Il Verbo divino ha creato il mondo e tutte le cose visibili ed invisibili. Il Verbo è la Parola divina. Anche a noi ha dato la parola, per renderci simili a Lui, e anche la nostra parola ha un certo potere creativo. Non è un caso, quindi, se determinati suoni e relative lettere richiamano coerentemente significati ben precisi, di non poca importanza spirituale. Consideriamo, ad esempio, la lettera P. Quattro sono le P indispensabili al ben vivere e (cosa assai più importante) al ben morire, ossia a propiziare l’ingresso dell’anima nell’eternità: Preghiera, Perdono, Pazienza, Perseveranza.
Ma quale eternità? Tutte le anime entrano fatalmente nell’eternità, tuttavia ci sono due modi, e due soli, in cui si può entrarvi: per ascoltare un giudizio di assoluzione o uno di condanna.
C’è chi entra nell’eternità senza aver mai pregato e senza aver mai posto piede in una chiesa, o vi ha posto piede occasionalmente e senza riflettere, o anche vi si reca regolarmente o quasi perché è un’abitudine che conforta la sua tiepidezza. Guai ai tiepidi, convinti che soddisfare le consuetudini, di aver fatto ciò che andava fatto. Entrando nell’eternità, quando sarà troppo tardi per cambiare alcunché della propria esistenza terrena, c’è da temere che li attenda un’orrenda delusione. Ricordiamo la lettera alla chiesa di Laodicea nell’Apocalisse (3, 15): “Conosco le tue opere, che non sei né freddo né caldo. Oh, tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, né freddo né caldo, io ti vomiterò dalla mia bocca.”
La preghiera dovrebbe essere fuoco. Fuoco che avvicina all’Amore eterno. Fuoco che non è mai abbastanza, perché ogni istante potrebbe essere l’ultimo dell’esistenza terrena e il primo della vita eterna, e ognuno dovrà rendere conto di tutto, senza poter modificare più nulla dell’esistenza passata. Ed è pericoloso confidare ciecamente nella misericordia divina che “alla fine perdonerà tutto”. Ammonisce infatti S. Alfonso Maria de’ Liguori: “Ne manda più all’inferno la misericordia di Dio che non la sua giustizia”. I peccatori si cullano di poter continuare a peccare, o a restare tiepidi, perché “la misericordia divina perdonerà tutto”. Ma il Signore ammonisce: “Ecco, io vengo come un ladro; beato che veglia e custodisce le sue vesti per non andare nudo e non lasciar vedere la sua vergogna.” (Apocalisse 16, 15).
La preghiera assidua è un pilastro sicuro, un sostegno indispensabile per una buona vita e una buona morte. È ripetitiva? È noiosa? Ma vincere la noia è una sfida importante da superare, poiché la preghiera dev’essere profonda, sincera, meditata. Inoltre, senza la salda impalcatura delle preghiere formali e codificate, difficilmente potrebbe svilupparsi l’ispirazione per la preghiera informale, al colloquio con l’Altissimo. Non basta pregare per sé stessi, occorre anche non dimenticare gli altri, amici e nemici. Bisogna pregare umilmente, riconoscendosi in continuazione un nulla di fronte all’Onnipotente. Occorre non pregare solo per ottenere grazie, ma soprattutto per ringraziare l’Onnipotente e Onnisciente per tutto il bene che ci ha elargito.
Tutto quello che abbiamo di buono ce lo ha concesso Lui, tutto ciò che di cattivo si trova in noi siamo stati proprio noi a mettercelo: per questo abbiamo estremo bisogno della Sua infinita misericordia e dell’intercessione della Sua Madre Santissima. Non bisogna dimenticare che, mentre abbiamo la certezza di essere esauditi se chiediamo grazie spirituali, dato che nulla il Signore desidera di più che la salvezza delle anime, non possiamo essere certi di ricevere grazie temporali perché non ci è dato sapere se sarebbero o no per il nostro bene: solo il Signore lo sa meglio di noi. E non basta ancora: bisogna essergli grati anche per le prove che ci manda, perché ci valgono a sconto dei peccati e per essere più simili a Lui, che non si è incarnato sulla terra per essere servito, ma per servire e per salvarci dalle orribili conseguenze del peccato.
E ancora non basta. Cosa manca? Manca la seconda P, il perdono. Come potremmo sperare di essere perdonati se a nostra volta non perdonassimo? Dovremmo anzi essere grati a chi ci ha fatto del male, per averci dato occasione di perdonarlo, in modo che noi e lui possiamo ottenere aiuto e salvezza. La sua salvezza ricadrebbe come beatitudine su tutti quelli che sono spiritualmente uniti al Salvatore.
Se si riesce a giungere a questo punto, rimane molto più facile esercitare la pazienza di fronte alle pene della vita terrena, soffocando moti di scoraggiamento e di inutile ribellione. La pazienza è un dono che, come tutti i doni celesti, il Signore concede assai più largamente rispetto ai nostri poveri meriti, ma che va comunque in qualche modo meritata e, per ottenerla, occorrono appunto preghiera e perdono delle offese.
Tenendo fermi i primi tre punti, occorre tenere ben presente il quarto, senza il quale essi finirebbero per vanificarsi: la perseveranza. Si possono formulare i migliori propositi, e anche tenervi fede per un certo tempo, ma se si comincia a stancarsi e fare sconti nella preghiera, a riattivare i risentimenti, a perdere la pazienza nei rapporti col prossimo, non si fa che vanificare tutto o in parte lo sforzo compiuto. La perseveranza dev’essere quindi il collante che tiene insieme tutta questa struttura di vita ordinata.
Possono esservi altri P? Certo: pudicizia, pietà, prudenza, e così via. Ma appaiono abbastanza impliciti nella spinta alla preghiera. Chi prega, lo fa anche per liberarsi dai peccati, anzitutto quelli contro il sesto comandamento, dimostra pietà religiosa, o almeno vi aspira. E prega per non essere colto impreparato alla fine e al Giudizio, dunque esercita salutare prudenza. Sembra quindi che tenersi saldamente alle quattro P – preghiera, perdono, pazienza, perseveranza – sia un compendio di quanto occorre per non finire nelle grinfie del maligno ed essere invece preparati a trovare la beatitudine eterna.
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