiniano e non aveva quindi pregiudizi nei confronti del meccanismo gradualista, ma con i dati che emergevano dai reperti paleontologici non poteva ‘incolpare’ i fossili per le lacune nella storia evolutiva. In particolare Simpson era colpito dalla mancanza di stadi intermedi tra i progenitori dei pipistrelli e questi ultimi, così come lo era del fatto che non esistono stadi intermedi tra i progenitori delle balene e queste ultime, giungendo così alla conclusione che la loro evoluzione dovesse essere avvenuta in modo discontinuo. Oltretutto questi due gruppi sono rimasti stabili negli ultimi 55 milioni di anni evidenziando un tasso di mutazione estremamente lento e rendendo assurdi i tempi stimati per la loro evoluzione. Simpson, esaminando i fossili di pipistrelli e balene lungo un periodo che copriva gli ultimi 55 milioni di anni e analizzandoli come un film a ritroso (qualcosa di analogo a ciò che si fa con il movimento delle galassie per determinare il momento dell’inizio dell’universo), poteva indicare il momento in cui era iniziato il distacco dai mammiferi terricoli. Ma i risultati di questo calcolo portavano a collocare tale momento in un periodo in cui gli animali placentati, che sono datati circa 100 milioni di anni fa, non si erano ancora formati. Per Simpson l’unica spiegazione possibile era una discontinuità nella velocità dell’evoluzione: ipotesi che inevitabilmente non sarebbe stata compatibile con il gradualismo.” (Pennetta 2011, p. 119). Simpson proponeva quindi un’evoluzione a balzi, di tipo quantistico.

Ma la macchina organizzativa di sostegno all’ortodossia gradita ai poteri forti era in moto per la costruzione del consenso. La Royal Society premiò e accolse tra i suoi “fellows” e “foreign members” tutti i protagonisti della rinascita del neodarwinismo, basato sull’immarcescibile gradualismo e quindi sulla competizione: Thomas Hunt Morgan (1919), sir Ronald Aymler Fisher (1929), John Burdon Sanderson Haldane (1932), Theodosius Nemirov Dobzhansky (1965). Perseguitato dai poteri forti come “eretico”, Simpson (1953b) dovette arrendersi e abiurare le sue idee di evoluzione non graduale.

Nel 1949 John Nash, riprendendo la teoria dei giochi di John Von Neumann e Oskar Morgenstern (1944), pubblicò un breve articolo sui giochi “non cooperativi”, in cui dimostrava praticamente che la scelta competitiva non era quella migliore in assoluto, ma al contrario il massimo vantaggio per tutti si ottiene scegliendo di cooperare. In questo modo veniva ribaltata la teoria di Adam Smith, secondo cui il risultato migliore si ottiene dall’egoismo e dalla competizione. In questo modo veniva scalzata un’importante implicazione dal punto di vista evoluzionistico, tanto che nel 1965 la biologa Lynn Margoulis propose l’idea che il motore principale dell’evoluzione fosse appunto la cooperazione, di cui abbondano esempi tra gli esseri viventi di specie diverse. (Pennetta cit., pp. 176-178).

Nello stesso anno l’economista Ester Boserup (1965) confutò la già ampiamente screditata teoria malthusiana delle progressioni geometriche per la popolazione e di quelle aritmetiche per le risorse. Infatti, se l’andamento ipotizzato da Malthus era indicato da una linea retta che rappresentava l’incremento aritmetico delle risorse e da una linea curva di tipo esponenziale che rappresentava quello della popolazione, nello studio della Boserup, pur restando esponenziale l’andamento della curva di popolazione, le risorse si sviluppavano secondo un andamento per brusche variazioni che consentivano alle due figure di svilupparsi n modo compatibile. (Pennetta cit., p. 176). Veniva così compromessa la credibilità della teoria malthusiana che aveva ispirato a Darwin l’idea della “lotta per la vita”.

Le ricerche di Nash, della Margoulis e della Boserup rappresentarono una sconfitta di prima grandezza per il piatto evoluzionismo per competizione e selezione, e questo ridiede spazio all’evoluzione quantistica, per salti, che riemerse nel 1972, col libro Punctuated equilibria: an alternative to phyletic gradualism (Equilibri punteggiati: un’alternativa al gradualismo filogenetico), dei già citati Niles Eldredge e Stephen Jay Gould. I loro “equilibri punteggiati” interferivano con la legittimazione delle politiche di asservimento e sfruttamento dei paesi poveri: l’evoluzione non era più sinonimo di “progresso”, essendovi cambiamenti improvvisi e imprevedibili. Nel mondo vivente regnava la collaborazione piuttosto che la competizione, le iniziative eugenetiche erano inutili, la selezione naturale non bastava a spiegare l’evoluzione, e veniva incrinata la certezza dogmatica che i neodarwinisti avevano imposto.

Le reazioni dei darwinisti politicamente corretti furono isteriche: scalzare il darwinismo più tradizionale aveva, per l’imperialismo dei poteri forti anglosassoni, conseguenze devastanti: niente più competizione, niente più legittima preminenza di un gruppo su un altro, niente più eugenetica, niente più forzato controllo delle nascite. I poteri forti (Commissione Trilaterale, gruppo Bilderberg, loggia Rockefeller 666, et similia) non potevano sopportare idee del genere.

Della controffensiva restauratrice e retrograda si incaricò il furiosamente ateo Richard Dawkins con il libro The selfish gene (Il gene egoista), del 1976, nel quale fantasticò una sorta di mito della “creazione”, di religione onnicomprensiva che non ammette altra spiegazione fuori di se stessa. Darwin avrebbe segnato un’epoca, con una visione altrettanto rivoluzionaria quanto quella copernicana. Darwin avrebbe spiegato tutto, l’origine della vita, l’evoluzione della vita, il (non) significato della vita. L’uomo? solo un animale, che si esaurisce nelle funzioni puramente biologiche. Non esisterebbero altri livelli di realtà. Nient’altro da capire e da spiegare. Naturalmente Dawkins impiega molte più parole per presentare le sue amenità e prendersi gioco dell’intelligenza dei lettori, ma il succo è questo. Chiacchiere indimostrate? Ripetizione di vecchie sciocchezze? Valore scientifico sottozero? Certamente. Solo che Dawkins è dalla parte “giusta” della barricata, dalla parte che dispone di tutti i giornali, di tutti i microfoni, di tutte le televisioni, di tutte le case editrici. Dalla parte che ha eletto Darwin a nume tutelare del dominio mondiale anglosassone. Dalla parte che ha elevato a scienza la sistematica manipolazione del consenso e l’imposizione del bavaglio ai dissidenti.

Impeccabilmente allineato sulle esigenze propagandistiche e mistificatorie dei poteri forti anglosassoni, Richard Dawkins ripropone, oltre al neodarwinismo, il neomalthusianesimo, questa chiave di volta della politica americana mirante ad arginare la vitalità degli altri popoli, che potrebbero far concorrenza agli USA. Per far penetrare a livello popolare il verbo malthusiano antinatalista, Dawkins ha introdotto il concetto di “meme”, che sarebbe il “replicatore” della trasmissione culturale, o replicatore delle idee. In questo modo la cultura diventa campo di applicazione dell’evoluzionismo. Il meme sarebbe assimilabile a un parassita della mente, come un virus capace di replicarsi infettando altre menti. Prove? Non facciamo ridere. Si tratta di un’affermazione apodittica, gratuita e pretestuosa, non sostenuta che dalle affermazioni di Dawkins.

Ma l’idea balzana del meme serve. A cosa? a distruggere la religione. E perché distruggere la religione? perché si oppone al controllo delle nascite, ledendo i poteri forti anglosassoni e il loro delirio di onnipotenza. Se alcune idee sono “virus” del cervello, non opinioni e convinzioni, ma malattie che richiedono di essere curate, siamo di fronte ad uno spaventoso potenziale di propaganda distruttiva, orientata all’annientamento delle idee contrarie, presentate come aberrazioni e non come alternative legittime, come prescritto dal Leviathan di Thomas Hobbes (1909, pubbl. la prima volta 1651). Non può sfuggire, naturalmente, lo stretto parallelismo con l’uso sovietico dei manicomi per la repressione del dissenso, dissenso che spesso si manifestava come credenza religiosa ostile all’ateismo di stato.

Dawkins fornisce dunque lo strumento per rendere “scientifica” la lotta alle opinioni non in sintonia con quelle ufficiali. Se i memi parassiti sono quelli che si oppongono alla verità di Stato, una delle maggiori fonti di verità alternative, e quindi indesiderabili, nel XX secolo come nel Rinascimento, era la Chiesa cattolica dalla quale l’Inghilterra dell’età elisabettiana si era resa autonoma. Ma per l’Inghilterra elisabettiana era stato sufficiente liberarsi dell’autorità religiosa, per il mondo del XX secolo questo non basta più; il bersaglio principale nella lotta ai memi parassiti si manifesta immediatamente: “Consideriamo l’idea di Dio. Non sappiamo in che modo si sia originata nel pool memico”. (Pennetta cit., p. 186).

L’attacco ateo si fa più brutale nello scritto Viruses of the mind (Virus della mente) (Dawkins 1991), nel quale lo sconsiderato paragona una suora cattolica a un agente infettivo e la mente di bambini esposti al suo influsso a organismi immunodeficienti da proteggere contro le infezioni.

Dawkins, senza mezzi termini, indicava la Chiesa cattolica come la maggior fonte di “infezioni” mentali di tale malattia, indicandone i “sintomi”: “1) la fede; 2) la mancanza di prove per la propria fede [sic!]; 3) la convinzione che il “mistero” sia qualcosa di buono (con particolare riferimento alla Transustanziazione del pane e del vino nella Messa e alla Trinità, dogmi entrambi presenti nella Chiesa cattolica); 4) intolleranza verso le fedi antagoniste; 5) capacità di avvertire, da parte del paziente, che le proprie convinzioni fanno parte di una realtà epidemiologica. Il luogo di nascita determina la religione, non le prove; 6) nel raro caso che il paziente segua una religione differente da quella dei genitori, la spiegazione sarebbe comunque epidemiologica; 7) le sensazioni intime del paziente potrebbero essere reminiscenze associate alla sessualità.” (cit. in Pennetta cit., p. 187).

Qui siamo perfino al di sotto della malascienza, che in qualche modo assomiglia alla scienza, o almeno la scimmiotta. Siamo di fronte al gracchiare insensato di una mente malata di cristofobia. Ma il fatto più grave è che il gracchiare insensato è voce ufficiale dell’imperialismo razzista anglo-americano che, già ricco e potente, cospira per diventare il padrone del mondo. Il carattere razzista del malthusianesimo, e in particolare della sua espressione di punta, l’aborto, è palese: la gente di colore rappresenta il 15% della popolazione statunitense totale, ma il 40% degli aborti riguardano madri di colore; in Cina l’aborto fa strage specialmente di esseri umani di sesso femminile, ai quali è negato il diritto di nascere.

Nella conferenza Beijing +5 del 2000, la politica neomaltusiana fu accusata di “colonialismo sessuale”. Il 25 gennaio 2009, tre giorni dopo, la decisione di Barack Obama di ripristinare i fondi delle organizzazioni non governative che promuovono l’aborto è stata definita da Steve W. Mosher, presidente del Population Research Institute della Virginia (un’organizzazione per la difesa della vita), “un esempio dell’imperialismo americano”. Mosher ha inquadrato perfettamente la situazione rilevando che “la maggior parte dei Paesi del mondo vieta l’aborto; così facendo, Obama viola anche i principi di tutte le religioni.” (cit. in Pennetta cit., p. 197).

Perché proprio quel particolare tipo di evoluzionismo?

Ai poteri forti anglosassoni non interessa dunque neppure il trionfo dell’evoluzionismo in sé, non si battono per presunti “diritti” della scienza, anche se di quei “diritti” non fanno che riempirsi la bocca. Al contrario, essi sostengono un particolare tipo di evoluzionismo, solo quello, perché fa loro comodo politicamente. L’evoluzionismo ha da essere ateo, neodarwinista, graduale, basato sulla “lotta per la vita”, sulla “competizione per l’esistenza”: si tratta della versione meno sostenibile, meno aderente ai dati paleontologici, i quali, come abbiamo visto, non offrono “anelli di congiunzione”. Perché accanirsi proprio per quel tipo di evoluzionismo, combattendo tutti gli altri? Perché rifiutare qualsiasi conciliazione con la Fede in Dio, tutt’altro che impossibile, visto che la Chiesa non ha mai condannato Darwin e si è sempre mostrata (fin troppo) conciliante e possibilista?

Il motivo è che in passato la frode evoluzionistica serviva alla congrega di atei senza scrupoli per sostenere l’imperialismo razzista inglese, e oggi viene impiegata da un’altra congrega senza scrupoli (la Commissione Trilaterale, il gruppo Bilderberg, la loggia Rockefeller 666, la Open Society di George Soros, e i loro lacché, come università, stazioni radio e televisive, accademie varie, National Geographical Society e simili) a sostegno dell’imperialismo americano, e del “naturale” trionfatore della “lotta per la vita”, l’uomo “superiore”: il bianco protestante anglosassone.

Ciao Darwin, grazie Darwin. La tua teoria sta devastando il mondo, giustificando, fra l’altro, i rapaci artigli dei poteri forti che attingono alle nostre tasche. Come mai tanta frenesia di darwinismo negli ambienti dell’alta finanzia speculativa e di rapina, che ha imposto il darwinismo all’ONU, all’Unione Europea, a tutti i maggiori organismi internazionali dominati dai poteri forti? Che gliene frega di una teoria biologica ai grandi banchieri?

Gliene frega, gliene frega moltissimo. Perché il darwinismo, imposto brutalmente dai poteri forti, non è una semplice teoria scientifica aperta alla discussione. Si tratta invece di una visione globale del mondo, tale da imporre modi di pensare e comportamenti che servono a lorsignori che tirano le fila del loro smisurato arricchimento e dello sfruttamento altrui.

Infatti, se Darwin ha ragione, allora si giustificano tutte le ineguaglianze. I superbanchieri non hanno nessuna colpa se sono al vertice e governano il mondo imponendo ai loro burattini politici e mediatici di fare quel che a loro comoda: poverini, è la selezione naturale che ha dato loro poteri superiori. I fantozzini non possono lamentarsi, se la selezione naturale li ha fatti così, che stiano al loro posto. Questa è l’ideologia che regna nel mondo, e la crisi che ci è piovuta addosso è solo una delle sue conseguenze.

E io pago.

BIBLIOGRAFIA

BOSERUP E. (1965) The conditions of agricultural growth: the economics of agrarian change under population pressure, Chicago, Aldine; London, Allen & Unwin

DAWKINS R. (1976) The selfish gene, Oxford, Oxford University Press

HOBBES T. (1909) The Leviathan, or the matter, form and power of a commonwealth, Oxford, Clarendon Press (pubbl. la prima volta 1651)

VON NEUMANN J. & MORGENSTERN O. (1944) Theory of games and economic behavior, Princeton, N.J., Princeton University Press

PENNETTA E. (2011) Inchiesta sul darwinismo. Come si costruisce una teoria. Scienza e potere dall’imperialismo britannico alle politiche ONU, Siena, Cantagalli

SIMPSON G.G. (1953) Major features of evolution, New York, Columbia University Press

WELLS H.G., HUXLEY J. & WELLS G.P. (1931) The science of life, London, Waverley Book Company


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